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lunedì, Dicembre 23, 2024

Non c’è tempo per il PiTESAI e salta la moratoria: le trivelle tornano in azione?

Il 30 settembre scadono i termini per l’approvazione del Piano che dovrebbe essere lo strumento di pianificazione generale delle estrazioni di idrocarburi nel nostro Paese. Senza il PiTESAI e senza una nuova proroga della moratoria potrebbero tornare le perforazioni, sia a terra che a mare. Per Augusto De Sanctis “ciò dà l’idea dell’arretratezza del nostro Paese”

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

“Rispetto all’evoluzione internazionale sui temi dell’energia e del cambiamento climatico, il nostro PiTESAI è uno strumento vecchio che arriva fuori tempo massimo. Andava fatto forse 15 anni fa, non certo oggi. Nel senso che esiste una discrasia tra i report dell’Ipcc e dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, che suggeriscono la fine delle estrazioni fossili, e quel che viene fatto in Italia, dove ancora discutiamo di un Piano che dovrebbe indicare le zone idonee per nuovi pozzi, dando per scontato che comunque da qualche parte bisogna estrarre”. Augusto De Sanctis da oltre 30 anni si batte a tutela dell’ambiente e della natura. Consulente per vari enti locali in materia di Valutazioni di Impatto Ambientale (VIA), qualità delle acque e bonifiche, è anche un attivista territoriale abruzzese che ha condotto le battaglie, vincenti, contro il Centro Oli di Ortona (voluto da Eni) e Ombrina Mare, che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere il più grande progetto estrattivo di petrolio offshore in Italia al largo della Costa dei Trabocchi.

A lui abbiamo chiesto un commento sul PiTESAI, la proposta di Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, che dovrebbe definire, entro il 30 settembre, i territori idonei allo sviluppo di nuove perforazioni per la ricerca e l’estrazione di gas e alla prosecuzione di progetti petroliferi già esistenti. Peccato che i tempi siano estremamente risicati: il 14 settembre è scaduto il termine per la presentazione delle osservazioni. In appena due settimane il ministero dovrebbe recepire le osservazioni, numerosissime e molto dettagliate, e sottoporre il nuovo Piano alla Conferenza Unificata Stato-Regioni per l’ultima approvazione – per quel che riguarda le zone di terra, mentre sul mare basterà la Valutazione Ambientale Strategica (VAS). Troppo poco tempo, tanto che a meno di proroghe dell’ultima ora, dall’1 ottobre è ormai certo che potranno ripartire nuovi permessi per perforazioni ed estrazioni. Da tre anni, infatti, in Italia è stata vigente una moratoria che ha consentito soltanto di portare avanti le attività preesistenti al 2018, anno in cui lo strumento di pianificazione previsto dal governo Conte I è diventato legge (col cosiddetto Decreto Semplificazioni). Un processo complicato, che ha avuto bisogno di due proroghe, e che rischia di concludersi con un nulla di fatto. Davvero non si poteva fare meglio di così?

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Piovono critiche sul Piano

A ridosso dell’ultima (forse) scadenza, le critiche piovute sul Piano sono state numerose. “Oggi le aree coperte in mare da titoli minerari già rilasciati e istanze depositate sono vaste 16.983 chilometri quadrati – scrivono ad esempio in una nota il Forum H2O e la Stazione Ornitologica Abruzzese -, con il nuovo piano i petrolieri potranno arrivare a ben 28.777 kmq. In terraferma il calcolo è più complesso perché il ministero non riesce neanche a mettere su carta i parchi nazionali (!). Comunque attualmente sono 45.500 i kmq coperti da concessioni e istanze e il Piano consentirebbe di aumentare la superficie da concedere ai petrolieri anche in aree di straordinaria importanza per l’acqua di falda e dal punto di vista del patrimonio naturalistico di livello europeo, con specie come l’orso bruno, l’aquila reale, il lanario e gli habitat protetti. Fortunatamente oltre a noi stanno contestando il Piano dal punto di vista tecnico e strategico anche regioni e altri enti”.

Ed è proprio così: a guardare la pagina delle osservazioni sul PiTESAI, si nota l’eterogeneità dei partecipanti. Dalle Regioni alle più note associazioni ambientaliste, dall’Ente Acquedotto Pugliese (la più grande infrastruttura idrica del Paese) ai Comuni fino agli enti parco, ciascuna aggiunge un pezzo di critica. Allo stesso tempo, pur nella diversità di contenuti e toni, vengono criticati determinati aspetti del Piano:

  • la possibilità di perforare anche i Siti di Interesse Comunitario (SIC) e le Zone di Protezione Speciale (ZPS), rimandando poi a valutazioni caso per caso, come già avviene oggi. In molti si sono già chiesti: allora a che serve un nuovo Piano?
  • la genericità di molte affermazioni, la “documentazione lacunosa” come viene definita da Wwf-Greeenpeace-Legambiente, la carenza di dati e la mancanza di una bibliografia aggiornata: come abbiamo già accennato, mancano ad esempio i report dell’Ipcc e dell’Eia, così come le indicazioni europee del pacchetto Fit for 55. E manca pure l’aggiornamento del Pniec, il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima. Nei due anni di redazione del Pitesai, insomma, la sensibilità, anche istituzionale, è cambiata parecchio;

A questo quadro De Sanctis aggiunge un ulteriore elemento di riflessione. “Servirebbe un Piano invece per indicare quando e dove dismettere, altro che nuovi permessi di ricerca – afferma – Se perfino un ente ultraconservatore come l’Agenzia Internazionale per l’Energia indica che bisogna smetterla di rilasciare nuove concessioni qualcosa vorrà dire. L’Italia fa peggio, e ciò dà l’idea dell’arretratezza culturale e sociale del nostro Paese, con la classica ricerca dei sotterfugi in cui rimaniamo purtroppo molto bravi”.

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Nessuna exit strategy per la Basilicata

Tra le (poche) Regioni che hanno presentato osservazioni alla proposta di Piano c’è la Basilicata. Così come un’attenzione specifica è stata dedicata, nelle 77 pagine di osservazioni, anche dalle associazioni ambientaliste Wwf, Legambiente e Greenpeace. Le quali sono partite dal fatto che la Basilicata “attualmente fornisce quasi l’80% della produzione nazionale di olio minerale”, con tutto ciò che ne consegue in termini di impatti – ambientale, sociale, culturale ed economico – rispetto alla presenza petrolifera lunga più di 20 anni. “Per le due concessioni in essere, Val D’Agri e Gorgoglione, invece ci saremmo aspettati – rimarcano Wwf Legambiente e Greenpeace – l’indicazione precisa dei tempi e modi di dismissione e rimessa in pristino dei luoghi da parte delle relative installazioni che non possono andare oltre la data di scadenza delle suddette concessioni rispettivamente al 2029 per Val D’Agri ed al 2028 per Gorgoglione, se le rispettive proroghe giungeranno alla conclusione dell’iter amministrativo. Peraltro queste date di fine estrazione dovrebbero essere comunque subordinate al raggiungimento di livelli di sostenibilità ambientale sociale ed economica delle attività petrolifere in Basilicata, che storicamente non sono state mai garantite; il fornire indicatori certi per misurare questo requisito deve costituire un elemento indispensabile del PiTESAI e in caso di inidoneità delle aree, l’attività estrattiva dovrebbe essere coerentemente sospesa”.

Il rischio maggiore per le concessioni lucane, insomma, è che in assenza di criteri ben precisi si possa procedere di rinnovo in rinnovo per “garantire la continuità dell’estrazione di olio e gas in modo aprioristico, non supportato da alcuna analisi territoriale e soprattutto da adeguati studi sugli impatti che l’attività estrattiva ha sino ad ora avuto in Basilicata”. Non esiste cioè una exit strategy dalle fonti fossili. Secondo le tre maggiori associazioni ambientaliste italiane, invece, “questa ineludibile strategia d’uscita dovrebbe consistere nell’avvio immediato di un grande processo di graduale dismissione delle attività e di riconversione produttiva verso comparti moderni e sostenibili oltre il petrolio, recuperando nel contempo una percezione diffusa a livello locale delle reali potenzialità del territorio”.

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Una transizione ambigua

Ciò che vale per la Basilicata, ovvero la mancata definizione di una exit strategy dalle fonti fossili, vale a ben vedere per l’intero Paese. Il dibattito sulla transizione ecologica, infatti, si arena ogni volta che si parla di quella energetica. Tra annunci vaghi sul nucleare e prese di posizioni poco coraggiose sull’economia circolare, non sono ancora chiare le priorità del ministero. Cingolani ha recentemente affermato a L’Espresso che “possiamo diventare gli Emirati Arabi del futuro” (magari non alle stesse condizioni sociali e lavorative, nda), date le condizioni ottimali per lo sviluppo delle energie rinnovabili. E allora perché insistere con la ricerca di nuovo petrolio e gas? “Avrebbe dovuto essere proprio lo stesso ministero a chiedere un ulteriore rinvio – commenta ancora De Sanctis – e invece non mi sembra che Cingolani si stia stracciando le vesti”.

Resta il fatto, ampiamente noto, che le fonti fossili in Italia sono poche, spesso di scarsa qualità, e incidono ben poco alla bolletta elettrica: Legambiente stima il contributo sui consumi interni lordi intorno al 2,6% per il gas e il 2,4% per il petrolio. Non si poteva partire da questo punto di osservazione nella redazione del Pitesai? “C’è di più – commenta ancora l’esperto – Per come è strutturato il comparto in Italia, una volta che le compagnie energetiche pagano le royalties, tra le più basse del mondo tra l’altro e con un regime di esenzione particolarmente generoso, l’energia ricavata dalle estrazioni viene comunque rivenduta a prezzo pieno. Non è che se scavi in Adriatico il gas poi questo gode di qualche agevolazione. Da una parte si ragiona come se fossimo di fronte a un regime nazionalizzato, e dunque si spinge per estrarre in loco, dall’altra poi si applicano le tariffe internazionali di mercato quando si deve rivendere il metro cubo di gas o di petrolio. Solo il costo del trasporto si ammortizza, ma questo incide pochissimo sul totale”.

Lo si nota ad esempio dai recenti aumenti in bolletta che infatti dipendono dal gas importato dalla Russia che non da quello nazionale. “Noi crediamo che tra pochi anni il metano sarà considerato alla stessa stregua del carbone – afferma l’attivista abruzzese – Anche perché, e anche qui si tratta di un dato noto, se per puro caso da domani noi avessimo a disposizione il 100% del gas italiano per il nostro fabbisogno energetico non cambierebbe nulla, perché il prezzo comunque lo decide il mercato e noi restiamo un Paese fortemente debitore dalle importazioni estere”.

Le ipotesi in campo

Abbiamo detto che lo scenario più probabile è quello per cui il PiTESAI non verrà approvato nei tempi. Con la sua mancata adozione, andrebbe a cadere anche la moratoria che finora ha bloccato i processi di concessione e la proroga degli stessi, e in teoria si potrebbe dare il via a nuove ricerche e a nuove coltivazioni. Insomma, tutto come prima del 2018. O quasi. Per provare a delineare le questioni ancora aperte, in un settore che nel solo 2020 ha goduto di 35,7 miliardi di euro di sussidi statali secondo le cifre di Legambiente, abbiamo chiesto un confronto a Giovanni Vianello, deputato pugliese che da poco ha lasciato il M5s in disaccordo proprio con le politiche ambientali portate avanti dal governo. “La Commissione tecnica della VIA sta lavorando alla fase istruttoria, per rispondere nel merito e integrare il Piano – dice Vianello – Dopo questo parere servirà poi comunque il decreto della VAS. Tempi veramente improbabili, specie se consideriamo che questi aspetti valgono per la parte a mare, dove la competenza è solo statale, mentre sulle estrazioni a terra, dove la competenza energetica è concorrente tra Stato e Regioni, a ciò bisogna aggiungere la Conferenza unificata. L’ipotesi più probabile è dunque che le estrazioni ripartano sia in mare che in terra. In ogni caso, infine, se anche il governo facesse il miracolo bisognerebbe poi valutare quel che viene scritto”.

Per il deputato, infatti, la vera partita è (anche) un’altra. Dal 9 giugno la Commissione europea ha aperto una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per la mancata tutela delle aree protette, nello specifico ha invitato il nostro Stato a garantire un’adeguata protezione degli habitat e delle specie ai sensi della direttiva Habitat e della direttiva Uccelli. “Questo provvedimento riguarda specie importanti, come ad esempio i capidogli e le tartarughe caretta caretta – afferma Giovanni Vianello – che vivono nelle aree in questo momento sospese da nuovi permessi di ricerca e di prospezione. La domanda è: come verranno inglobate queste nuove aree dal PiTESAI, dato che finora non sono state definite come protette dal ministero?”

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“Cingolani? Altro che ambiguità, è chiaramente pro-trivelle”

Una domanda non da poco quella che si pone Vianello. Soprattutto perché arriva da uno dei maggiori fautori, insieme all’ex ministro all’Ambiente Sergio Costa, della moratoria lungo due anni e mezzo che ha finora frenato gli appetiti delle compagnie energetiche. Le quali, nel silenzio pressoché generale, sono pronte a ripartire. “Anche le due proroghe alla moratoria vedono la prima firma del sottoscritto – sottolinea il deputato – Anzi, a dirla tutta a febbraio 2021 io avevo chiesto di prorogare di ulteriori mesi 12 mesi sia il termine di redazione del PiTESAI che quello della moratoria, con il termine che sarebbe scaduto ad agosto 2022. La ratio della norma prevedeva infatti 6 mesi in più per la moratoria, proprio perché si voleva dare il tempo necessario per la stesura del Piano. A febbraio invece il ministero della Transizione ecologica ha riformulato le scadenze che avevo proposto con un mio emendamento, unificandole al 30 settembre”.

Nella ricostruzione di Vianello il ruolo del Mite è dunque attivo. “Ancor più grave è il fatto che nel decreto Semplificazioni io avevo proposto una moratoria definitiva per tutti i procedimenti che ancora non sono stati rilasciati e per quelli futuri. Così avremmo bloccato nuovi airgun (la contestata tecnica geologica che produce detonazioni continue dall’impatto sonoro almeno doppio rispetto a quello del decollo di un jet, nda) e nuove trivelle. Anche in questo caso il ministero a luglio ha dato parere negativo, nonostante alla Commissione Ambiente il mio emendamento non sia passato per pochi voti”.

Di fronte a questi atteggiamenti, Vianello fa una valutazione politica netta. “Altro che ambiguità, il ministro Cingolani è chiaramente a favore delle trivellazioni. La moratoria di questi due anni aveva riguardato mari dove esistono specie estremamente protette, che sono nella lista rossa dell’Unicef e a pericolo di estinzione. Nonostante la procedura di infrazione in corso, ora qui ripartiranno i procedimenti in corso. Altro che transizione ecologica. Ecco perché a mio modo di vedere dall’1 ottobre, se tutto andasse come abbiamo previsto, le dimissioni di Cingolani saranno inevitabili”.

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