“Il ministero ha parlato in un post su facebook di trivelle sostenibili. Questo è l’equivoco di fondo del PiTESAI, dato che le trivelle sono insostenibili”. Enzo Di Salvatore è docente di Diritto costituzionale all’università di Teramo e tra i promotori del master “Diritto dell’Energia e dell’Ambiente”. Esponente in prima linea del referendum “no triv” del 2016 (che non raggiunse il quorum), Di Salvatore prende posizione con parole nette e inequivocabili.
EconomiaCircolare.com gli ha chiesto un commento “a caldo” sul PiTESAI, il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee, con il quale il governo intende indicare entro il 30 settembre – e dopo parecchi rinvii – le aree in Italia dove sarà possibile continuare a estrarre petrolio e gas. L’intenzione è di rendere il settore fossile, che è uno dei più inquinanti e più nocivi a livello di emissioni, più sostenibile. Dopo il lancio della consultazione pubblicalo scorso 16 luglio, fino al 14 settembre territori e addetti ai lavori potranno inviare le loro osservazioni.
Partiamo dal lancio, finalmente, della consultazione pubblica. Ci si arriva a distanza di più di due anni e mezzo dall’indicazione che era stata data col primo Decreto Semplificazioni, a dicembre 2018. Perché tutte queste difficoltà? Sarà la volta buona per l’adozione del PiTESAI?
Francamente è stato un iter talmente complesso che sorge qualche dubbio sul fatto che si riuscirà a portare a termine. Nel senso che manca il parere della Conferenza unificata, che dovrebbe esprimersi dopo la consultazione che avrà termine a metà settembre, a meno che contestualmente non abbiano inviato tutta la documentazione ai Comuni e alle Regioni che siedono in conferenza, i quali devono arrivare a un’intesa a loro volta entro 60 giorni. Se non riescono la prima volta avranno successivi 30 giorni per accordarsi e, se non riescono neanche al secondo giro, o se si pronunciano negativamente, il Piano entra in vigore soltanto per le aree marine e non per la terraferma. Il punto è che non sappiamo se si farà in tempo. Poi c’è una questione di merito.
Ovvero?
Non si comprende cosa intenda il ministero con l’acronimo PiTESAI. Perché in teoria è un Piano, cioè uno strumento che va a individuare le aree idonee alla transizione energetica, e anche questo è un aspetto un po’ bizzarro perché il Piano dovrebbe escludere le zone non adatte, e non invece ammettere quelle reputate idonee. Tra l’altro il Piano, secondo quanto previsto dalla legge, dovrebbe appunto individuare quelle aree ma consultando i documenti scopriamo che si tratta sostanzialmente di un atto di indirizzo generale che individua i principi e i criteri in base ai quali saranno poi le amministrazioni ad ammettere o ad escludere le attività fossili. Il Piano per definizione deve pianificare, deve dire con certezza dove si possono realizzare le attività idrocarburiche e dove no, e invece ciò non succede. Il timore è che si finisca per lasciare ulteriore discrezionalità in mano agli enti locali, che andranno così inevitabilmente in ordine sparso. Con una premessa a mio modo di vedere altrettanto discutibile, cioè che il Piano si applica alle aree dove ci sono già richieste di prospezione e ricerca.
In effetti il PiTESAI riguarda poco meno di mezza Italia, esclude interamente altre Regioni e ancor meno riguarda le superfici marine. Cosa ne sarà delle aree che non sono definite dal PiTESAI?
È questo il punto. Cosa vuol dire aver lasciato fuori dal Piano mezzo Paese? Che bisogna ritenere che non si può trivellare o che saranno poi i singoli enti a dover decidere, qualora si presentassero nuove richieste autorizzative? I documenti sembrano suggerire la prima lettura, ma non essendoci espressamente una legge che dice ciò qualche dubbio rimane. Quel che sembra dunque un criterio restrittivo potrebbe dunque significare il suo contrario. Allo stesso tempo non vengono definite esattamente le aree escluse dall’applicazione o, meglio, l’elenco che viene proposto nei documenti è una summa di ciò che già esiste a livello nazionale ed europeo. Per intenderci: il fatto che non si può trivellare entro le 12 miglia lo aveva già disposto un provvedimento del governo Berlusconi, oppure il fatto che non si possa trivellare nel golfo di Napoli è previsto già da una legge del ‘91. Quindi il Piano finisce per dettare alcuni criteri, talmente generali come la sostenibilità intesa a livello ambientale, sociale ed economica (chi è che non è d’accordo con ciò) che è facile immaginare che si arriverà facilmente a un accordo in sede di Conferenza unificata. Però rimane la questione che la palla poi passerà agli enti locali, con margini molto ampi di discrezionalità.
In quella sostenibilità intesa sotto la triplice forma ambientale/sociale/economica ciò che sembra venir fuori è che il ministero sceglie di non scegliere a quale aspetto dare priorità. Dall’ex ministero dell’Ambiente ci si sarebbe aspettata una presa di posizione molto più netta, perché se da un lato si indica che nelle scelte il criterio ambientale sarà prevalente nelle decisioni per nuove autorizzazioni, dall’altro il documento parla di “transizione energetica” che non deve comportare shock nel settore. Come a dire che la transizione sarà molto lenta, o no?
Anche a me sembra che si parta dal criterio ambientale e si finisca per dare più importanza al criterio economico. Si dice ad esempio che andranno a morire, e dunque non verranno prorogate, le concessioni che negli ultimi 7 anni si sono rivelate improduttive. Ma questo è già nell’ordine delle cose, è già interesse sia dello Stato che delle compagnie petrolifere non prolungare i pozzi non più fruttuosi. Specie nelle conclusioni del rapporto preliminare, si sposta la decisione sulle nuove autorizzazioni sulla sostenibilità economica.
Tanto che il Piano spinge più volte sulla parola razionalizzazione e soprattutto afferma che le concessioni più produttive, cioè quelle dove c’è la certezza di una notevole mole di petrolio e gas, verranno comunque rilasciate. Di più: si fa riferimento ad esempio ai pozzi esplorativi Argo e Cassiopea, nella costa siciliana tra Gela e Licata, dove si dà per assodato il principio secondo il quale siccome c’è molto gas allora conviene trivellare (anche se ancora, ufficialmente, le attività non sono partite).
Sorprende che il ragionamento sulla convenienza economica di un giacimento lo faccia lo Stato e non la singola compagnia petrolifera. E in ogni caso anche questo aspetto si ricava dalla normativa esistente, non c’è bisogno del Piano. A me sembra che si tradisca il senso dell’art.11ter della legge del febbraio 2019, che definisce il PiTESAI e indica di “individuare un quadro definito di riferimento delle aree ove è consentito lo svolgimento delle attività”. Semplicemente perché queste aree vengono definite per esclusione facendo l’elenco di quel che già esiste a livello normativo. Non mi sembra che così si metta ordine. Anzi, se dovesse esserci un ricorso da parte dei cittadini per un permesso rilasciato, si potrà sempre obiettare che la scelta delle amministrazioni locali ricade nel quadro di riferimento, volutamente generico, che è stato definito dal governo. Non vorrei che l’epilogo fosse questo.
Tra gli strumenti previsti per stabilire la sostenibilità di un giacimento viene poi nuovamente rispolverata l’analisi costi benefici. Anche questo un criterio più economico che ambientale, come ad esempio ci ha insegnato la vicenda del Tav.
Esatto, è proprio questo il punto. Se conviene o non conviene fare o meno un’opera diventa, con strumenti del genere, un’analisi prettamente economica. Altro che pianificazione ambientale.
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