“Così pensato il PNNR è già un’occasione perduta”. Quale occasione migliore per parlare di partecipazione se non il momento in cui il nostro Paese, e l’Europa intera, stanno progettando il proprio futuro coi fondi Next Generation Eu. Lo facciamo con Ilaria Casillo, professoressa associata all’Università Paris-Est Marne-la-Vallée, vicepresidente della Commissione nazionale francese del Dibattito pubblico, che in passato ha lavorato presso il CNR francese per il polo “Democrazia e partecipazione“, dove è stata la coordinatrice scientifica e editoriale del primo dizionario francese della partecipazione (2011-2013).
Partiamo da una domanda ineludibile: Cosa pensa della governance del Pnrr, e in particolare della cabina di regia che accentra i poteri sul presidente del Consiglio?
Non ho seguito molto la questione, di cui si parla, del resto, sin dal tempo del governo Conte. C’è un problema: il modo non democratico con cui il piano rischia di essere pensato, adottato e messo in pratica, dal punto di vista non solo della democrazia partecipativa, ma anche di quella rappresentativa. Siamo in presenza di un “regime di urgenza”. Quando c’è questo, tutto salta.
Per esempio, c’è una sovralegittimazione dei saperi scientifici. Si pensa che nei passaggi democratici si debba fare presto e bene e si dà una risposta immediata al problema nel breve termine, e non una nel lungo che chiama in causa diversi gradi di responsabilità. Quando si è in un regime d’urgenza si tende a passare alla “responsiveness”, infatti: così si eliminano prospettive di lungo periodo.
In secondo luogo, non solo gli attori della società civile, ma anche quelli dei governi che si sono riempiti la bocca con frasi del tipo “nulla sarà come prima” non vedono il problema: se tu ridefinisci questo “nulla sarà come prima” stai ridefinendo una politica di ampio respiro, di vasta scala, con una temporalità lunga che, per esempio, chiama in causa altre generazioni e non parlo solo dell’aspetto legato alla transizione ecologica, o delle politiche legate all’impatto ambientale, perché ci sono moltissimi aspetti che riguardano le politiche energetiche e l’esposizione a rischi naturali, per esempio. Bisognerebbe introdurre anche in Italia, come accade già in Francia, il dibattito pubblico. Non solo per rendere la decisione più legittima e più condivisa, ma soprattutto per renderla di migliore qualità. Perché si rischia sempre di più non solo di avere progetti, ma di avere politiche pubbliche scollate dagli attori che vi sono implicati. Parlo anche degli attori istituzionali, come i Comuni, e anche degli attori economici che dovranno portare avanti i progetti, perché magari non condividono le modalità di farlo o che vorrebbero fare dei progetti in modo completamente diverso. Quindi ciò che è in gioco nella questione della democraticità delle opere in Italia, non è solo la legittimità della maniera in cui si decidono le cose, ma anche la qualità delle opere che vengono realizzate. I progetti più condivisi non sono solo più legittimi ma sono anche migliori. Anche perché così si evita di fare errori. Anche quando si parla di “governo dei migliori”, bisognerebbe tener conto di questa cosa: un piano più condiviso e partecipato è un piano migliore. È proprio il lavoro meticoloso del dialogo con i territori e con i diversi attori che manca sistematicamente.
Questa non è solo una miopia politica ma è anche una defaillance giuridica, visto anche che l’Italia è firmataria della Convenzione di Aahrus, che prevede che ogni progetto che ha un impatto considerevole sull’ambiente, sul quadro di vita, sugli aspetti socioeconomici, i cittadini hanno diritto di partecipare, in primo luogo ad essere informati, su quanto costa, sui tempi che ha, su quale lavoro genera; poi anche a dir la loro, e, in terzo luogo, a ricorrere in giudizio. Infine ad essere informati su come i loro punti di vista sono stati presi in considerazione. Il diritto di cui parliamo è completamente sconosciuto in Italia, però strutturerebbe in modo completamente diverso la progettistica del Paese, e renderebbe le decisioni più democratiche. Secondo me servirebbe anche a ricomporre quel rancore democratico che c’è in alcune fasce della popolazione, che sono completamente estranee alle decisioni che vengono prese.
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Sta dicendo che esiste una specie di “principio di eccezione, di emergenza” che sta guidando il Pnrr? Se fosse così staremmo in netta continuità con quanto ha guidato i provvedimenti che hanno segnato la pandemia, e che dovrebbe essere messo da parte, dato che non è appropriato ad una vera logica di “ricostruzione”.
Certamente. È come se si fosse ancora nel regime di urgenza. Nella gestione di una catastrofe ambientale, di una crisi o di una situazione di emergenza, i governanti tendono a riprodurre due riflessi. Il primo consiste nel considerare i cittadini come semplici beneficiari della risposta e della soluzione, a considerarli troppo “ignoranti” per poterli coinvolgere anche minimamente nell’identificazione del problema e quindi della soluzione. Si tende a volte anche a colpevolizzarli per i loro compartimenti o a stigmatizzare i loro dubbi, le loro paure e le loro reticenze (come ad esempio nel caso dei vaccini).
Il secondo consiste nel grande ruolo dato ai tecnici ed esperti. Ci si potrebbe però legittimamente chiedere: ma quale scienza consiglia “il re”? È orientata? Come? La scienza dice una verità situata nel tempo e nello spazio, e non assoluta. Quali sono le controverse scientifiche che i cittadini hanno il diritto di sapere? Quanta trasparenza ha accompagnato il discorso scientifico che doveva consigliare i governanti? Di tutte queste questioni, nella sfera pubblica e mediatica, se n’è parlato pochissimo. Ed è una questione anche di trasparenza.
Non è sempre accaduto durante la gestione della pandemia. Non si sono esplorate tutte le possibilità che si aprivano con la pandemia, nel bene e nel male. Tante esperienze hanno mostrato che si può reagire meglio, anche in maniera virtuosa.
L’impressione è che con il Piano si stanno reiterando due grandi errori: quello di sottovalutare i saperi sociali, e non solo materiali e a dare un’enorme legittimazione a queste cabine di regia fatte di tecnici, con una mancanza di visione di lungo respiro. Cosa vogliamo? A cosa deve somigliare la società italiana da qui ai prossimi vent’anni? Questa massa enorme di soldi che verrà riversata sull’Italia, strutturerà non solo la rete infrastrutturale, ma anche la nostra società, il nostro grado di apertura verso gli altri, le nostre pratiche lavorative e mobilità. La vogliamo porre la questione? Sicuramente a tutto questo non può corrispondere una cabina di regia: come deve diventare la società italiana da qui a 20 anni, è una questione che si devono porre i corpi sociali, le rappresentanze sindacali, le rappresentanze associative, la cittadinanza in senso ampio. Sembra così banale, ma invece non lo è.
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Come farebbe rientrare lo strumento del dibattito pubblico all’interno del Pnrr?
Farei un grande dibattito pubblico: bisognerebbe che il governo identificasse due o tre assi strutturali del Piano, ossia tutte le scelte maggiori rispetto alle quali esistono delle alternative, anche tre o quattro strade possibili. Questo per capire dove dovremmo andare, come italiani. Sulla questione della ricerca, della transizione ecologica, della progettualità, della fattualità delle grandi e piccole opere. Ci vuole una grande campagna nazionale, portata e incarnata dai politici, dove loro dicano: “Abbiamo deciso di rivolgerci a tutti voi”. Perché bisogna avere una mobilitazione di massa. Non deve restare una roba tecnica, perché sennò non decolla. Hai bisogno di creare un sacco di discussione, nelle Università, nelle scuole, etc. Ovviamente con un tempo congruo. Non puoi andare di fretta. Non si decide di una massa di soldi così in poco tempo. Non puoi: c’è un tempo giusto che si deve alla riflessione, a ponderare, a identificare le alternative. Il modello francese è il più all’avanguardia rispetto agli altri in Europa, perché i testi di legge sono molto all’avanguardia, e perché si introduce la logica ambiziosa della deliberazione, ma anche perché nella sfera pubblica francese si è molto parlato di democrazia partecipativa, sin dalla crisi dei Gilets Jaunes. Per esempio, ci sono moltissimi Comuni che vogliono adottare il meccanismo dei cittadini estratti a sorte, ed è come se fosse diventato l’alfa e l’omega della partecipazione. Nella storia pubblica francese la questione della democrazia partecipativa e deliberativa è entrata. Anche in Italia, in realtà, dal 2016, esiste l’istituto del dibattito pubblico: ma solo qualche settimana fa è stata istituita la CNDP (Commissione nazionale del dibattito pubblico) che gestisce la procedura. Il che è un’ottima notizia.
Purtroppo non è ancora dotata di fondi idonei. La maniera in cui è stato istituito il dibattito pubblico è problematica perché è stato previsto dal codice degli appalti e non in quello dell’ambiente. Per ora sembra un istituto giuridico ancora troppo sconnesso. L’elemento più preoccupante è che, qualche mese fa, è stata introdotta, dall’art. 8 del disegno di legge Semplificazioni, una deroga che prevede di saltare la fase del dibattito consentendo di procedere direttamente agli studi di pre-fattibilità tecnico-economica nonché alle successive fasi progettuali. Questo lascia senza parole. L’ultima versione del DL Semplificazioni prevede che: “Un taglio drastico da 120 giorni a 30 per lo svolgimento del dibattito pubblico sulle opere da realizzare in tutto o in parte con le risorse del Pnrr”. Così pensato il PNNR è già un’occasione perduta.
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Secondo lei c’è una relazione intima e politica tra la richiesta della democrazia partecipata e la questione ecologica?
Sì, secondo me la transizione ecologica è prima di tutto una transizione democratica, e questo in senso radicale. Ti faccio un esempio illuminante. Se prendiamo gli ultimi libri che parlano della questione ambientale e dei conflitti ambientali hanno tutti, nel titolo, il riferimento alla democrazia. Tutti questi lavori indicano un aspetto particolare del conflitto. Infatti, quando hai dei conflitti ambientali hai tre tipi di possibilità: 1) sono contro il progetto, perché non è un buon progetto; 2) esistono perché il progetto veicola un modello di società al quale non si aderisce; 3) ci sono perché la maniera in cui è stato deciso il progetto non è democratica. Se ci fai caso, in tutti i conflitti più radicali, tipo la Tav, questi tre aspetti si sovrappongono. Quando sono tutti e tre presenti si arriva ad un radicalismo dei conflitti. Ora, tutti questi libri sottolineano il conflitto procedurale, la maniera in cui si è deciso. Probabilmente non si sono messi d’accordo nel farlo, ma tutti indicano il deficit democratico. Ciò indica che la maniera in cui si decide è determinante per la transizione: non c’è transizione ecologica senza transizione democratica.
Come definirebbe l’epoca in cui ci troviamo: post-democratica o di crisi democratica?
Purtroppo non credo che oggi ci sia una domanda di democrazia partecipativa. Ma penso che ci sia una richiesta di “pesare di più sulla decisione”. Che non è la stessa cosa. Si può chiedere di essere più ascoltati e di pesare di più sul posto di lavoro, senza voler per forza essere in un processo partecipativo. Questo corrisponde alla domanda di una democrazia più allargata, e non solo partecipativa. Non credo che ci troviamo in un’epoca post-democratica, ma viviamo sicuramente in un’epoca in cui bisogna allargare il cerchio della democrazia. Soprattutto dove si può affermare una vera “Isegoria” (l’eguale possibilità di prendere parola in pubblico e a livello politico, ndr), una possibilità esprimersi e di portare la parola nella sfera pubblica. Siamo in piena epoca di “transizione partecipativa”.
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