Il pezzo forte sono quegli stivali da neve neri acquistati in Svizzera: portati da Greenpeace in laboratorio hanno rivelato una presenza di DEHP (un composto appartenente al gruppo degli ftalati) pari a 685.000 mg/kg. Secondo il regolamento REACH dell’UE (Registration, Evaluation, Authorisation of Chemicals), che regola la presenza di sostanze chimiche pericolose nei prodotti in vendita sui mercati europei, la presenza deve essere inferiore a 1.000 mg/kg. Greenpeace ne ha trovati 685 volte il limite di legge. Gli ftalati sono prodotti usati, tra l’altro, nella produzione di plastica: sono interferenti endocrini, alterano cioè il regolare equilibrio ormonale dell’apparato endocrino con conseguenze come tumori, disturbi dello sviluppo, problemi nella capacità riproduttiva, malformazioni nel feto in caso di gravidanza. Quegli stivali, insomma, sono una bomba tossica. Eppure, insieme ad altri prodotti che Greenpeace Germania ha acquistato e fatto analizzare in laboratorio nel corso di un’indagine sul brand dell’ultra-fast fashion SHEIN, se ne vendono a milioni.
“L’uso di sostanze chimiche pericolose è alla base del modello di business di SHEIN – commenta Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace Italia – con alcuni prodotti illegali che stanno invadendo i mercati europei. Chi paga il prezzo più alto della dipendenza chimica di SHEIN sono i lavoratori che operano nelle filiere produttive del colosso cinese e sono esposti a seri rischi sanitari, ma anche le popolazioni che vivono in prossimità dei siti produttivi”. E, ovviamente, i consumatori che quei prodotti li indossano.
I risultati dell’indagine di Greenpeace
Gli stivali da neve, come abbiamo già detto, sono solo un esempio di quello che Greenpeace definisce “il disinteresse di SHEIN nei confronti dei rischi ambientali e per la salute umana”.
Greenpeace Germania ha acquistato 47 articoli – abiti e calzature per uomo, donna, bambino e neonato – dai siti web di SHEIN in Austria, Germania, Italia, Spagna e Svizzera e 5 articoli da un negozio a Monaco durante l’Oktoberfest, in Germania, e li ha inviati a un laboratorio indipendente per le analisi sulla presenza di numerose sostanze chimiche (composti organici volatili, alchilfenoli etossilati, formaldeide, ftalati, PFAS, metalli pesanti, ecc.). Il risultato delle analisi è stato pubblicato oggi, a pochi giorni dall’abbuffata di acquisti che ci attende col Black Friday: il 15 per cento dei capi del marchio di ultra-fast fashion ha fatto registrare quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee e, quindi, “da considerarsi illegali a tutti gli effetti”. In altri quindici prodotti (32 per cento) le concentrazioni di queste sostanze si sono attestate a livelli comunque preoccupanti perché prossime si limiti del REACH. Sommando i prodotti illegali a quelli con concentrazioni preoccupanti, arriviamo a poco meno della metà di prodotti analizzati (47 per cento).
I sette prodotti fuori legge (pari appunto a circa il 15 per cento di quelli portati in laboratorio) sono stati realizzati interamente o in parte con materiali sintetici derivanti dalla raffinazione dei combustibili fossili: 6 dei 7 erano stivali o scarpe. Livelli molto elevati di ftalati sono stati trovati in 5 stivali o scarpe, con concentrazioni superiori a 100.000 mg/kg.
In un tutù colorato per bambina è stata trovata formaldeide: 130 mg/kg nel tulle viola e 40 mg/kg in un cinturino verde, quando la soglia identificato dal REACH è pari a 30 mg/kg. Un paio di stivali rossi acquistati in Spagna ha un rilascio di nichel (1,5 μg/m2/settimana) al di sopra dei requisiti REACH (<0,5 μg/m2/settimana).
“I risultati ottenuti – si legge nel report – indicano che SHEIN ha uno scarso (o addirittura assente) controllo della gestione delle sostanze chimiche pericolose usate nelle filiere produttive. Ciò espone i lavoratori a seri rischi sanitari durante le varie lavorazioni e determina notevoli impatti sull’ambiente derivanti dal rilascio in natura di contaminanti”.
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Il modello di business di SHEIN
Se il fast fashion è un modello di business non sostenibile – come ha affermato anche la Commissione europea nella sua Strategia per il tessile circolare (“fast fashion is out of fashion”) e come il nostro magazine ha raccontato nell’ultimo Quaderno dedicato proprio al tessile – l’ultra-fast fashion di SHEIN, Romwe, Zaful, o Tally Weijl, con collezioni che si rincorrono settimana dopo settimana e giorno dopo giorno, moltiplica i danni spingendo il settore verso una vera e propria “moda usa e getta”: dove gli abiti costano sempre meno (chi ha girato tra gli scaffali virtuali di SHEIN conferma che è difficile trovare un capo sopra i 50 euro) e restano sempre meno nei nostri armadi, finendo poi inceneriti o in discarica perché nei fatti non sono riciclabili a causa dei materiali usati (filati diversi tra loro e di bassa qualità), del design di prodotto e delle sostanze chimiche presenti.
“Negli ultimi due anni il marchio SHEIN è cresciuto in modo esponenziale”, racconta Greenpeace: “Immette in commercio ogni giorno migliaia di nuovi modelli, confezionati in meno di una settimana e destinati per lo più a un pubblico giovane. Di conseguenza si generano enormi quantità di rifiuti tessili inquinanti, che si aggiungono alle frequenti segnalazioni di casi di sfruttamento dei lavoratori”.
Fondato in Cina nel 2008, Shein ha raggiungo in pochi anni il valore di 100 miliardi di dollari: maggiore di quello di Zara e H&M insieme. Tre sedi – una a Nanjing, una negli USA, una in Europa – ma parrebbe produrre esclusivamente in Cina.
Il pubblico di SHEIN – che, a parte un solo negozio fisico di prossima apertura in Giappone, vende solo online – sono i più giovani (le cosiddette generazioni Z e Alpha), raggiunti con pervasive strategie di influencer marketing attraverso Tiktok e Instagram. La pubblicità arriva insomma dagli stessi consumatori, che possono diventare ambassador del brand e ricevere compensi e vestiti in cambio di contenuti promozionali. La produzione di SHEIN è completamente affidata a terzi, a partire dalle fasi del design, come racconta LifeGate: questo sarebbe alla base della capacità del marchio cinese di offrire un profluvio di collezioni. Ma può portare con sé una filiera destrutturata e potenzialmente fuori controllo: “Poco si sa dei fornitori che realizzano questi prodotti per il marchio cinese, delle migliaia di lavoratori delle sartorie nel Guangdong, in Cina, che trasformano ordini in prodotti 7 giorni su 7, e ancor meno delle fabbriche che tingono i loro tessuti (le fasi produttive che producono il maggior inquinamento delle acque)”.
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I precedenti
Prima che Greenpeace portasse in laboratorio i 52 capi di abbigliamento e calzature di cui vi raccontiamo, SHEIN era già stato oggetto di critiche per un approccio quanto meno indifferente alle questioni ambientali e sociali. “Si tratta di un business incentrato sullo sfruttamento delle persone e su gravi impatti ambientali – scrive infatti ancora Greenpeace – basato sulla mancata applicazione delle normative per proteggere l’ambiente, la salute e la sicurezza dei lavoratori e dei consumatori”.
Un inviato della tv britannica Channel 4 è entrato sotto copertura in una delle fabbriche che nella metropoli cinese di Guangzhou (Canton) producono per il brand, rivelando (con il documentario Untold: Inside The Shein Machine pubblicato il mese scorso) gravissime forme di sfruttamento dei lavoratori: paghe bassissime trattenute senza motivi validi, ritmi da catena di montaggio, orari estenuanti (18 ore al giorno) e solo un giorno di riposo al mese. La salute dei lavoratori, oltre che quella dei consumatori e dell’ambiente è stata al centro di un’altra indagine realizzata nel 2021 da Marketplace CBC News, che ha svelato come in molti prodotti dell’ultra-fast fashion (inclusi quelli di SHEIN) fosse presente una quantità di prodotti chimici non di rado superiore a quella consentita. Un documentario della TV francese TF1, poi, ha analizzato capi acquistati da SHEIN rilevando, in una maglia di poliestere, livelli di piombo 4 volte superiori ai limiti REACH.
“Greenpeace chiede all’Unione Europea di applicare le leggi vigenti sulle sostanze chimiche pericolose, un requisito fondamentale per lo sviluppo di una vera economia circolare, e di attivarsi per eliminare il fast fashion, come peraltro indicato nella strategia europea sul tessile”, continua Ungherese. “È inoltre necessario intervenire sullo sfruttamento della manodopera, sulle gravi conseguenze ambientali nelle fasi produttive e, infine, sulla gestione dei rifiuti a fine vita. Tutti questi aspetti devono essere affrontati urgentemente con un trattato globale e un approccio simile a quello attualmente in discussione sulla plastica, che affronti finalmente la gigantesca impronta ecologica dei settori del tessile e della moda”.
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