“C’è il bisogno etico di non essere responsabili di sfruttamento e sofferenza animale e c’è l’esigenza relativa alla nostra salute: molti dati dicono che un consumo eccessivo di derivati animali può essere pericoloso e può aumentare l’incidenza di alcune patologie”. Così Maurizio Bettiga, chief innovation officer di Italbiotec e ideatore di “Alternative” ha aperto gli Stati generali sulle proteine alternative, che si sono svolti a Milano lo scorso 21 ottobre.
Bettiga sottolinea la legittimità di essere più o meno sensibili al tema e come non si tratti di “rivoluzioni o di distruggere il sistema dall’interno”, ma di alternative che possono ridurre l’impatto ambientale delle nostre scelte alimentari, soddisfacendo comunque delle esigenze nutrizionali e di gusto. Una transizione che sta già avvenendo: secondo i dati emersi durante gli Stati generali, il 51% degli europei (e il 59% degli italiani) sta già riducendo il consumo di carne per motivi di salute (47%) e sostenibilità (26%).

E proprio in termini di salute umana e dell’ambiente non si può più rimanere a guardare. I numeri evidenziano una certa urgenza. “Gli allevamenti intensivi sono causa del 75% di tutte le emissioni di ammoniaca in Italia, la seconda fonte di formazione di polveri sottili nel nostro Paese” e ogni anno, denuncia il WWF sulla base delle rilevazioni ISPRA, causano circa 50 mila morti premature,.
Senza dubbio, lo sviluppo di alimenti a base di proteine alternative offre opportunità e rischi. Sarebbe irresponsabile utilizzare un approccio di “technology push”, cioè non lasciare la scelta dell’alternativa che si sta presentando e spingere all’introduzione di nuove tecnologie di produzione senza interrogarsi sulle domande del mercato e soprattutto sugli impatti della tecnologia che si vuole introdurre.
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Le connessioni tra salute individuale e collettiva
“Dobbiamo prendere coscienza che la salute umana è connessa alla salute dell’ambiente in cui si vive e alla salute del mondo animale: questo concetto di salute unica è anche un concetto di salute globale”, ha detto Ugo Ghilardi, presidente di Toffolon-Itema, presente agli Stati generali delle proteine alternative. Una dieta che sia planetaria, dunque, la cui caratteristica peculiare è la sostenibilità, secondo la definizione che è stata data nel 2019 dalla FAO. Un modello sostenibile è un modello bilanciato, che apporta cioè gli adeguati fabbisogni nutrizionali in base al sesso, all’età e alle condizioni fisiologiche dell’individuo. E deve valorizzare la biodiversità alimentare.
In termini di accesso alla biodiversità alimentare, proprio la FAO mette nero su bianco che ciascun individuo a livello globale deve poter accedere a una dieta che sia nutriente, soddisfi i principali fabbisogni in termini di macro e micro nutrienti e che sia sicura in termini di igiene degli alimenti. L’UN Women, l’ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment delle donne, sottolinea a tal proposito che le donne sperimentano livelli di insicurezza alimentare più elevati degli uomini.
E c’è dell’altro. Un recente rapporto EASAC (European Academies Science Advisory Council) avverte sul rischio di politiche che promuovono la riduzione globale del consumo di carne senza considerare le disuguaglianze, rischiando cioè di rafforzarle. Nei Paesi ricchi, infatti, “la riduzione del consumo di carne è spesso vista come una scelta etica o ambientale”. Nelle regioni a basso reddito, invece, “la carne rimane una risorsa nutrizionale fondamentale e talvolta scarsa”. Esistono poi questioni di giustizia legate alle lavoratrici e ai lavoratori, in particolare nei macelli, che affrontano condizioni lavorative difficili e stress psicologico dovuto al tipo di lavoro. Lo sviluppo di proteine alternative e di politiche volte alla riduzione del consumo di carne deve necessariamente intersecare questi assi.
Scardinare i pregiudizi
Per Dario Martinelli, direttore dell’International Semiotics Institute (ISI) all’università tecnica di Kaunas, parlare di proteine alternative significa permettere di mangiare a più persone in tutto il mondo, oltre che interrompere la mattanza di 6 mila animali uccisi al secondo, dati FAO.
Per Simona Stano, docente dell’università di Torino, bisogna superare il paradigma della natura pura. Quella convinzione per cui bisogna nascere naturalmente, morire naturalmente, mangiare naturalmente. Al fondo delle pratiche legate alle proteine alternative c’è proprio la tutela della “natura in un modo migliore e che non possiamo riscontrare se i nostri stili di vita rimangono invariati”.

L’8 ottobre il Parlamento europeo ha approvato una proposta di legge che vieta l’utilizzo di nomi animali per prodotti a base vegetale. Niente più espressioni come “straccetti di soia”, “hamburger vegani” e simili. La proposta passa ora ai 27 Stati membri. L’eurodeputato tedesco Peter Liese ha definito assurdo “che il Parlamento europeo perda tempo con stupidaggini simili”. Il mondo ambientalista si oppone con forza a questo divieto, puntando il dito contro la lobby della carne che cerca di influenzare l’orientamento delle politiche europee in materia di alimentazione (e non solo).
Tra le altre cose, agli Stati generali delle proteine alternative si è precisato che la parola “hamburger” significa alla lettera “della città di Amburgo”, dunque non si comprende perché si possa applicare soltanto a un prodotto di origine animale. Anche perché, nel frattempo, il richiamo a cibi vegetariani e vegani avviene anche da parte della galassia carnivora.
È la diffusa tendenza a “scimmiottare i prodotti con proteine alternative, tipo la carbonara vegana, fornendo come motivazione quella che sarebbe la brutta copia della carbonara tradizionale, una cosa artificiale. Come se la carne prodotta negli allevamenti intensivi e piena di ormoni fosse naturale”, ha concluso Dario Martinelli alla conferenza di Milano. “Il punto è quanto abbiamo inquinato, quanto abbiamo sfruttato, quanto abbiamo ammazzato per mangiare ciò che mangiamo. Le proteine sono l’unità di misura per misurare il cibo di cui ci nutriamo”.
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