[di Alberto Mapelli]
Da rifiuto a prodotto, RiVestiti dona una seconda chance ad abiti considerati finiti. Il mercato del resale è in crescita, ma riuscire a rimanerci è complicato. Soprattutto se si è una cooperativa
Sinossi
RiVestiti è un negozio nato nel 2017 che vende vestiti usati a Bergamo. Gestito dalla Cooperativa Ruah, attiva nell’accoglienza e nell’integrazione dei richiedenti asilo da oltre vent’anni, RiVestiti è il punto di approdo di una filiera del recupero del vestito usato più complessa di quel che si possa pensare: dalla raccolta degli abiti donati nei cassonetti al trattamento di selezione e igienizzazione dei capi. Un processo impegnativo e dispendioso che trasforma quello che era rifiuto in un prodotto reinseribile in un mercato in crescita come quello del resale, non senza diversi problemi economici, organizzativi e di percezione. L’abito usato o “vintage”, infatti, è diventato di moda soprattutto tra i più giovani, mentre le generazioni più anziane guardano ancora con sospetto i vestiti di seconda mano.
«Sì, signora, questa cintura è di pelle. Ma aspetti un attimo, è vero pitone, non posso vendergliela a cinque euro». Paola, commessa e allestitrice del negozio RiVestiti, si accorge appena in tempo di avere tra le mani una piccola perla: «Gli indumenti che proponiamo in negozio sono tutti di buona qualità, ma a volte ci arrivano oggetti come questa cintura che non penseresti mai di trovare in un negozio di usato e che possiamo provare a vendere ad un prezzo un po’ più alto». In via Broseta a Bergamo si trova RiVestiti, uno showroom gestito da Laboratorio Triciclo, ramo della Cooperativa Ruah. RiVestiti propone alla sua clientela abiti rivalorizzati e che hanno già vissuto sul proprio tessuto altre esperienze. Perché, come dice lo slogan del negozio, “non solo i gatti hanno sette vite”.
Da rifiuto a prodotto
RiVestiti nasce nel settembre del 2017 e si pone l’obiettivo di valorizzare degli abiti che nel mercatino presente da sempre in sede non avrebbero ricevuto le giuste attenzioni. «Circa quattro anni fa, quando abbiamo iniziare a pensare al progetto RiVestiti, il mercato dell’usato stava vivendo un vero e proprio boom» racconta Federica Fassi, coordinatrice delle attività del Laboratorio Triciclo. Negli ultimi due anni, quasi 3.000 chili di abiti usati sono stati raccolti e rivenduti direttamente dal Laboratorio, tra il negozio e il mercatino dell’usato in sede. «Tanti giovani passano ed entrano incuriositi, sono loro il cuore della nostra clientela», racconta Paola. Una diffusione dettata dai prezzi bassi ma anche da una mentalità di approccio molto aperta all’usato che si sta diffondendo negli ultimi anni tra i ragazzi: «Il vintage, l’usato, il vissuto… sono tutti concetti che sono diventati “di moda” e che cerchiamo di cavalcare anche tramite i social». Non è raro quindi vedere una cliente entrare appositamente in negozio per provarsi un outfit proposto su Facebook, su cui RiVestiti punta molto.
Laboratorio Triciclo inizia però ad occuparsi di raccogliere e dare una seconda occasione a indumenti scartati già dal 2001, quando l’idea di poter creare un negozio di vestiti usati non è nemmeno tra i progetti dell’associazione. Il Laboratorio, infatti, è solo un ramo della Cooperativa Ruah, associazione nata nel 1991 per aiutare le persone che arrivavano in provincia di Bergamo sulla scia del fenomeno immigratorio dall’Albania. Negli anni i flussi migratori sono cambiati ma non gli obiettivi: «La Cooperativa è attiva per accogliere chi arriva da paesi stranieri assistendoli sotto diversi aspetti della vita quotidiana, dal trovarsi una casa ad imparare la lingua. Il nostro obiettivo, per quanto possibile, è quello di renderle persone pienamente autonome e capaci di costruirsi un futuro anche lontano dalla Cooperativa», racconta Fassi. Il Laboratorio inizia a gestire alcuni cassonetti distribuiti per la diocesi di Bergamo – ora diventati una flotta di 150 unità – cercando di dare una nuova utilità a indumenti che tante famiglie avrebbero buttato. «Le cose oggi, però, sono cambiate tantissimo. Prima non esisteva una regolamentazione stringente per la raccolta e la distribuzione dei vestiti usati, mentre ora tutto deve rispettare gli standard di legge». Tra la raccolta dal cassonetto e la vendita a RiVestiti, nel 2019, ci passa un intero processo di selezione e messa in regola del prodotto.
Gli abiti vengono accumulati in grossi sacchi trasparenti e lasciati all’entrata della zona igienizzazione dai sette operatori dedicati alla raccolta. Ogni singolo sacco viene aperto da due addette che dividono i capi tra “prima scelta” e “seconda scelta”. Quest’ultima, destinata ad essere spedita in Africa tramite container, ha superato quota 5.600 chili negli ultimi due anni. Nel biennio, quindi, oltre 8.600 chili di abiti già diventati rifiuto sono stati reintrodotti nel mercato direttamente dalla cooperativa.
Gli abiti considerati di “prima scelta”, invece, vengono sistemati subito sulle grucce e sottoposti a un processo di sanificazione tramite ozono obbligatorio per legge di un’ora e mezza. Solo alla fine dell’igienizzazione gli indumenti potranno essere rimessi in vendita tra il negozio in città e il mercatino in sede. In cui è possibile trovare anche mobili, biciclette, giocattoli e tutto quello che viene ritirato dal servizio di sgombero di cantine e locali e che può essere salvato dalla discarica subito o con un piccolo ritocco. Il risparmio, in termini di sostenibilità ambientale, potrebbe essere altissimo se la popolazione venisse sensibilizzata in tal senso. Thread Up, azienda americana specializzata in rivendita di prodotti usati, stima che se ognuno comprasse un abito usato invece che uno nuovo, in un anno non si emetterebbe una quantità di Co2 pari all’utilizzo di mezzo milione di automobili e non si produrrebbero oltre 200mila tonnellate di rifiuti.
I problemi esistono anche nel mercato dell’usato
Ma quanto viene pagato un vestito giunto alla sua seconda vita comprato da RiVestiti? Pochi euro e spesso trattabili, con un ricavo risicato per la quantità di lavoro e i costi da sostenere per presentare una camicia a righe sull’ometto.
«Noi potremmo definirci quasi dei pionieri del mercato del vestito usato, anche se non lo abbiamo concepito da subito come un business. Da sempre lo abbiamo connotato anche dal punto di vista sociale, provando a dare lavoro a persone che ne avevano bisogno. Solo che adesso, tra la rapida diffusione dell’usato come modello di business e l’aumento della burocrazia, ci troviamo ad affrontare problemi difficili da risolvere», racconta Fassi. Come prima cosa la mole di abiti raccolti: dal 2017 ad oggi 918mila chili di vestiti-rifiuto sono finiti sui camion dell’associazione ma, come abbiamo detto, meno di 9mila di essi sono stati reintrodotti nel mercato direttamente da loro. Che fine ha fatto il resto? «Lo abbiamo rivenduto ad un’azienda più grande che si occupa di abiti usati ad un prezzo che negli ultimi quattro anni si è dimezzato. Ora fatichiamo anche a coprirci persino le spese di raccolta e trasporto».
La volontà di tenere dei prezzi abbordabili per le persone più bisognose espone il Laboratorio ad un altro tipo di problema, quello di diventare una sorta di fornitore per mercatini e negozi, più liberi di valorizzare appieno dei capi che tra RiVestiti e mercatino dell’usato faticano ad essere venduti. «Non è raro che ritroviamo dei nostri indumenti sugli scaffali di negozi di vintage, che riescono a venderli anche a prezzi cinque, sei o sette volte maggiori a quelli da cui li acquistano da noi», racconta Paola. È paradossale, eppure non essere legati direttamente ad una cooperativa che raccoglie vestiti di scarto sembra renderli più appetibili sul mercato, anche se a prezzi maggiori. E non importa che l’abito usato, a volte, sia anche pregiato: «Per fare un esempio, ci abbiamo messo due anni e mezzo per vendere un paio di Louboutin praticamente nuove donateci da una signora. Chiedevamo circa 250 euro, ci siamo dovuti accontentare di meno della metà» ricorda Paola.
«Penso che più di un terzo dei vestiti acquistati da noi poi venga rimessa in commercio», stima Fassi, mentre si aprono i cancelli d’entrata del mercatino dell’usato e venti persone si affrettano ad entrare, alla ricerca dell’affare migliore. Quello del resale è un settore in espansione a livello mondiale. Secondo Thread Up, la quota di mercato del resale ha toccato i 5 miliardi di dollari di valore nel 2018. La crescita stimata, però, sembra essere esponenziale. Il settore arriverà a quota 23 miliardi di dollari nel 2023 e nel 2033 si prevede che un terzo del nostro guardaroba sarà riempito da capi di seconda mano. Il riutilizzo di abiti usati, però, è ancora lontano dall’essere diventato di uso comune secondo un’indagine di Greenpeace. Nel suo report del 2017 Fashion at the crossroads, Greenpeace stima che l’80% di vestiti inutilizzati nell’Unione Europea venga smaltito ancora insieme ai rifiuti domestici. Il destino di questi vestiti scartati è di finire nelle discariche o negli inceneritori, facendo finire in fumo ogni possibile guadagno economico e per l’ambiente derivante da un loro riutilizzo. Uno spreco che realtà come RiVestiti provano a contrastare ogni giorno.