[di Davide Sanna]
Biologico e sfuso. L’esperienza di “Bio al sacco” racconta un modo diverso di vendere e comprare e veicola un’alternativa visione del mondo
Sinossi
Nel settembre 2016 nasce a Pisa “Bio al sacco”, un negozio di alimenti biologici e sfusi. Non solo biologico, dunque, ma anche non confezionato, almeno fin dove è possibile. Questo significa in primo luogo zero rifiuti, ma anche costruzione di una filiera commerciale alternativa e opposta alla Grande Distribuzione Organizzata, slegata dai grossi brand del biologico industriale e connessa invece direttamente ai produttori, spesso piccoli, in molti casi locali. “Bio al sacco” propone,rispetto a quello fondato su agricoltura e allevamenti industriali e su g.d.o., un modo diverso di acquistare e consumare che sottende una visione alternativa del mondo e un approccio differente al cibo e al rapporto dell’umanità con la natura. È solo da esperienze come questa, da iniziative di singoli o gruppi eticamente sostenute, che si potrà generare un cambiamento culturale e nelle abitudini di cittadini e consumatori e, di seguito, nelle politiche pubbliche e dei produttori. Un cambiamento necessario, se non ci si vuole arrendere agli incombenti disastrosi cambiamenti climatici e alla devastazione in atto del pianeta Terra.
Per certe cose, probabilmente, il futuro somiglierà più al passato che al presente.
Nell’alimentazione, per esempio. Alimentarsi è un’azione quotidiana, universale, determinante per la sopravvivenza, e quindi da sempre, per l’uomo, carica di significati simbolici, ideologici, religiosi.
Nell’alimentazione viviamo oggi in una condizione distopica, di cui la maggioranza sembra non essere consapevole. Nel secondo dopoguerra la cosiddetta “rivoluzione verde” ha promesso al mondo cibo per tutti grazie a rese agricole prodigiose, ma ha restituito, dopo poco più di mezzo secolo, un mondo in cui si muore ancora di fame ma, per giunta, sovraffollato, inquinato e violentato nella natura.
Fertilizzanti chimici, diserbanti, insetticidi di sintesi, specie super selezionate e poi ogm, sementi brevettate e incapaci di progenie, hanno negli ultimi decenni sterilizzato e insterilito il suolo e asservito milioni di contadini alle multinazionali della chimica agricola; hanno distrutto interi ecosistemi e contribuito pesantemente al collasso della biodiversità del pianeta.
La “rivoluzione verde” ha significato monocolture e distruzione forestale, oltre che drastico abbattimento della popolazione di insetti, come oggi si comincia a constatare, con conseguenze disastrose su tutta la catena alimentare in ogni parte del globo.
Questa devastazione ha fatto il paio con l’esplosione degli allevamenti industriali, che rappresentano, oltre che un colossale bug nell’etica della specie umana, una gigantesca bomba ecologica, umanitaria e sanitaria, contribuendo per un quinto all’emissione globale di gas serra, incrementando a dismisura il consumo di suolo e il sacrificio forestale per la produzione di mangimi, e sottraendo enormi quantità di cibo di origine agricola e acqua al consumo umano, a beneficio delle tavole di europei e nordamericani (e sempre più anche dei cinesi), benché a discapito della loro salute.
Sull’industrializzazione della produzione alimentare si è innestata la grande distribuzione, che ha capovolto i tradizionali rapporti di forza tra produttori e rivenditori. Per alimentare le filiere lunghe su cui si fondano, le catene di supermarket strozzano gli agricoltori e, allo scopo di abbassare i prezzi, uccidono la qualità dei prodotti.
Nel 2018 gli italiani hanno speso per l’acquisto di prodotti alimentari il 18% delle risorse destinate ai consumi. Nel 1973, quando cominciano al riguardo le serie storiche Istat, la percentuale era del 35,9. Il 70% degli acquisti alimentari, inoltre, è effettuato dagli italiani in un esercizio della grande distribuzione organizzata. Gli italiani dunque, come in tutto l’occidente, in larga maggioranza scelgono “non luoghi” per gli acquisti alimentari e preferiscono spendere poco, a costo di inquinare molto e mangiare male.
Questi comportamenti indicano senz’altro una diffusa scarsa consapevolezza alimentare; ma rivelano anche, ove questa consapevolezza ci sia, un atteggiamento pessimista e di sfiducia: “ormai funziona così”, “non ci puoi fare niente”, “girano troppi soldi”, “il mondo non lo cambi tu”. Ma forse il fatto è anche che cambiare abitudini è impegnativo: si deve andare oltre le consuete certezze e sicurezze, spesso precotte e incellofanate.
Il caso dell’olio di palma, in via di progressiva eliminazione, nel giro di pochi anni, dalla gran parte dei prodotti alimentari a seguito di una grande mobilitazione tramite petizioni e sui social, sembra tuttavia dimostrare che una presa di posizione dei consumatori (o di una significativa parte di essi), è in grado di condizionare le scelte dei produttori e dei distributori.
Contro la distopia alimentare in atto, quindi, il cambiamento sembra possibile, ma non può venire che dal basso, dalle iniziative di singoli o gruppi eticamente sostenute, da utopie concrete, da vivere e costruire giorno per giorno, da un pensare globale e un agire locale, nel cuore del ricco – seppure ora arrancante – occidente. Solo un diffuso cambiamento culturale e di abitudini è in grado di evocare e richiedere significative modifiche nelle politiche pubbliche e dei produttori.
Pisa, 2016. Pierpaolo e Martina, una coppia di 45enni, ci prova. Non sono del ramo. Entrambi laureati in Lettere moderne, lui viene da esperienze nell’editoria, nel giornalismo e nel teatro, lei pure dal giornalismo, ma è stata anche insegnante di pilates. Al di là del curriculum, sono una coppia che ha maturato, negli anni, una progressiva idea del cibo come fondamento della salute. “Stra-crediamo nel bio da molti anni”, mi dice Pierpaolo, “per noi e per l’ambiente: è un circolo virtuoso”.
Non senza dubbi e paure, provano a trasformare in una concreta realtà lavorativa i propri ideali di un mondo pulito e giusto e di un cibo sano, non inquinato, che rispetta chi lavora e che non violenta la natura.
Nasce “Bio al sacco”, un piccolo negozio di alimenti biologici, in una zona centrale di Pisa, un quartiere di case basse, non lontano dal Lungarno. Un negozio di quartiere. Ma non è il “solito” negozio di alimenti biologici, con le sue merendine delle marche egemoni della nicchia bio e il pane integrale a fette chiuso nella sua confezione di plastica. “Bio al sacco” vende fondamentalmente prodotti sfusi, al sacco, appunto. E la differenza è essenziale, per almeno un paio di ragioni.
In primo luogo, un modello di vendita basato sullo sfuso è “zero waste”, ossia elimina del tutto il packaging, dove la plastica la fa da padrone.
Secondo ilfattoalimentare.it in Europa i rifiuti degli imballaggi alimentari rappresentano il 65% del totale, che a loro volta costituiscono il 5% di tutti i rifiuti. E il settore della produzione di imballaggi è tra i pochi a non aver conosciuto la crisi dell’ultimo decennio. In questo contesto “Bio al sacco” si presenta come un’eccezione, una mosca bianca, un virus benigno.
Lavorare sullo sfuso anziché sul confezionato, inoltre, cambia tutto in termini di filiera di approvvigionamento; giocoforza, tutto si muove sulla filiera corta, ossia su un rapporto diretto con i produttori. Ovviamente, non tutto è a chilometro zero: “Le mandorle sono siciliane così come le arance, le friselle sono pugliesi, le nocciole piemontesi”. E a volte si passa attraverso un’intermediazione: “La quinoa la prendiamo, tramite un importatore italiano, dalla Bolivia, perché è più buona e meno cara di quella italiana”.
Ci sono, ovviamente, anche le eccezioni, ossia il biologico confezionato, per alcuni prodotti altrimenti introvabili sfusi: alcune cose vengono da grandi distributori (tahin, olio di cocco o crema di arachidi), ma marmellate, miele e passate sono tutte di piccoli produttori, spesso locali.
Il negozio ricorda per alcuni aspetti una drogheria o un negozio alimentari di un tempo, ma è luminoso e moderno. Fagioli e lenticchie non si prendono più con la sassola dal sacco poggiato per terra; gli scaffali sono tutti in legno, e danno un’idea piuttosto artigianale, ma molto pulita, lineare, quasi minimalista, mentre i contenitori dei prodotti sono tutti in vetro.
L’attenzione e il rigore, specie sotto il profilo igienico e sanitario, con lo sfuso sono ovviamente necessari: “Qualche intoppo c’è sempre, dobbiamo stare attenti a tutte le normative e a varie problematiche che non ha chi tratta il confezionato”.
La clientela non è in prevalenza “ideologizzata”, ossia non ci sono solo consumatori consapevoli e ambientalisti convinti, “nerd” dell’ecologia e del salutismo, come li definirebbe qualcuno. Certo, ci sono anche quelli, ma in generale è piuttosto eterogenea: “Gli abitanti del quartiere, le signore che fanno la spesa la mattina presto, gli studenti universitari, le giovani mamme con figli piccoli, le famiglie numerose”.
Funziona? “A settembre compiamo i primi 3 anni. Siamo contenti, il negozio è in crescita costante da quando abbiamo aperto. Per ora… Insomma, incrociamo le dita…”.
Filiera corta anche per l’immagine, anzi, tutto fatto in casa o quasi: “Il logo l’ha fatto un amico, l’arredamento Martina insieme a sua cugina che lo fa di lavoro e ad un falegname nostro amico, il nome l’abbiamo scelto con un brainstorming tra una ventina di amici”. Tutto però ha un aspetto molto professionale: “Ogni tanto qualcuno ci chiede se siamo un franchising… cosa che mai vorremmo essere”.
Martina e Pierpaolo hanno una figlia di 16 anni. Che idea ha del vostro mondo e su quello che c’è dietro, in termini di valori e di scelte? “È abbastanza sensibile, ma non quanto ci piacerebbe”.
La generazione che è uscita dalla guerra, quella che si è affacciata al mondo del lavoro negli anni del miracolo economico italiano degli anni ‘60 del secolo scorso, è stata forse, vista retrospettivamente, la peggiore di tutte nel rapporto con l’ambiente. Per quella generazione il bene, il bello e il giusto erano in gran parte rappresentati dalla crescita economica a tutti i costi, dall’industria chimica, dalla plastica. Oggi, i millennials vedono tutto questo come il male, o comunque lo considerano con diffidenza.
Il sistema di produzione e distribuzione alimentare oggi vincente, che molti considerano invincibile e insuperabile, finirà, come finiscono prima o poi tutte le cose umane. In fondo esiste solo da 70 anni, che non sono tanti, e sempre più sono coloro che lo contestano. Tuttavia, considerata la posta in gioco e la capacità distruttiva di questo sistema, non è affatto indifferente per il pianeta che esso venga soppiantato o messo in crisi tra pochi o molti anni.
Forse il futuro, nella produzione e distribuzione alimentare, sarà fatto di piccoli negozi di quartiere legati in filiera corta alla vicina campagna, senza imballaggi e senza plastica, e “Bio al sacco” verrà ricordato come un’esperienza pionieristica. Forse, come dicevamo, in questo il futuro somiglierà più al passato che al presente. Il rischio, se così non fosse, è che il futuro non somigli a niente. Nel senso che non ci sarà alcun futuro da vivere.