I termini “biodegradabile” e “compostabile” sono da tempo entrati nel linguaggio comune: quante volte, ad esempio, avete letto o sentito parlare di stoviglie biodegradabili e compostabili oppure di shopper monouso compostabili?
A dispetto del loro diffuso utilizzo ancora oggi, troppo spesso, tali parole vengono impiegate impropriamente: ciò accade perché tante persone le considerano sinonimi da utilizzare indifferentemente oppure sempre in tandem, ma la realtà è ben diversa.
Quando si parla di materiali biodegradabili e compostabili si fa riferimento a due concetti specifici e ben distinti ed è quindi importante fare chiarezza sul loro esatto significato per evitare di commettere errori, anche perché comprendere quando un oggetto è biodegradabile e compostabile è fondamentale per procedere a una corretta raccolta differenziata.
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Cosa significa che un materiale è biodegradabile?
Si definisce biodegradabile quel materiale che si degrada in sostanze più semplici mediante l’attività enzimatica di microorganismi: in altri termini se il materiale viene lasciato nell’ambiente esterno questo, prima o poi, finirà per scomporsi in elementi chimici più semplici – quali acqua, anidride carbonica e metano – assorbili dal terreno.
A ben vedere quasi tutti i materiali sono biodegradabili: la differenza si sostanzia nel tempo di degradazione che dipende principalmente dalle caratteristiche del materiale e dall’ambiente nel quale il processo avviene. A influenzare la tempistica concorrono elementi quali la temperatura, l’ossigeno e l’umidità: ad esempio in ambienti freddi e secchi la biodegradazione sarà più lenta rispetto ad ambienti caldi e umidi.
È naturale che quanto più un materiale si biodegrada lentamente tanto più può diventare un problema per l’ambiente: questa criticità si manifesta con la plastica. Pur essendo un materiale biodegradabile, a seconda del manufatto che ci troviamo di fronte, essa impiega decine se non centinaia di anni per portare a compimento il processo. Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente, ad esempio, un sacchetto di plastica resta nell’ambiente da un minimo di 15 anni ad un massimo di mille anni. Ciò spiega, in parte, come questo materiale si sia in poco tempo trasformato da strumento per semplificare la vita dell’uomo a uno dei più gravi problemi ambientali che l’umanità si trovi ad affrontare (dalle spiagge più cristalline alla cima dell’Himalaya).
Quando un materiale si definisce compostabile?
Con il termine compostabile si fa riferimento a quei materiali organici che, oltre ad essere biodegradabili, hanno la capacità di trasformarsi attraverso un processo di decomposizione biologica, controllato dall’uomo, in compost ovverosia un terriccio molto ricco di sostanze umiche e di microrganismi che viene utilizzato come fertilizzante.
Questo processo di trasformazione viene chiamato “compostaggio”, può essere realizzato sia a livello domestico che industriale (su cui si veda infra) e, come abbiamo già avuto modo di accennare, consiste nella disintegrazione e biodegradazione aerobica, in presenza di ossigeno, di rifiuti organici come, ad esempio, quelli conferiti nella frazione umida oppure segatura e trucioli di legno.
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I requisiti della compostabilità: norma UNI EN 13432
Ai fini della raccolta differenziata, affinché un materiale possa essere definito compostabile, questo deve rispettare alcuni requisiti sanciti nella EN 13432 del 2002, una norma armonizzata del Comitato europeo di normazione intitolata “Requisiti per imballaggi recuperabili mediante compostaggio e biodegradazione – Schema di prova e criteri di valutazione per l’accettazione finale degli imballaggi” e adottata in Italia con il nome di UNI EN 13432. L’obiettivo del legislatore è fare chiarezza in merito ai concetti di biodegradazione, compostabilità, materiali biodegradabili e compostabili.
In base a tale normativa un materiale si definisce compostabile quando rispetta i seguenti criteri:
– si degrada almeno del 90% in 6 mesi se sottoposto a un ambiente ricco di anidride carbonica (tali valori vanno testati con il metodo standard EN 14046);
– a contatto con materiali organici per un periodo di 3 mesi, la massa del materiale deve essere costituita almeno per il 90% da frammenti di dimensioni inferiori a 2 mm (tali valori vanno testati con il metodo standard EN 14045);
– non deve avere effetti negativi sul processo di compostaggio;
– deve avere una bassa concentrazione di metalli pesanti additivati;
– deve avere valori di pH entro i limiti stabiliti;
– deve avere un contenuto salino entro i limiti stabiliti;
– deve avere una concentrazione di solidi volatili entro i limiti stabiliti;
– deve avere una concentrazione di azoto, fosforo, magnesio e potassio entro i limiti stabiliti
Affinché un materiale possa essere definito compostabile è necessario che presenti contemporaneamente tutte le proprietà fin qui elencate che non sono alternative. Un materiale compostabile è quindi sicuramente biodegradabile ma può non essere vero il contrario: la compostabilità richiede infatti la presenza anche di tutti gli altri fattori sopra elencati.
Come scoprire che un prodotto è compostabile
In commercio sono disponibili molteplici oggetti che presentano versioni compostabili: piatti, bicchieri, assorbenti (che, peraltro, grazie alla Tampon Tax, godono di una applicazione dell’iva al 5% anziché al 22%).
Come è possibile capire se un prodotto è compostabile? Naturalmente non si richiedono conoscenze avanzate in chimica, ma è sufficiente saper leggere le etichette riportate sul prodotto: se il materiale è compostabile, sarà presente un marchio – applicato da appositi enti certificatori dopo l’accertamento della sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge- che ne attesta la compostabilità.
Affinché, però, il materiale compostabile possa tornare alla natura sotto forma di compost è necessario che questo venga avviato al processo di compostaggio.
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Compostaggio domestico e compostaggio industriale: cosa sono? Perché sono differenti?
Il compostaggio domestico è quello che ciascuna persona può porre in essere a livello “amatoriale”: sarà sufficiente avere uno spazio in giardino o su un balcone (meglio se soleggiato) nel quale posizionare la propria compostiera – un contenitore che favorisce l’ossigenazione e la conservazione del calore – nella quale conferire i rifiuti organici prodotti a livello domestico (preferibilmente solo scarti di frutta e verdura). Il processo di decomposizione è favorito dalla ossigenazione ed è quindi consigliabile effettuare periodicamente un rivoltamento del materiale per mantenere un sufficiente livello di porosità. Dopo tre o quattro mesi si potrà ottenere il compost.
Il compostaggio industriale è invece realizzato in appositi impianti che assicurano una corretta gestione del processo. Attraverso l’impiego di appositi macchinari è infatti possibile tenere sotto controllo l’ossigenazione, l’umidità e la temperatura del procedimento. In questo processo, oltre ai rifiuti organici domestici, possono essere conferiti anche prodotti certificati compostabili come alcune stoviglie monouso, piatti e bicchieri, nonché rifiuti delle lavorazioni agricole. Dal compostaggio industriale, oltre che dell’ottimo fertilizzante, può trarre origine anche il biogas, ovverosia una fonte di energia rinnovabile dalla quale si ottiene il biometano, un biocarburante avanzato con qualità del tutto simili a quelle del gas naturale che può essere immesso in rete ed utilizzato per il riscaldamento, la cottura dei cibi e l’autotrazione.
Non esiste solo il compostaggio domestico e quello industriale, ad oggi diventa sempre più frequente è anche il compostaggio di comunità: di cosa si tratta?
La terza via del compostaggio di comunità
Il compostaggio di comunità può essere definito come una via di mezzo tra il grande impianto industriale e la compostiera casalinga. Effettuato tramite l’impiego di appositi macchinari, questo processo può coinvolgere poche decine o addirittura centinaia di utenze domestiche oppure alberghi, mense e altri produttori di rifiuti organici. La materia è disciplinata dal decreto del 29 dicembre 2016 n. 266 (“Regolamento recante i criteri operativi e le procedure autorizzative semplificate per il compostaggio di comunità’ di rifiuti organici”) che stabilisce che l’organismo collettivo, ovvero due o più utenze domestiche o non domestiche costituite in condominio, associazione, consorzio, società o altre forme associative di diritto privato, deve comunicare al Comune competente l’avvio dell’attività di compostaggio.
Affinché si possa parlare di compostaggio di comunità non è rilevante il numero di utenze che impiegano il macchinario, ma la quantità di compost prodotto che non deve superare le 130 tonnellate annue. Inoltre, tra le varie regole, è stabilito che il compost prodotto debba essere utilizzato dalle stesse utenze e quindi non può essere venduto e che l’apparecchiatura deve essere ubicata nelle immediate vicinanze delle utenze conferenti o, al massimo, entro un chilometro di distanza dalle stesse.
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