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sabato, Dicembre 21, 2024

Il greenwashing nella finanza sostenibile è sempre più evidente. Come evitarlo?

I criteri ESG (Environmental, Social e Governance) sono sempre più diffusi. Eppure la finanza sostenibile non riesce ancora a evitare il cosiddetto “ambientalismo di facciata”. Gli enti regolatori e lo stesso mondo finanziario propongono ricette simili. Perché il mercato da solo non sa cambiare

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

Per capire esattamente il significato del greenwashing – letteralmente “lavaggio green”, in senso più ampio è l’ambientalismo di facciata di chi comunica buone intenzioni che poi nella pratica non persegue – il mondo della finanza è particolarmente emblematico. Prendiamo ad esempio una notizia di agosto diffusa da Il Sole 24 ore, secondo cui “Enel, Eni, Cassa Depositi e Prestiti e Stellantis (l’ex Fiat, nda) sono ai vertici della classifica delle 200 aziende Esg”, ovvero ai primi posti per quel che riguarda i criteri della finanza sostenibile, sintetizzati nell’acronimo inglese ESG – Environmental, Social, Governance (ambientale, sociale, organizzativo). Se si va oltre il titolo, però, si scopre che la classifica è stata redatta da “Reputation Science, società specializzata nell’analisi e gestione della reputazione, che ha elaborato l’indice ESG Perception Index per misurare la percezione di sostenibilità delle aziende sul web, analizzando 1,2 milioni di contenuti relativi a 200 tra le maggiori imprese presenti sul mercato italiano, raccolti nel periodo tra gennaio e giugno 2021”.

Tra percezione e realtà a volte corre un solco. E non è un caso che ai primi posti di questa classifica ci siano i colossi, che possono permettersi enormi campagne pubblicitarie. Chi comunica di più, insomma, appare più sostenibile. L’immagine vale più della sostanza? L’antica domanda è ancora più attuale nel mondo della finanza sostenibile dove, in assenza di una precisa tassonomia condivisa a livello globale che indichi esattamente cosa è da considerarsi sostenibile e cosa no, valgono da una parte le autovalutazioni delle imprese – la percezione di cui si diceva prima –  o gli affidamenti a società specializzate che però, questa è la sensazione più diffusa, vengono selezionate proprio affinché forniscano risultati positivi. Dall’altra i criteri ESG sono (ancora) difficili da definire, prima ancora che realmente valutabili. Come se ne esce? Il greenwashing è inevitabile?

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La denuncia di Consob

“Le autorità di vigilanza dei mercati finanziari si dovranno misurare con molteplici sfide concernenti fra l’altro  il rischio di green/socialwashing”. A scriverlo non è qualche ambientalista radical chic, per citare una nota polemica del ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, ma proprio la Consob – l’autorità amministrativa indipendente che controlla la Borsa italiana – nel recente quaderno “La finanza per lo sviluppo sostenibile” in cui vengono analizzate “tendenze, questioni in corso e prospettive alla luce dell’evoluzione del quadro regolamentare dell’Unione europea”.

Scrive Consob che “negli ultimi anni è aumentata la considerazione dei fattori ESG da parte delle società, degli investitori istituzionali, degli intermediari finanziari e degli intermediari dell’informazione attivi nella valutazione della sostenibilità di imprese e investimenti”. Ma “tali dinamiche non sono sufficienti a liberare le risorse necessarie a sostenere la transizione ecologica nelle proporzioni e nell’orizzonte temporale concordati, perché sono ancora molti gli ostacoli che le forze di mercato non sono in grado di superare autonomamente”. Per l’autorità una di queste “criticità per lo sviluppo degli investimenti sostenibili è la bassa conoscenza che gli investitori retail hanno della materia e che, in un contesto di forti asimmetrie informative, può concorrere ad alimentare il rischio di greenwashing”.

Proprio per scongiurare questo rischio, Consob negli ultimi anni ha diffuso più raccomandazioni alle imprese, sollecitandole a diffondere dichiarazioni non finanziarie (note con l’acronimo DNF) che possano accertare risultati e performances in ambito ambientale, sociale e organizzativo. Affinché, insomma, non vengano valutare solo le perfomance economiche ma anche quelle di impatto sui territori e sul pianeta. “Il regime volontario  – scrive Consob – ha il pregio di non imporre in modo generalizzato i costi di predisposizione e pubblicazione della dichiarazione, consentendo al contempo alle aziende interessate di censire e informare sui propri rischi e sulle proprie caratteristiche di sostenibilità attraverso un report riconosciuto dall’ordinamento nazionale e dal diritto UE. Tuttavia finora il numero di emittenti che ha pubblicato volontariamente una DNF risulta molto esiguo: 5 al 31 dicembre 2019 e 10 al 31 dicembre 2020”. Non esattamente un gran risultato.

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Regole e trasparenza

Anche il Forum per la Finanza sostenibile, in un’analisi della normativa diffusa sul proprio sito, sostiene che è “importante che i dati siano affidabili e comparabili: la rendicontazione delle imprese deve essere effettuata secondo standard comuni e, in caso di coinvolgimento di data provider, occorre trasparenza sulle metodologie di calcolo per contrastare il rischio di greenwashing”. Dei tentativi dell’Unione Europea di risolvere questo problema parleremo in seguito. In ogni caso è chiaro che fino a quando le aziende non saranno davvero trasparenti – e ciò è ancora più vero per le piccole e medie imprese, che raramente comunicano i propri criteri ESG (quando li seguono) – è necessaria un’uniformità delle regole. Ma ciò che è sostenibile per uno Stato non lo è per un altro. Il caso del nucleare, ad esempio, è paradigmatico: in Francia ci sono continue spinte affinché venga inserito nella tassonomia Ue, mentre l’Italia è da tempo contraria al suo utilizzo, come hanno accertato i due referendum del 1987 e del 2011 (anche se ultimamente il ministro Cingolani spinge almeno per un ritorno della discussione).

Questioni complesse, certamente, ma è chiaro che dalle scelte finanziarie passa molto del futuro della Terra. Tanto da far scrivere a Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia nel 2021, un articolo infuocato dal titolo “Costringiamo la finanza a salvare il pianeta”. Nel suo editoriale su Internazionale, Stiglitz afferma che “alcune istituzioni finanziarie hanno dato il loro contributo, emettendo obbligazioni legate a progetti che hanno un impatto positivo per l’ambiente o installando nelle loro sedi lampadine a basso consumo. Troppe però continuano a finanziare il settore dei combustibili fossili e a sostenere altri campi dell’economia incompatibili con la transizione ecologica. Questi finanziamenti, molti dei quali sono di lunga durata, peggiorano la crisi climatica”. Come fare per impedire questo nuovo e nocivo greenwashing? “Visto che i mercati sono miopi, devono intervenire i supervisori, per esempio le banche centrali”. Ovvero: servono regole condivise.

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Le critiche “dall’interno”

Ha suscitato scalpore negli scorsi mesi Tariq Fancy. Fino a marzo, di lui si sapeva che era stato responsabile della divisione investimenti sostenibili presso BlackRock, il più grande fondo di investimenti del mondo. Insomma, la sua era una figura per addetti ai lavori e poco più, nonostante la mole enorme di soldi che indirizzava dove più riteneva opportuno. Poi, qualche mese addietro, ha cominciato a rilasciare interviste a tutto spiano – all’inglese The Guardian, ad esempio, e all’italiana Valori – per raccontare la sua visione dall’interno. Secondo Fancy, in pratica, così com’è il mondo della finanza sostenibile non funziona. “Il sistema capitalista – ha affermato a Valori –  è basato sul risultato di breve termine. I manager sono obbligati legalmente a cercare di massimizzare i ritorni sugli investimenti. E finché non interverranno i governi con regole stringenti, non potrà cambiare nulla”. Una critica radicale e interessante, ancor più perché proveniente da un mondo da sempre allergico alle regole. L’ex manager spiega poi un altro meccanismo. “I grandi gestori di fondi propongono prodotti ESG e accadono due cose – dichiara sempre a Valori – Primo, gli investitori pagano commissioni più alte perché pensano di fare qualcosa di buono. Secondo, si immagina che così si tolgano soldi a società “cattive”. Ma la realtà è che queste li otterranno da altri. Ci sarà sempre qualche fondo speculativo pronto a comprare quelle quote, finché resteranno redditizie”.

Degne di nota anche le osservazioni di Banca Etica che, sin dal nome scelto per la fondazione nel 1999, si batte per un mondo finanziario che possa portare a un miglioramento nel mondo. Dal “Quarto rapporto sulla finanza etica e sostenibile in Europa” si apprende che “nei primi tre mesi del 2021, circa due miliardi di dollari al giorno sono stati investiti in fondi cosiddetti “sostenibili”: la metà di tutti i soldi investiti in fondi in Europa . La finanza sostenibile, che rispetta criteri ESG (ambientali, sociali e di governance) non è mai stata così popolare. Se nel 2019 il 39% delle società di investimento dichiarava di non attuare politiche ESG specifiche nell’attività finanziaria e bancaria, nel 2021 le istituzioni finanziarie completamente “indifferenti” all’etica sono scese ad appena il 28% del totale”. Di fronte, però, ad attenzioni crescenti non si è data adeguata cura alla prevenzione del greenwashing. Che però, per Banca Etica, non va inteso solamente nella forma più meramente ambientale. “Spesso gli indicatori ESG, con particolare riferimento alla parte S- “social” , tendono a fare un blending (miscela, compensazione) delle dimensioni “do harm” e “do good”, per cui le attività progettuali o le politiche “do good” in materia di diritti umani vengono usate per controbilanciare le evidenze di abuso – si legge ancora nel report – Cosi facendo, gli indici ESG tendono a influenzare in positivo la valutazione sociale “S” delle imprese (o banche) che si impegnano fortemente nelle politiche “do good” (ad esempio, dichiarando di aderire alle linee guida UNGP o istituendo hotline per favorire meccanismi di “grievance”, come reclami o segnalazioni), ma che non sono altrettanto efficaci nel ridurre le violazioni (“do harm”): un comportamento che a volte viene definito genericamente di “greenwashing”, che qui sarebbe più corretto chiamare “rightswashing” (perché relativo agli “human rights”, ai diritti umani)”.

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Quando la cronaca incalza

Se non dovessero bastare le analisi e i report citati, anche la cronaca viene in soccorso dell’allarme greenwashing lanciato da istituzioni e ong. Di più: il greenwashing può far male non solo al Pianeta ma anche al portafoglio delle stesse aziende, come testimonia il caso di Dws, la società di asset management controllata da Deutsche Bank. Come rende noto il Corriere della Sera, il titolo ha perso in borsa oltre un miliardo di euro lo scorso 26 agosto, dunque in un solo giorno, “dopo  la pubblicazione della notizia da parte del Wall Street Journal di un’indagine da parte delle autorità di controllo dei mercati rispettivamente negli Stati Uniti e in Germania (Sec a Bafin) con l’accusa di aver esagerato le credenziali ambientali o sociali di alcuni prodotti di investimento con etichetta Esg”. La vera notizia però è un’altra: ovvero che finalmente il greenwashing viene multato. Non solo da parte degli investitori, che così scelgono di punire chi non rispetta i proclami, ma, soprattutto, da parte delle autorità preposte alla regolamentazione. C’è da sperare che ciò che è avvenuto negli Usa possa replicarsi nel resto del mondo.

Soprattutto perché l’ambientalismo di facciata è la norma e non l’eccezione. Lo testimonia una recentissima analisi del think tank Influence Map, che ha passato sotto la lente 723 fondi azionari ESG e legati al clima con oltre 330 miliardi di dollari di patrimonio netto totale. Ne è emerso che il 71% dei fondi non è in linea con gli standard ambientali previsti dall’Accordo di Parigi. Proprio per via della più volte citata assenza di standard comuni, Influence Map è stata, diciamo così, di manica larga e ha inclusi “oltre 30 termini di ricerca” per individuare pratiche di sostenibilità. Nonostante ciò, i nomi più ricorrenti sono quelli legati ai combustibili fossili. “Tali partecipazioni – chiosa Influence Map – potrebbero destare preoccupazione per gli investitori, in particolare sulla scia del rapporto Net Zero entro il 2050 dell’AIE (l’Agenzia Internazionale dell’Energia, nda), che raccomanda l’interruzione immediata di tutte le nuove esplorazioni di combustibili fossili”.

E in Europa? Il Vecchio Continente, come è noto, da tempo tenta di porsi alla guida del mondo sui temi ambientali. Vale lo stesso sulla finanza sostenibile, dove l’attesa tassonomia che entrerà in vigore dal 31 dicembre 2021 potrà segnare una possibile rotta. Sotto il mare delle buone intenzioni, però, ribolle un fermento di pressioni economiche: basti pensare alle lotte tra Stati e alle pressioni delle lobbies, specie quelle energetiche, per fare inserire come sostenibile questo o quell’altro aspetto. Una situazione incandescente in cui il greenwashing continua a prosperare, come accertato da uno studio condotto dall’agenzia svizzera di rating di sostenibilità Inrate per conto di Greenpeace Svizzera e Greenpeace Lussemburgo, analizzando 51 fondi di sostenibilità.

“Questi fondi – si legge nella sintesi del report – sono riusciti a malapena a reindirizzare più capitale verso un’economia sostenibile rispetto ai fondi convenzionali, non contribuendo ad affrontare la crisi climatica e ingannando i proprietari di attività che vogliono investire sempre più i loro soldi in progetti sostenibili. Sebbene i risultati dello studio siano specifici per Lussemburgo e Svizzera, la loro rilevanza è di vasta portata e indica una serie diffusa di problemi ricorrenti, poiché entrambi i paesi svolgono un ruolo significativo nei mercati finanziari. Il Lussemburgo è il più grande centro di fondi d’investimento in Europa e il secondo al mondo, mentre la Svizzera è uno dei centri finanziari più importanti al mondo in termini di gestione patrimoniale”. La partita, insomma, è tutta da giocare. A patto di volerla giocare realmente e non per finta.

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