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venerdì, Novembre 15, 2024

#EUCircularTalks: l’impegno delle multinazionali verso l’ecodesign tra passi avanti e dubbi

Nel corso del seminario online dedicato al design circolare del ciclo #EUCircularTalks, si sono affrontati temi legati alla circolarità, all’ecodesign e ai benefici economici che ne possono derivare. Oltre a vari esperti del settore, sono intervenuti i rappresentanti di H&M, Decathlon e Ikea

Silvia Santucci
Silvia Santucci
Giornalista pubblicista, dal 2011 ha collaborato con diverse testate online della città dell’Aquila, seguendone le vicende post-sisma. Ha frequentato il Corso EuroMediterraneo di Giornalismo ambientale “Laura Conti”. Ha lavorato come ufficio stampa e social media manager di diversi progetti, tra cui il progetto “Foresta Modello” dell’International Model Forest Network. Nel 2019 le viene assegnata una menzione speciale dalla giuria del premio giornalistico “Guido Polidoro”

Quando si parla di ecodesign e di economia circolare passare dalla teoria alla pratica non è semplice. In ballo ci sono domanda del mercato, scelte dei consumatori, decisioni politiche e cambi di paradigma aziendale ardui da compiere. D’altra parte, l’emergenza climatica richiede un cambio di rotta in tempi brevi, dunque come muoversi? E come si stanno muovendo i grandi colossi mondiali? È su questi presupposti che si è strutturato il seminario organizzato dalla Circular Economy Community dall’Istituto europeo di innovazione e tecnologia (EIT) e dalla European Circular Economy Stakeholder Platform (ECESP), e parte del ciclo di incontri #EUCircularTalks, tenutosi online lo scorso 29 novembre.

Impronta ambientale insostenibile

“Se continuiamo su questa strada, – ha detto Stefano Soro, capo unità DG GROW della Commissione europea – entro il 2050 avremmo consumato le risorse, danneggiato la biodiversità e prodotto emissioni come se avessimo 3 pianeti. Si stima che, se si va avanti così, il consumo globale di biomassa, combustili fossili, metalli e altri minerali sarà raddoppiata da qui al 2050. Solo in Europa ogni anno usiamo 8 giga tonnellate di materie prime, che è 16 volte il peso di tutta la popolazione del mondo. La maggior parte di queste viene trattata come un rifiuto, solo il 12%, cioè 1 giga tonnellate, viene immessa in un processo di circolarità”.

“In Europa – ha aggiunto – le industrie manifatturiere spendono circa il 40 percento del loro fatturato in materiali, questo significa che mantenere questi materiali in circolo il più a lungo possibile, preservando il loro valore economico e generando la minor quantità possibile di rifiuti e il minor impatto ambientale ha anche un senso economico e finanziario”.

“Chiaramente, – ha affermato Soro – la transizione verde deve essere globale perché le emissioni, il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità non si fermano ai confini dell’Unione Europea, che è responsabile all’incirca di una quota tra l’otto e il dieci percento delle emissioni globali di gas serra. Quindi, se ci limitassimo a definire regole e obiettivi molto rigidi che si applicano esclusivamente a noi e alla nostra industria, finiremmo per desertificare industrialmente ed economicamente l’Europa senza benefici ambientali, perderemmo semplicemente carbonio come nostre emissioni di esportazione. Le nostre azioni politiche e normative devono essere ambiziose e rigorose ma, allo stesso tempo, devono mirare a garantire condizioni di parità nell’arena competitiva globale e promuovere l’innovazione, l’adozione di soluzioni all’avanguardia per il raggiungimento di obiettivi ambientali”.

Il mercato dei prodotti sostenibili? Ancora un’eccezione

Sulla domanda di prodotti sostenibili si è invece espressa Silvia Barlassina, coordinatrice del Progetto Ecodesign, Ufficio europeo delle Unioni dei consumatori (BEUC). “C’è un incremento nella domanda dei consumatori di prodotti più sostenibili ma questi sono ancora l’eccezione del mercato e non la norma. I prodotti si rompono troppo presto e spesso non sono riparabili, soprattutto per i cittadini con redditi più bassi. È inoltre difficile per i consumatori riconoscere prodotti sostenibili da prodotti che non lo sono”.

“Negli anni, – prosegue – gli strumenti di ecodesign hanno portato tanti benefici in termini di ambiente e di risparmio energetico, quindi anche di risparmio economico. Dunque, l’approccio dell’ecodesign dovrebbe essere esteso a più prodotti, specialmente a quelli che hanno già un sostanzioso impatto ambientale, incluso il tessile e il mobilio ma anche, ad esempio, i prodotti smart e quelli di micromobilità elettrica, che stanno diventando sempre più popolari tra i consumatori ma il cui impatto ambientale pensiamo sia sottostimato o poco studiato”.

Barlassina ha poi citato un recente studio tedesco, che stima che in Germania le famiglie risparmierebbero 4 miliardi di euro se solo quattro prodotti di uso comune, come tv, notebook, lavatrice e smartphone, durassero di più. “Questo ci dà un’idea – ha commentato – anche del potenziale economico di questa azione politica”.

Per quel che concerne le politiche ambientali si è pronunciato William Neale, consigliere per l’economia circolare DG ENV della Commissione europea. “Negli anni Settanta in Europa – ha ricordato – tutto si basava su una legislazione che puniva gli inquinatori. In vent’anni abbiamo avuto circa 200 nuovi regolamenti, il che è stato molto importante ed utile nel punire chi inquinava e anche nell’avere un effetto deterrente; ma è solo circa dieci anni fa che abbiamo davvero iniziato a parlare di approcci più economici, di efficienza delle risorse e di circolarità”.

E riguardo alle direttive europee sull’ecodesign: “La progettazione dei prodotti, – ha spiegato – determina sostanzialmente l’80 percento dell’impatto di quel prodotto sul suo ciclo di vita. Stiamo in qualche modo mobilitando il potere di consumo collettivo di 450 milioni di consumatori: vogliamo stabilire limiti chiari per ciò che permettiamo nei nostri mercati, quindi si tratta anche di fornire condizioni di parità”.

Leggi anche: I ritardi della politica sull’ecodesign costano caro ai consumatori e all’ambiente

L’impegno ambientale delle multinazionali è abbastanza?

La seconda parte dell’evento è stata contraddistinta dal coinvolgimento di tre grandi colossi nel settore vestiario e dell’arredamento: Ikea, Decathlon e H&M. La scelta di guardare alla strada che queste multinazionali stanno compiendo verso la sostenibilità, e in particolare verso il design circolare, è interessante e dimostra che, ormai, nessuna azienda può sottrarsi dal dimostrarsi attenta all’ambiente.

“La sostenibilità – ha asserito Mirza Rasidovic, di Ikea Svezia – non deve e non può essere un lusso per pochi ma deve essere accessibile a tante persone per poter davvero generare un cambiamento. Attraverso una ricerca interna, abbiamo dimostrato che i prodotti Ikea sono già in media rivenduti 2,9 volte nel corso della loro vita”.

“Il rapporto con il nostro cliente – ha sottolineato – deve continuare oltre il punto vendita: si tratta di offrire nuovi servizi e soluzioni per prolungare la vita dei prodotti in modo intelligente e preservare il loro valore. Ma tutto, anche la riparazione, inizia con il design dei prodotti, che possono essere progettati per poter essere riutilizzati, riproposti e adattati. Bisogna fare scelte oculate su ciò che influisce sulla durata, ma anche sull’accessibilità. Possiamo rispondere alle esigenze dei clienti ed essere circolari, non in teoria, ma anche nella pratica”.

“Entro la fine del 2030, ­- ha annunciato invece Pascale Moreau per H&M – miriamo a utilizzare solo il 100% di riciclato materiale riciclato o proveniente da fonti sostenibili”.

La rappresentante del colosso della moda low-cost ha inoltre annunciato che verrà presto lanciato una nuova iniziativa dal nome esplicativo, Circulator: si tratta di una guida, già disponibile, e di uno strumento digitale, non ancora pronto, sviluppato insieme alla Ellen MacArthur Foundation che mira ad aiutare designer e sviluppatori nell’ideazione di prodotti più sostenibili: tutti i componenti, dal materiale ai trattamenti del tessuto, sono valutati secondo il loro impatto ambientale, la durata e la riciclabilità e il prodotto riceve anche un Circular Product Score, cioè un punteggio di circolarità, che mostra dove è possibile apportare modifiche per renderlo ancora più circolare.

Nelle prossime settimane è poi attesa un’intera collezione circolare, progettata cioè seguendo i principi della guida. In questo senso, l’ambizioso obiettivo che l’azienda si pone è quello di rendere tutti i suoi prodotti attenti a questo aspetto, entro il 2025.

Un materiale riciclato è sufficiente?

Utilizzare materiale riciclati o ripensare i propri prodotti in chiave circolare è sacrosanto e necessario ma viene spontaneo chiedersi sei sia abbastanza, se davvero queste aziende stiano facendo il massimo per poter innanzitutto diminuire il loro enorme impatto ambientale. È lecito chiedersi anche se basterà rendere un prodotto più versatile e realizzato con materiali riciclati e magari riciclabili per incidere positivamente sul suo ciclo di vita, in un’ottica di Life Cycle Assessment (LCA) che, alla fine dei conti, è l’aspetto che ne decreta la vera impronta ambientale o se si rivelerà solo una collezione per chi vuole continuare a comprare moda fast-fashion senza sensi di colpa.

È naturale che una transizione verde debba includere tutte le aziende, specie quelle che hanno un così gran peso a livello ambientale ma, quando sentiamo parlare di circolarità da parte della madre della fast-fashion che produce infinite collezioni a prezzi stracciati, è legittimo riflettere se il concetto stesso di circolarità sia conciliabile con la spinta al consumo di tutte quelle aziende che fanno della produzione sfrenata il loro cavallo di battaglia: se, insomma, la fast-fashion possa essere davvero sostenibile.

I dubbi per quel che riguarda l’impatto ambientale di queste multinazionali viene da lontano: per citare qualche esempio, secondo il report dell’organizzazione Pacific Environment, Ikea sarebbe tra le aziende che inquinano più al mondo per il trasporto marittimo; H&M è stata invece inserita nel rapporto Water Witness International, insieme ad altri marchi, per le sue produzioni in Africa, dove l’impatto delle industrie tessili a livello ambientale è devastante.

C’è poi un altro aspetto da considerare. Nel 2013 H&M aveva pubblicato una “Roadmap towards fair living wages”, un piano di azione per adeguare una giusta retribuzione per le 850 mila persone che lavoravano per il suo marchio entro il 2018 ma, come denunciato in una pubblicazione della Clean Clothes Campaign, fino a settembre 2018 i lavoratori intervistati vivevano ancora sotto la soglia di povertà. E sempre secondo la Fashion Checker, la campagna della Clean Clothes Campaign, finanziata dall’Unione Europea, negli ultimi tre anni non sono pervenute dichiarazioni o prove che assicurino che i salari siano divenuti vivibili per tutti i lavoratori.

Insomma, ammesso che vi sia un reale e significativo impegno da parte dell’azienda in campo ambientale, come possiamo parlare di sostenibilità se non siamo certi delle condizioni lavorative delle persone? Non possiamo dimenticare che dietro i prodotti, anche quelli circolari, ci sono dei lavoratori, i loro diritti, la loro dignità e che i benefici ambientali non possono prescindere dalla giustizia sociale.

Leggi anche: Ecodesign the future, i modelli di business che fanno bene all’ambiente

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