Come ogni 20 giugno dal 2001 si celebra oggi la Giornata mondiale del rifugiato. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha scelto di celebrarla il 20 giugno di ogni anno con la Risoluzione 55/76, approvata il 4 dicembre 2000 in occasione del 50° anniversario della Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati. “L’incredibile cifra di 100 milioni di persone è stata costretta a fuggire dalle proprie case in tutto il mondo”, ha affermato giovedì scorso l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), evidenziando come cause principali l’insicurezza alimentare mondiale, la crisi climatica, la guerra in Ucraina e altre emergenze dall’Africa all’Afghanistan. “Oggi, una persona su 78 sulla Terra è sfollata – afferma l’UNHCR”: Si tratta di un aumento dell’8% rispetto al 2020 e “ben più del doppio rispetto a 10 anni fa“.
Migrazioni e questione ambientale
Come stiamo imparando a causa degli eventi meteorologici estremi sempre più frequenti con la crisi climatica, il degrado della qualità ambientale – con tutte le conseguenze sull’accesso ad acqua, cibo, servizi – è uno dei fattori più rilevanti alla base delle migrazioni. Possiamo ricordare alcuni concetti e dati – desunti da diversi lavori di A sud e CDCA-Centro documentazione conflitti ambientali – che da questo punto di vista ci aiutano. Come ricordano le due ONG “è difficile isolare il fattore ambientale da altri elementi delle migrazioni: esso va a interagire con altri fattori socio economici, politici e culturali. I cambiamenti ambientali influenzano tutti questi fattori in vario modo”. Nel 1993, nello State of the World’s Refugee l’UNHCR aveva identificato il degrado ambientale tra le quattro principali cause di emigrazione, insieme a instabilità politica, tensioni economiche e conflitti etnici. Nel 2001, secondo il World Disasters Report, il numero di profughi causati da cause ambientali aveva superato il numero degli sfollati prodotti dai conflitti armati.
Un problema definitorio
La prima cosa da ricordare nella giornata mondiale re rifugiato è che non esiste un’etichetta unica né una definizione univoca di migranti ambientali: si parla infatti anche di profughi ambientali, rifugiati ambientali, eco profughi. La prima menzione di “rifugiati climatici” in un documento ufficiale (come ricordano A sud e CDCA) risale al 1985, in un report dell’UNEP sugli sfollamenti prodotti da disastri ambientali (in particolare Bophal e Chernobyl): “Persone costrette a lasciare il loro habitat tradizionale, temporaneamente o permanentemente, a causa di un’interruzione ambientale (ovvero cambiamento fisico, chimico o biologico dell’ecosistema, naturale e/o causato dall’uomo) che ha messo in pericolo la loro esistenza e/o gravemente influito sulla qualità della loro vita”. Tra tutte le definizioni formulate da allora, la più completa parrebbe essere quella di Norman Mayers della Oxford University: “I rifugiati ambientali sono individui che non possono più garantirsi mezzi sicuri nelle loro terre di origine principalmente a causa di fattori ambientali di portata inconsueta, come siccità, desertificazione, deforestazione, erosione e altre forme di degrado del suolo; deficit di risorse come quelle idriche; declino di habitat urbani; cambiamento climatico; disastri naturali (cicloni, tempeste, alluvioni, terremoti)”
Al termine “rifugiati” – che rischia di far riferimento esclusivamente ad uno status giuridico e non ad una situazione fattuale – l’UNHCR preferisce “displaced”, cioè “persone costrette a lasciare il tradizionale luogo di residenza poiché i propri mezzi di sostentamento sono stati messi a rischio da processi di degrado ambientale, da danni ecologici irreversibili o da cambiamenti climatici”.
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I dati
Il Centre for Research Epidemiology and Disaster, afferma che negli ultimi 20 anni il 90% dei disastri naturali è connesso ai cambiamenti climatici. Gran parte degli sfollati non varcano i confini dei Paesi ma si spostano al loro interno (si parla per questo di “sfollati interni”). Stando all’ultimo Global Report on Internal Displacement dell’Internal Displacement Monitoring Centre, in tutto nel mondo ci sono circa 40,8 milioni di sfollati interni, la maggior parte dei quali si spostano per cause ambientali: sarebbero oltre 203 milioni di sfollati interni collegati a cause ambientali negli ultimi 8 anni. Come si può vedere dalla differenza dei dati forniti, la definizione scelta influisce in modo sostanziale sulle stime delle persone sfollate.
Ricordiamo, con A sud e CDCA, che le regioni più disagiate a livello economico sono anche le più esposte agli impatti ambientali e climatici: per l’intensità degli impatti (condizioni di vita disagiate non aiutano a prevenire le conseguenze di eventi calamitosi); per la minore capacità di adattamento (scarsa disponibilità di tecnologie e fondi); perché gran parte dell’economia di questi luoghi si basa su modelli tradizionali (agricoltura, pesca o allevamento di sussistenza) spesso danneggiate da eventi ambientali disastrosi.
Secondo l’UNHCR entro il 2050 sul Pianeta i saranno fino a 250 milioni di profughi ambientali in movimento, secondo Christian Aid saranno addirittura 1 miliardo.
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Giornata del rifugiato, guerra in Ucraina e materie prime
“La cifra di 100 milioni di sfollati – sottolinea l’UNHCR – è stata raggiunta a maggio, 10 settimane da quando l’invasione russa dell’Ucraina ha provocato una carenza globale di cereali e fertilizzanti da parte di questi principali esportatori”. I soli ucraini in fuga dalla guerra sarebbero, stando alle cifre comunicate dall’Alto commissario Filippo Grandi, due milioni (quasi il 5 per cento dei 44 milioni di abitanti del Paese). Ma le conseguenze del conflitto, come abbiamo visto, tracimano ben oltre i confini del Paese aggredito. Pesano infatti l’embargo all’aggressore, la Russia, e lo stop forzato alle esportazioni di materie prime ucraine, soprattutto – ma non solo – alimentari. L’anno scorso l’Ucraina è stato il quinto Paese esportatore di grano, la Russia il primo, per non parlare degli altri cereali impiegati principalmente per l’allevamento. Tra i Paesi più minacciati dallo stop alla fornitura di cereali ucraini i più vulnerabili al momento sembrerebbero essere quelli Africani. Una vulnerabilità che si tradurrà quasi certamente in un aumento delle migrazioni verso l’Europa, che già impensieriscono l’intelligence e il governo italiano: “Bisogna agire in fretta – ha detto la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese – altrimenti ci troveremo di fronte a un’emergenza umanitaria con un aumento dei flussi migratori diretti verso le frontiere della Ue”.
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