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venerdì, Maggio 17, 2024

Guerra in Ucraina: i rischi per il mercato delle materie prime critiche

Russia e Ucraina sono centrali nell’export delle materie prime minerarie: il conflitto alza i prezzi e si teme scarsità. Il pericolo, per i Paesi importatori come l’Europa, è rallentare la transizione green e digitale: ma è ancora presto per dire se succederà. E molto dipende dalle scelte che faremo

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Non è semplice leggere l’impatto della guerra in Ucraina sul settore dei metalli e delle materie prime minerarie. Sicuramente, sono ipotizzabili shock improvvisi sugli approvvigionamenti, che potrebbero rendere più complicato produrre una miriade di beni. La Russia, infatti, è il principale produttore al mondo di palladio, il terzo di nichel e alluminio e tra i principali esportatori di acciaio e carbone. Russia e Ucraina ospitano entrambe il 10 per cento delle riserve di ferro globali.

Kiev, con i suoi 27 miliardi di tonnellate di riserve ferrose, è il sesto produttore al mondo: ci sono ben 88 depositi in tutta la nazione, comprese le zone di battaglia Mariupol e Kryvyi Rih. Non solo ferro, in Ucraina troviamo il 5 per cento delle risorse minerarie a livello mondiale: la più grande riserva di manganese d’Europa, la seconda al mondo di gallio e l’1,8 dei depositi mondiali di uranio (45.600 tonnellate), il 6 per cento di titanio, oltre al 20 per cento di riserve di grafite, che ne fanno la quinta nazione più importante al mondo.

Non c’è modo di liberarsi in fretta della dipendenza da materie prime che arrivano dall’Ucraina

E poco può essere fatto per limitare questa esposizione. A differenza di grano e mais, dove basta rivolgersi a un altro fornitore, qui si parla di materiali “critici”, fondamentali per determinate industrie, e a volte persino rari. Nella maggior parte dei casi, in realtà, le risorse ci sarebbero: non sempre, però, è possibile aumentare la produzione nel breve periodo. È la risposta che ha ricevuto, ad esempio, la Polonia quando si è rivolta a società minerarie australiane per contrattare nuove forniture di carbone.

Non è realistico neppure pensare di aggirare il problema cercando nuovi giacimenti. In media, ha spiegato l’Agenzia internazionale per l’energia, passano 16 anni dalla scoperta di una potenziale miniera alla prima estrazione. Il timore della concorrenza cinese ha spinto le società minerarie a massimizzare l’utilizzo delle miniere già attive piuttosto che rischiosi e costosi investimenti alla ricerca di nuovi siti: difficile siano intenzionate a farlo adesso, in un momento di incertezza per il mercato globale.

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Quanto sono aumentati i prezzi delle materie prime con la guerra in Ucraina

In conseguenza, secondo le previsioni di Morgan Stanley, non ci sarà abbastanza carbone, nichel, alluminio e palladio per soddisfare la domanda mondiale di quest’anno. Mentre i prezzi dei metalli hanno cominciato a salire come se già fossimo in un contesto di scarsità. Durante la prima settimana di marzo l’alluminio ha superato per la prima volta la soglia dei 4.000 dollari per tonnellata, mentre rame e palladio hanno toccato nuovi massimi storici rispettivamente a 10.845 dollari per tonnellata e 3.442,47 dollari per oncia. Il nichel l’8 marzo ha superato i 48.000 dollari per tonnellata (+66,25 per cento), prima che la Borsa dei Metalli di Londra sospendesse le quotazioni.

Da un lato prezzi più alti significano maggiori profitti per il settore minerario. Dall’altro l’inflazione incide negativamente sulla domanda e le società minerarie devono pagare di più l’energia utilizzata nelle operazioni di estrazione, che incide tra il 20 e il 25 per cento sui costi. Si tratta di forze che spingono al rialzo i prezzi, con riverberi sull’intera economia mondiale, in settori industriali che vanno dalla meccanica ai beni di largo consumo, come gli apparecchi tecnologici.

Senza nichel difficile un settore automobilistico a emissioni zero

Le sanzioni imposte alla Russia e lo stop all’export del nichel e di altre materie prime potrebbero, ad esempio, rallentare la diffusione e l’adozione di veicoli elettrici e spostare in avanti l’agenda di decarbonizzazione dell’Unione europea. A lanciare l’allarme è stato uno studio di GlobalData, una società di analisi con sede a Londra.

La Russia, secondo questa ricerca, è stata nel 2021 il terzo estrattore e raffinatore mondiale di nichel, superando le 200.000 tonnellate di prodotto finito. L’Ucraina, e proprio nella regione del Donbass, ha abbondanti giacimenti di litio. Nonostante non sia attualmente un grande produttore, la nazione aveva destato molto interesse nelle società minerarie intenzionate a sfruttare le tante riserve ancora intatte.

Poiché il nichel e il litio vengono utilizzati nella produzione di batterie per veicoli elettrici, è infatti prevedibile un aumento della domanda nel breve periodo. Al tempo stesso, sostiene GlobalData, “qualsiasi sanzione applicata al nichel russo farà aumentare ulteriormente i prezzi di produzione dei veicoli elettrici”, perché ci sarà una riduzione dell’offerta. E prezzi alle stelle potrebbero rallentare le costose ambizioni ecologiche europee, che puntano alla neutralità climatica nel settore automotive.

C’è il modo di compensare le carenze di nichel: rivolgendosi soprattutto a Indonesia e Filippine. Tuttavia, conseguenze negative sull’ambiente ci saranno comunque, visto l’aumento dell’impatto di CO2 nelle catene di approvvigionamento da Paesi lontani. Spesso loro stessi poco inclini a pratiche rispettose dell’ambiente.

Leggi anche: La tassonomia alla prova della guerra in Ucraina: come si applica e quali sono le tempistiche

Sviluppo tecnologico rallentato senza platino, palladio e titanio

Il problema non è legato solo alle batterie al litio. La decarbonizzazione richiederà enormi quantità di energia elettrica rinnovabile e nuovi modi per immagazzinarla, in sostituzione ai gasdotti e ai depositi di combustibile fossile. Il problema è che queste tecnologie potrebbero andare incontro a scarsità di materiali fondamentali per farle funzionare, peraltro con pressioni al rialzo dei prezzi dovuti alla contemporanea crescita della domanda.

Il platino e il palladio, ad esempio, sono utilizzati per i convertitori catalitici che riducono la concentrazione di inquinanti e le emissioni dei veicoli con motori a combustione interna. Nei prossimi anni saranno anche indispensabili per le celle a combustibile dei veicoli a idrogeno e negli apparecchi per l’elettrolisi, che scindono le molecole d’acque producendo l’idrogeno. E un ruolo significativo nell’offerta di queste materie prime viene proprio dalla Russia: il 35 per cento del palladio e il 12 per cento del platino.

Per la sua resistenza meccanica e alla corrosione il titanio è impiegato nei telai degli aeroplani, nelle navi, nei satelliti, nei motori degli elicotteri e anche nelle protesi mediche. Sebbene sia presente un po’ ovunque sulla Terra, compreso il corpo umano, solo poche nazioni producono titanio a scopo commerciale. Russia e Ucraina sono nei primi posti della lista. Si trova in Ucraina, ad esempio, la più grande riserva di titanio in Europa. Ci sono almeno 15 depositi, alcuni ancora da esplorare. Si trovano nelle regioni di Kharkiv, Kiev, Donetsk, and Dnipropetrovsk: le più colpite dalla guerra.

L’effetto del conflitto ucraino sul nucleare europeo

In Ucraina si trova anche la principale riserva di uranio in Europa. I prezzi del metallo, essenziale per la produzione di energia nelle centrali nucleari, sono tornati a salire, toccando valori mai registrati dopo il disastro di Fukushima nel marzo 2011. Tuttavia si tratta solo dell’1,8 per cento dei depositi mondiali e non c’è rischio di scarsità. Qual è, allora, il motivo degli aumenti?

Per poter essere utilizzato come combustibile nei reattori nucleari l’uranio deve subire un processo particolare in cui si aumenta artificialmente una delle componenti naturalmente presenti nel metallo, per ottenere l’uranio arricchito. Il fatto è che l’azienda statale russa Rosatom Corp rappresenta il 35 per cento della produzione mondiale di uranio arricchito. E in seguito alle sanzioni, la Russia sta valutando il divieto delle esportazioni. Non ci sarebbe il rischio di un blocco delle centrali nucleari, ma sicuramente un aumento notevole dei prezzi dell’uranio arricchito, perché all’improvviso, e in maniera drastica, si ridurrebbe l’offerta e aumenterebbe la domanda.

Soprattutto in Europa, dove la necessità di emanciparsi dal gas russo sta spingendo le nazioni che producono energia per mezzo centrali nucleari a puntare di più su questa fonte. Il Belgio ha rimandato di dieci anni il programma di dismissione nucleare, il premier inglese Boris Johnson preme per potenziare le centrali nucleari britanniche e la Francia ha annunciato il mese scorso la costruzione di sei nuovi reattori.

Leggi anche: La guerra, la spasmodica ricerca del gas e il ritorno in grande stile del carbone

Ci sarà un ritorno in auge del peggiore dei comustibili fossili?

Prima dell’insurrezione indipendentista e l’autoproclamazione delle repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk nel 2014, nel Donbass si concentrava la stragrande maggioranza della ricchezza mineraria dell’Ucraina, tanto da fare della nazione il settimo Paese al mondo per riserva di carbone, circa il 4 per cento del totale. Tuttavia, già i successivi anni di combattimenti nell’Ucraina orientale avevano intaccato la capacità produttiva nazionale.

Il fatto è che il terzo maggior esportatore di carbone termico, utilizzato per produrre energia, ancora una volta, è la Russia. Sebbene le fonti energetiche non siano state colpite dalle sanzioni e sia complicato capire quanto agli obiettivi politici dell’invasione russa all’Ucraina si aggiungano interessi legati alle risorse, il timore è che Putin utilizzi le forniture energetiche come armi verso la dipendente Europa. Il risultato è un “patto Faustino”, come è stato definito, in cui la fretta di emanciparsi dalle forniture russe ha spinto i governi europei a riconsiderare l’utilità del carbone, mettendo seriamente in discussione gli obiettivi di neutralità climatica.

Come tutti i patti col diavolo, però, dietro c’è un inganno. Visto che il carbone non può comunque essere importato dalla Russia, a meno di sostituire una dipendenza con un’altra, la domanda si è rivolta verso gli altri grandi produttori, primi fra tutti Australia e Sudafrica, e le quotazioni sono aumentate del 100 per cento rispetto a inizio anno. Si sacrifica l’ambiente sull’altare della crescita economica, salvo poi pagare il doppio il peggiore dei combustibili fossili.

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