Il deserto di Atacama, che si estende per circa 1.600 km lungo la costa occidentale del Cile, è il luogo più arido del Pianeta, noto per la spettacolare fioritura che ogni lustro colora le sue dune. Negli ultimi tempi, però, il “desierto florido” è anche diventato una delle discariche del fast fashion più grandi del mondo. Ogni anno, si stima che qui vengano scaricate illegalmente circa 39.000 tonnellate di vestiti usati di vario tipo e materiale, provenienti dall’Europa, dall’Asia e dagli Stati Uniti.
Fra i punti nevralgici individuati, c’è l’area di Alto Hospicio, situata a 12 Km da Iquique, città portuale a nord del Paese dove approdano, senza alcun controllo, navi cargo e container carichi di balle di abiti di seconda mano, spesso fallati e impossibili da immettere nel settore dell’usato. Ciò che non viene venduto a peso nelle aste della cosiddetta ‘zona franca’ è quindi caricato su camion e smaltito illegalmente nel deserto, costellato da discariche informali. E dato alle fiamme periodicamente, producendo sostanze e residui tossici che, trasportati dal vento, inquinano l’aria dei centri limitrofi, l’acqua delle falde e dell’Oceano Pacifico.
Due imprenditori cileni, il consulente di materiali tessili Franklin Zepeda Lopez e l’ingegnera civile e industriale Rosario Hevia, stanno cercando di allungare la vita di questi rifiuti tessili, dando impulso a due aziende che stanno aprendo interessanti prospettive in Cile sul fronte del riciclo delle fibre miste, nell’ottica dell’economia circolare.
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L’economia circolare collaborativa di 3co-Fiber
Ad Alto Hospicio, nel dipartimento di Iquique, Franklin Zepeda Lopez ha fondato nel 2016 la startup 3co-Fiber. L’azienda trasforma i rifiuti tessili delle discariche della regione di Tarapacá in materia prima seconda, da usare per la realizzazione di pannelli isolanti termici e acustici e ritardanti di fiamma per uso edile. “Solo nell’ultimo anno sono stati importati dall’estero circa 59.000 tonnellate di capi di seconda mano destinati ai mercati cileni, causando un problema latente legato allo smaltimento. Eppure da questi potrebbero essere ricavati diversi prodotti, invece di impattare il deserto con conseguenze ambientali devastanti”, ha dichiarato in un’intervista l’imprenditore. È nata quindi l’idea di mettere a punto un prodotto amico dell’ambiente, che sia in grado di ridurre i consumi energetici dell’intero Paese.
Il sistema messo a punto da 3co-Fiber prevede sia l’approvvigionamento e la selezione degli abiti in discarica, sia la raccolta diretta concordata con i residenti, riducendo il flusso in entrata della frazione tessile nell’area desertica. Segue la frantumazione dei capi con un apposito macchinario, ottenendo così la cosiddetta “multifibra”, materiale trinciato composto da diverse tipologie di fibre, texture e colore. Il tutto viene poi ricompattato tramite un processo termoindurente, che consente di produrre lastre e sfusi con densità diverse, in grado di isolare tutti i tipi di edifici, riducendo i consumi energetici, sia per il riscaldamento che per il condizionamento.
“Non parliamo solo di economia circolare di per sé, ma di economia circolare collaborativa, che implica l’interconnessione del mondo pubblico e privato e allo stesso tempo tra le imprese, che è ciò che manca al momento in Cile”, ha dichiarato il Ceo di 3co-Fiber.
L’azienda è infatti legata dal punto di vista commerciale alle società Zofri S.A e Corfo. “Dopo una prima fase di ricerca e diversi fallimenti, siamo arrivati al prodotto finale grazie a un viaggio in Bulgaria e Germania, dove abbiamo appreso il know how necessario per il riciclo dei tessuti. Ciò ci ha consentito di vincere un bando promosso dall’Hub Tarapacá e dalle società Zofri S.A e Corfo, che hanno finanziato la fase di sviluppo dei nostri prodotti”, ha spiegato Franklin Zepeda Lopez. L’azienda, inoltre, fornisce alle imprese cilene un servizio innovativo di tracciabilità sui rifiuti tessili da smaltire, generando un QR Code tramite il quale è possibile conoscere, dal punto di partenza alla destinazione, informazioni su peso, data e orario delle operazioni di carico/scarico, sulla logistica e sull’utilizzo finale del materiale. L’imprenditore per la sua attività ha ricevuto diversi riconoscimenti: oltre al premio Circolare Innova 2018, è stato dichiarato Cileno dell’anno nel 2020 e Campione per la Moda Circolare nel 2021.
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Ecocitex, filati da fibre miste riciclate
A Santiago del Cile, l’ingegnera civile e industriale Rosario Hevia ha co-fondato nel 2020 Ecocitex, azienda impegnata nella produzione di filati riciclati al 100% provenienti da rifiuti tessili in fibre miste, senza utilizzare acqua o colorante nel processo.
“Tutto è cominciato con un’altra attività, un negozio dedicato al riutilizzo e allo scambio di abbigliamento usato per bambini, che riceveva circa 400 chili di merce fallata al mese. Volevo gestirla in maniera sostenibile. Mi sono resa conto però che non c’era modo di farlo”, ha raccontato in un’intervista a El Confidencial. L’ingegnera ha così cominciato a fare ricerche per capire come si stava affrontando il problema all’estero e se era possibile riconvertire i rifiuti tessili in fibra mista in filato. “Ho scoperto che esistevano diverse iniziative per riciclare indumenti 100% cotone o 100% poliestere, ma non ce n’erano per le fibre miste, che sono oggi la principale causa d’inquinamento nel Cile e nel mondo”.
Per risolvere il problema, Rosario Hevia ha fatto ricorso a una soluzione del passato, acquistando una filanda del 1962, adattandola per riciclare il tessuto di indumenti post-consumo in cattive condizioni. “Il risultato è un filato resistente in multimateriale – racconta – costituito da un mix sempre diverso di acrilico, cotone, poliestere, nylon o altre fibre, a seconda dei capi riciclati, che danno vita a gomitoli unici per texture e colore. Sono più di quaranta le nuance ottenute, grazie a un’accurata fase di pre-selezione manuale dei capi, operata da donne detenute in fase di reinserimento sociale, reclutate attraverso la Fondazione Abriendo Puerta.
“Ciò che è in buone condizioni viene riutilizzato, mentre il tessuto che può essere recuperato è riconvertito in altri prodotti. Solo ciò che non ha un’alternativa migliore viene riciclato”, spiega. Il processo inizia separando i capi che possono essere trasformati in filati da quelli utili solo per fare imbottiture. Una volta classificati per colore e privati da elementi non tessili (cerniere, bottoni, gancetti), si procede con la fase di taglio, tramite una ghigliottina industriale. Viene quindi verificata la qualità del materiale sminuzzato e valutata la quantità di legatura aggiuntiva necessaria per amalgamarlo. L’impasto ottenuto, fatto passare attraverso una carda, è infine trasformato in vello e convertito in “canelos”, flauti di filati, che una volta ritorti sono pronti per essere inviati a terzi e lavorati per realizzare coperte, cordoncini in macramè, pedane o altri manufatti.
“Lavoriamo secondo la politica del commercio equo. Ci siamo formati fin dall’inizio con l’impegno di diventare un’azienda B Corps, in linea con il GRS (Global Recycle Standard). Abbiamo calcolato che per ogni tonnellata di abiti riciclati, evitiamo l’immissione nell’atmosfera di 5,8 tonnellate di CO2”, assicura l’ingegnera, che conclude: “Ci rendiamo conto che la nostra esperienza è solo un piccolo rimedio e non la soluzione a un problema molto più grande. Per risolverlo è necessario tornare a una moda slow, produrre capi di qualità che durano nel tempo. E sono necessarie leggi che richiedano la tracciabilità dei produttori e degli importatori di abbigliamento, che devono assumersi la responsabilità di ciò che immettono sul mercato e la gestione sostenibile dei rifiuti generati dalla loro attività o pagare qualcuno per farlo”.
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