Occuparsi del greenwashing è sempre più necessario. Ce lo dicono le iniziative normative, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, che il nostro Magazine sta raccontando e che cercano di mettere un argine a questo fenomeno scorretto e parassitario. Ma oltre che a livello legislativo, è essenziale continuare ad affrontare il tema greenwashing anche a livello giornalistico: la conoscenza di questo fenomeno, come vedremo, in Italia è molto bassa. E come ci si può difendere da un nemico di cui non si ha consapevolezza? Un nemico che, nel frattempo, non molla la presa. Due ricerche recenti ci aiutano a farci un’idea più precisa.
Livelli di conoscenza bassi, fiducia in calo
Solo un italiano su cinque (il 21%) ha sentito parlare di greenwashing – e “aver sentito parlare” non vuol dire certo “conoscere”. Un quadro piuttosto allarmante che ci viene restituito da un ampio e approfondito sondaggio sui temi della sostenibilità (Sostenibilità è qualità) realizzato da Ipsos e Fondazione Symbola (mille interviste online effettuate a novembre dello scorso anno su un campione rappresentativo dell’intera popolazione italiana).
Una volta spiegati i termini anche a chi non li conosceva, più della metà delle persone coinvolte nell’indagine resta pessimista sul comportamento delle imprese. Solo il 37% ritiene che quelle oneste siano più numerose di quelle che fanno green o social washing. Una quota analoga (35%) ritiene che i buoni e i cattivi siano in egual misura, mentre il 28% non ha dubbi sul fatto che green e social washing la facciano da padrone.
Secondo la maggioranza degli intervistati da Symbola e Ipsos (60%), è difficile (“molto o abbastanza difficile”) comprendere la reale sostenibilità di un’azienda. Maggioranza che in rilevazioni condotte negli anni precedenti era ampiamente maggiore (nel 2018 74%). Secondo quasi la metà del campione oggi è più facile (molto o abbastanza) che in passato, mentre circa un terzo (36%) ritiene non ci siano differenze con gli anni precedenti.
Negli ultimi anni vediamo prima crescere e poi calare la fiducia nella sostenibilità delle imprese italiane. Nel 2014, il campione riteneva che solo il 30% delle imprese che operano in Italia fosse responsabile (dal punto di vista ambientale). Tra il 2018 e il 2021 la quota di imprese percepite responsabili sfiora il 40%, per poi scendere al 34% nell’ultima rilevazione (2022).
“La maggiore facilità nel riconoscere un’azienda sostenibile fa ridurre la quota di imprese percepite come responsabili: evidentemente c’ è anche una aspettativa maggiore”, commentano i ricercatori. Oppure, nostra ipotesi, la maggiore facilità di discernere porta a giudizi non positivi.
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Il greenwashing nel mondo
Ma come si comportano le aziende in Europa e nel mondo sul fronte greenwashing? E come reagiscono le autorità? Informazioni a riguardo ce le fornisce il Rapporto Greenwashing 2023 – elaborato da EPR comunicazione e presentato a maggio a Circonomìa – il Festival dell’economia circolare e della transizione ecologica – e dedicato appunto alle misure attive in Italia e nel mondo per contrastare le pubblicità e le aziende che dicono di essere “green” senza esserlo.
“Secondo un’indagine di Eurobarometro – ha dichiarato Francesco Ferrante, Vicepresidente del Kyoto Club, commentando la ricerca – si contano oltre 200 esempi di brand che fanno greenwashing, creando confusione nel consumatore. La proposta di direttiva sui ‘green claims’ che è stata presentata dalla Commissione europea il 22 marzo non impatta solo sulle scelte di marketing aziendale, ma ha una valenza di enorme portata, soprattutto in ambito economico. Per questo nel rapporto mettiamo sotto la lente ‘casi di scuola’ di greenwashing in Italia e nel mondo, e facciamo luce sul contesto europeo e internazionale nel quale si inserisce la direttiva”.
Il greenwashing in Italia
In Italia, rileva il Rapporto Greenwashing 2023, sussiste un vuoto normativo – che la futura direttiva Green claim andrebbe a colmare: non c’è una vera e propria norma che regoli e persegua le pratiche scorrette, sebbene l’Autorità garante del mercato e della concorrenza abbia comminato multe anche ad aziende molto note. Infatti con l’attuazione dell’articolo 14 della Direttiva 2005/29/CE, il d.lgs. 145/07 non modifica nel principio la definizione di “pubblicità ingannevole”, ma introduce ulteriori misure per limitare alcune pratiche scorrette, come: “ La possibilità per l’Autorità garante della concorrenza e del mercato di agire d’ufficio contro la pubblicità ingannevole e comparativa illecita; la possibilità per l’azienda scorretta di impegnarsi a risolvere l’infrazione, cessando dalla diffusione della pubblicità ingannevole o modificandola; nonché l’applicazione di sanzioni pecuniarie più elevate”.
Tra i casi italiani di greenwashing citati nel report troviamo Intesa Sanpaolo, banca numero uno in Italia per patrimonio gestito. La banca è attiva nell’asset management attraverso la controllata Eurizon che, tra i suoi prodotti offre anche due fondi lussemburghesi: Equity Europe ESG e Equity USA ESG. “Per quanto entrambi i fondi dichiarino investimenti ‘solo in azioni di società che soddisfano standard ambientali, sociali e di governance minimi, senza esclusioni di settore’ – leggiamo nel report – , da una più approfondita analisi ne è scaturito che in realtà i due fondi comprendevano anche investimenti significativi in società legate al gioco d’azzardo e all’industria mineraria, mentre nella gemella americana, Equity USA ESG, compaiano tra i beni di consumo due leader del settore del tabacco: Philip Morris e Altria”.
Sebbene Eurizon assicuri una serie di prodotti e aziende attenti all’impronta di carbonio nel suo portafoglio, come il fondo Low Carbon, “da un’analisi dei titoli è emersa la presenza di società altamente inquinanti, come la RWE, multinazionale del settore energetico”. Nell’ultimo anno è salita alla ribalta la battaglia tra ambientalisti e RWE, la più grande azienda europea nel campo del carbone, con 63 milioni di tonnellate estratte solo nel 2022: secondo un report pubblicato da Greenpeace, RWE “vanta il più alto livello di emissioni di CO2 in Europa”
Nello screening del rapporto troviamo anche ENI. Non solo per la nota multa milionaria per ENI Diesel+, anno 2020, ma anche perché per il secondo anno consecutivo ENI “è stata il bersaglio di diverse ONG legate all’ambiente e al clima, tacciata di utilizzare il palco dell’Ariston per sponsorizzare la nuova compagnia Plenitude, iniziativa volta a raggiungere l’obiettivo emissioni zero entro il 2040, quando in realtà tale target a giudizio delle associazioni green sia ben lontano dall’effettiva realizzazione”. Come sappiamo, anche nel corso dell’ultima edizione di Sanremo, ENI figurava tra i principali sponsor del festival, “nonostante Plenitude continui a fondare le proprie attività su fonti fossili come il gas. Sulla base degli ultimi dati disponibili, le vendite registrate nel 2021 sono state garantite dal 65% dalle forniture di gas, mentre le vendite di energia elettrica sono state pari al 35%”.
Scorrendo la lista del Rapporto Greenwashing 2023, tra i casi più noti di Greenwashing è utile ricordare lo spot della Ferrarelle, e la bottiglia definita a “impatto zero”, assicurando la compensazione dell CO2 emessa attraverso la riforestazione. “Ma il claim non convinse l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che, con una sanzione di 30 mila euro, accusò la multinazionale di aver commesso una pratica commerciale scorretta, in quanto lascia intendere al consumatore che ‘la produzione di acqua risulta interamente compensata’. Al contrario, invece, ‘la riforestazione non riguarda la totalità delle emissioni inquinanti, ma solo una percentuale della produzione pari al 7% del totale annuale’”. Nel mondo dell’acqua in bottiglia, oltre a Ferrarelle, il report ricorda anche San Benedetto – che nel 2010 venne multata per aver definito la sua bottiglia in plastica come ‘amica dell’ambiente’ – a Sant’Anna – “sanzionata nel 2012 per aver riportato criteri e pregi ambientali superiori alla realtà”.
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Il greenwashing in Francia
Un modello di contrasto al Greeenwashing “che si sta affermando forse con più accuratezza è quello francese”. Per combattere la crescente diffusione di informazioni non veritiere o fuorvianti sulla sostenibilità, l’Assemblea Nazionale francese ha infatti deciso di adottare nel luglio 2021 il disegno di legge “per combattere i cambiamenti climatici e rafforzare la resilienza”, noto anche come Legge sul clima e sulla resilienza.
La legge ha imposto nuove norme riguardanti la pubblicità: “Le informazioni fornite devono mostrare, in modo affidabile e facilmente comprensibile per il consumatore, l’impatto ambientale dei beni e dei servizi considerati durante il loro intero ciclo di vita. Tiene conto degli impatti ambientali dei beni e dei servizi considerati, secondo la loro rilevanza per una determinata categoria, in particolare in termini di emissioni di gas a effetto serra, danni alla biodiversità e consumo di acqua e altre risorse naturali. Prende anche in considerazione le esternalità ambientali dei sistemi di produzione dei beni e servizi considerati, valutate scientificamente, in particolare per i prodotti agricoli, forestali e alimentari”.
Vengono poi considerate ingannevoli tutte quelle pratiche commerciali che implicano o danno l’impressione “che un bene o un servizio abbia un effetto positivo o nessun impatto sull’ambiente o che sia meno dannoso per l’ambiente di beni o servizi concorrenti”. Viene infatti vietata, dal primo gennaio di quest’anno, ogni affermazione ingannevole che dichiari che un servizio o un prodotto sia “carbon neutral” o “privo di conseguenze negative per il clima”, a meno che non venga dimostrato nel concreto che si siano implementate misure atte ad evitare, o quanto meno ridurre, le emissioni di gas serra.
Tra gli esempi francesi di greenwashing ricordati nel report, Crédit Agricole. La banca dichiarava di essere attore della transizione energetica, ma nel frattempo finanziava fonti fossili per 32 miliardi di euro e solo 4 miliardi erano dedicati alle rinnovabili. Stesso discorso per BNP, sponsor della COP21, che dichiarava il proprio impegno contro il cambiamento climatico, devolvendo però solo 6 miliardi di euro all’energia rinnovabile, contro i 52 miliardi ai combustibili fossili.
In Germania
Thorsten Poetzsch, Direttore esecutivo della Bundesanstalt Für Finanzdienstleistungsaufsich (BaFin), l’autorità federale tedesca per la supervisione del settore finanziario, ha affermato – come riferisce il Report presentato a Circonomia – che spesso “abbiamo trovato diversi fondi di investimento in cui i termini sono così vaghi che non puoi essere sicuro che siano sostenibili“.
Per questo il 2 agosto del 2021, la BaFin ha presentato la sua bozza di linee guida sugli investimenti sostenibili (“Guidelines on sustainability-oriented investment funds”), aprendo il documento ad una consultazione pubblica per le parti interessante, che si è conclusa lo scorso 6 settembre. Le linee guida mirano a garantire che i finanziatori indicati come sostenibili dispongano di regole sui fondi, esprimendo il loro impegno per un approccio di investimento sostenibile, in termini chiari e i più precisi possibile. Ad esempio, almeno il 75% del fondo di investimento deve essere capitalizzato esclusivamente in attività sostenibili. E deve attenersi al principio “Do No Significant Harm” (DNHS).
Anche la Germania, ovviamente, ha i sui esempi di greenwashing. La compagnia aerea Lufthansa, ad esempio. Nel Regno Unito, la Advertising Standards Authority (ASA) ha accusato la compagnia di aver dato un’impressione “fuorviante” dell’impatto ambientale dell’aviazione, e ha vietato la pubblicità dal claim “Connecting the world. Protecting the future”. Nella sentenza l’Autorità ha concluso che “la base dell’affermazione non era chiara e adeguatamente motivata”.
E poi Adidas. Per sponsorizzare le sue note scarpe Stan Smith, in plastica riciclata al 50%, ha usato l’affermazione “End plastic waste”: “È improbabile che indossare un paio di scarpe da ginnastica Stan Smith realizzate con materiale non completamente riciclato porrà fine all’inquinamento da plastica”, leggiamo nel documento.
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Il greenwashing in Gran Bretagna
La Competition and Market Authority (CMA), l’autorità di regolamentazione della concorrenza nel Regno Unito, a settembre 2021 ha pubblicato il codice di condotta “Green Claims Code”, uno strumento nelle mani delle imprese per comunicare correttamente le proprie credenziali ecologiche, riducendo il rischio di greenwashing.
il Codice stabilisce che le imprese devono garantire affermazioni motivate, veritiere, accurate, chiare e inequivocabili; i claim devono essere relativi l’intero ciclo di vita non devono nascondere informazioni importanti; gli eventuali confronti devono essere equi e significativi.
La compagnia aerea Etihad, che in due post su Facebook dell’ottobre 2022 affermava di adottare “un approccio più forte e più audace per l’aviazione sostenibile”, è stata bacchettata dall’ASA: nonostante la compagnai stia adottando misure per ridurre l’impatto ambientale del suo servizio, afferma l’Agenzia- “attualmente non ci sono iniziative o tecnologie commercialmente valide in funzione all’interno dell’industria aeronautica che suffragherebbero adeguatamente un’affermazione assolutamente ecologica come ‘aviazione sostenibile’”.
Altro esempio censurato dall’Asa è Lipton Ice Tea, che su un poster ha affermato “deliziosamente rinfrescante, 100% riciclato*”. L’asterisco rimandava a un testo più in fondo al manifesto: “Bottiglia in plastica riciclata, escluso tappo ed etichetta”. Per l’agenzia britannica l’affermazione “100% riciclato” “implica in modo plagiante che l’intera bottiglia Lipton fosse realizzata in plastica riciclata”.
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Negli Stati Uniti
Negli USA la questione del greenwashing è stata affrontato già a partire dal 1992 dalla Federal Trade Commission (FTC), l’agenzia governativa statunitense per la tutela dei consumatori, l’eliminazione e la prevenzione di pratiche commerciali anticoncorrenziali: con le “Green Guides”, riviste nel 1996, 1998, 2012 e, come abbiamo raccontato, in corso di revisione.
Tra i grandi brand a stelle e strisce citati nel Rapporto Greenwashing 2023 anche Coca-Cola. Il colosso ha deciso “di sostituire il 20% della plastica vergine con quella riciclata, creando nuove bottiglie in polietilene tereftalato riciclato (rPET)”. Peccato che le nuove bottiglie in rPET rappresentino solo una minima parte della produzione totale.
Nel 2022 l’alta corte del Massachusetts ha respinto all’unanimità la domanda di ExxonMobil Corp di archiviare una causa intentata dal procuratore generale dello Stato che accusava la compagnia petrolifera di ingannare consumatori e investitori sul cambiamento climatico e sui pericoli dei combustibili fossili. Già in passato il colosso petrolifero è stato oggetto di un procedimento legale negli Stati Uniti per aver condotto una campagna pluridecennale per insabbiare le prove del riscaldamento globale causato dall’uomo
Con l’esplosione dei fondi ESG (Environmental Social, Governance), “sono molteplici le banche e le società di investimento che sono state accusate di aver commesso pratiche legate al greenwashing, tra queste figurano colossi come BlackRock e JP Morgan Chase, le quali, nonostante abbiano allineato il proprio modello di business ai dettami dell’accordo di Parigi, rimangono tra i maggiori finanziatori mondiali dei combustibili fossili”.
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