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martedì, Maggio 21, 2024

Neanche i biocarburanti di seconda generazione, quelli su cui punta Eni, convincono le ong

Attraverso report e documenti, varie ong italiane e europee si oppongono alla scelta del governo Meloni di puntare sui biocarburanti. In particolare l'Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile chiede che nell'aggiornamento del PNIEC, previsto per il 30 giugno, di puntare su elettrificazione e biocarburanti avanzati

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

Davvero la transizione energetica passa (anche) dai biocarburanti? Secondo l’Italia, la risposta a questa domanda è affermativa. Per dirla meglio: come è noto, il governo Meloni preme sull’Unione europea affinché venga garantita continuità produttiva alle auto termiche (benzina, diesel, metano e gpl) dopo il 2035, la data in cui l’Ue vuole mettere al bando la produzione di nuove auto a combustione, attraverso l’escamotage dei biocarburanti. Ma cosa si intende con la parola biocarburanti? Sono combustibili ottenuti da materie prime di origine agricola, animale o da oli usati (da qui la parola bio).

Al momento nell’ambito del pacchetto Fit for 55 l’Unione europea pare contraria al loro utilizzo per il trasporto privato: ma  la Commissione europea ha sancito la possibilità di poter riesaminare la decisione nel 2026. Date le elezioni del 2024 che vedranno il rinnovo delle istituzioni europee – il Parlamento europeo, che poi dovrà nominare la presidenza della Commissione Eu – è facile immaginare che i nuovi equilibri politici, col vento delle destre che spira da molti degli Stati membri, rimetteranno in discussione gli assunti finora stabiliti. Quel che è certo è che, a detta degli esperti, la sostituzione dei carburanti fossili con i biocarburanti – in realtà non una sostituzione 1 a 1 ma una crescente gradualità dei secondi sui primi – è auspicabile almeno in una prima fase nei trasporti pesanti a lunga gittata, come l’aviazione e il marittimo, dove l’elettrificazione è più complicata.

Pur se esistenti a livello industriale da più di una decina di anni, i biocarburanti hanno però fatto abbastanza fatica ad attecchire a livello sistemico. Soprattutto per via degli alti impatti ambientali: i biocarburanti di prima generazione consentono una riduzione delle emissioni che è marginale rispetto alle fonti fossili e, soprattutto, si basano su coltivazioni intensive di olio di palma, di soia, di mais o di canna da zucchero che in questi anni hanno causato deforestazioni colossali e sottrazioni importanti di terre che avrebbero potuto essere destinate a coltivazioni locali. Dal primo gennaio 2023, d’altra parte, nell’Unione europea è attivo il divieto di utilizzo di oli di palma e di soia per biocarburanti ed elettricità. Un divieto al quale si è arrivato dopo anni e anni di pressioni e rinvii.

Per tutti questi motivi c’è molta attenzione sui biocarburanti di seconda generazione, che sono ottenuti attraverso tecniche di produzione che non comportano sottrazione di terreno agricolo alla produzione alimentare o cambi di destinazione agricola. D’altra parte in un’analisi del 2021 condotta dalla banca internazionale britannica Barclays, nei prossimi dieci anni la domanda di biocarburanti aumenterà del 14% l’anno, con consumi più che triplicati da qui al 2030.

Ma secondo Nicola Armaroli, esperto di energia e dirigente di ricerca del CNR, “purtroppo, dopo anni di impianti su piccola scala, i progressi nel campo sono limitati e i costi ancora alti. Ottenere biocarburanti da rifiuti vegetali richiede complicate lavorazioni che prevedono pre-trattamenti (come pirolisi o gassificazione) seguiti da ulteriori processi chimici (upgrade) da cui si ricava il combustibile liquido”. Quella di Armaroli non è l’unica bocciatura, come vedremo tra poco. Eppure l’Italia continua a puntare su questa filiera. Anzi, a dirla tutta, la protagonista assoluta è una sola impresa. Dalle dimensioni colossali.

Leggi anche: Il report di T&E e Oxfam denuncia il greenwashing sui biocarburanti. Ma l’Italia continua a puntarci

Il ruolo di Eni nei biocarburanti 

In Italia l’attore principale è Eni. Il colosso energetico a sei zampe da tempo ha puntato su questa filiera. Innanzitutto riconvertendo le vecchie raffinerie italiane di petrolio in bioraffinerie: Porto Marghera nel 2014, Gela nel 2019 e Livorno nel prossimo futuro (è in corso la fase di valutazione di impatto ambientale). Poi acquistando altre due bioraffinerie, in Malesia e negli Stati Uniti, con un investimento complessivo di quasi un miliardo e mezzo di euro. Nel frattempo l’azienda ha sviluppato alcuni agri-hub in Africa, cioè una filiera agro-industriale che coltiva, tratta, produce ed esporta le materie prime. Nella Repubblica del Congo e in Kenya Eni ha realizzato progetti di recupero di terreni degradati e, sostiene l’azienda, “non in competizione con la catena alimentare e provenienti da colture su terreni desertici o predesertici, quindi non a rischio deforestazione”.

Da qui, attraverso il coinvolgimento delle comunità locali, si coltivano soprattutto ricino, croton e cotone, che confluiscono negli agri-hub propriamente detti, vale a dire i centri di raccolta e spremitura dei semi prodotti, dai quali si ricava un olio estratto che viene poi inviato alle bioraffinerie in Italia per ottenerne i biocarburanti propriamente detti. Fino a questo momento il prodotto più pubblicizzato è l’HVO, il biodiesel per le auto e i veicoli commerciali. In più si sta lavorando per incrementare la produzione di biocombustibile per gli aerei e per la nautica da diporto.

Intanto altri progetti simili di agri-hub sono già stati avviati in Angola, Mozambico, Benin, Ruanda, Costa d’Avorio, Algeria e Kazakhstan. In questo modo si intende incrementare il target di capacità di raffinazione, con oltre 3 milioni di tonnellate all’anno entro il 2025. “Il nostro obiettivo è coprire il 20% della (nostra) produzione di biocarburanti con materie prime provenienti dal nostro agrobusiness entro il 2025, che è una soglia rilevante dal momento che abbiamo aumentato i nostri target di produzione”, ha detto all’agenzia Reuters Giuseppe Ricci, a capo del settore Energy Evolution di Eni. All’assemblea degli azionisti, avvenuta lo scorso maggio, Eni ha risposto alle domande di chi pensa che col pacchetto Fit for 55 l’Unione europea intenda mettere un freno allo sviluppo dei biocarburanti nel Vecchio Continente.

“Le decisioni europee non condizioneranno le scelte strategiche di Eni dal momento che vi è una importante domanda di biocarburanti dai Paesi extraeuropei e che il trasporto pesante, aereo e navale rimangono ambiti in cui i biocarburanti costituiscono l’unica soluzione oggi percorribile per ridurne le emissioni – scrive l’azienda – Anche nel caso in cui fosse decisa definitivamente l’esclusione dei biocarburanti nella nuova normativa europea sui motori endotermici, la domanda mondiale di lungo termine di HVO diesel e SAF (Sustainable Aviation Fuel) è attesa in forte crescita da qui al 2050. Eni sta anticipando la normativa europea producendo già oggi, ad esempio per il settore aviazione l’Eni Biojet, biocarburante HVO che contiene il 100% di componente biogenica, idoneo a essere utilizzato in miscela con il jet convenzionale fino al 50%. Lo abbiamo già utilizzato in miscela al 20% e ne incrementeremo la produzione: nel 2024 è previsto l’avvio della produzione di Eni Biojet sia a Gela che a Venezia a partire da materie prime rinnovabili, in grado di soddisfare il potenziale obbligo del mercato italiano per il 2025 e siamo pronti per ulteriori conversioni bio per soddisfare gli obblighi crescenti sui diversi mercati mondiali”.

A quanto pare, dunque, per il cane a sei zampe l’uso dei biocarburanti per le automobili non è prioritario. Vale poi la pena specificare che per materie prime rinnovabili” l’azienda intende  “olii vegetali, scarti vegetali e animali”. Su questi, però, si addensano parecchie nubi.

Leggi anche: T&E: “I biocarburanti replicano i problemi dei carburanti fossili”

I dubbi sui biocarburanti di seconda generazione (parte prima)

Per un volo da Parigi a New York potrebbero servire in futuro fino a 8.800 maiali morti (se la tratta aerea venisse alimentata al 100% da biodiesel). Sceglie un dato inequivocabile, e allarmante, il gruppo ecologista Transport & Environment (T&E) per sottolineare i rischi dei “carburanti sostenibili per l’aviazione”, noti con l’acronimo inglese SAF (Sustainable Aviation Fuels). Secondo uno studio pubblicato da T&E, il crescente uso di grassi animali per alimentare il trasporto aereo e su strada necessita di una maggiore trasparenza “affinché i consumatori sappiano cosa finisce (e cosa potrebbe finire nei prossimi anni) nei loro serbatoi, nonché cosa alimenta i loro voli”.

biocarburanti grassi animali

“L’uso di biodiesel a base di grassi animali è raddoppiato negli ultimi dieci anni ed è 40 volte superiore rispetto al 2006 – scrive T&E – I legislatori europei hanno promosso questo sottoprodotto della zootecnia intensiva come una soluzione per ridurre la carbon footprint dei carburanti per il trasporto: si è partiti dalle automobili fino a estendere l’impiego di questi prodotti anche agli aerei e, in misura minore, alle navi. Tuttavia, il primo limite da affrontare è la scarsità di questi residui dell’industria della carne. I grassi animali sono necessari (e difficilmente sostituibili) per l’industria del pet food, dei saponi e della cosmesi; ma quasi la metà di tutti i grassi animali europei, attualmente, è destinata alla produzione di biodiesel, e da qui al 2030 il consumo di biocarburanti prodotti con questa materia prima potrebbe triplicare, innescando una forte competizione tra diversi settori”.

A preoccupare, poi, è la scelta di decarbonizzare i trasporti affidandosi a un settore, quello degli allevamenti intensivi, che è ai primi posti per quantità di emissioni di gas serra: un cortocircuito evidente. Carlo Tritto, policy officer di T&E Italia, ha dichiarato che “così come gli oli esausti da cucina, anche i grassi animali risultano essere potenzialmente fraudolenti. Queste materie prime sono scarse e necessarie in altre industrie a maggior valore aggiunto, come quella del pet food o della cosmesi. Impiegarle per la produzione di biocarburanti non è una soluzione scalabile né tanto meno sostenibile, in quanto spinge i settori concorrenti all’uso di feedstock alternativi e assolutamente negativi da un punto di vista ambientale e climatico, come ad esempio l’olio di palma. In tal senso la strategia italiana di puntare sui biocarburanti come soluzione per la decarbonizzazione dei trasporti appare fallace. Ci auguriamo che il governo, specialmente nel contesto della revisione del PNIEC, non voglia avallare quelle che appaiono, a tutti gli effetti, frodi deliberate“.

In più T&E, che rappresenta 63 organizzazioni di 26 Paesi in tutta Europa e si occupa di politiche di trasporto sostenibile a livello nazionale, regionale e locale, denuncia un ulteriore rischio. “Il crescente uso dei grassi animali da parte dei produttori di biocarburanti è particolarmente problematico per le industrie del pet food e per quelle di saponi e cosmetici, che fanno largo uso di questa componente organica e hanno poche o nessuna alternativa per sostituirla – si legge nel comunicato stampa del report – I produttori di alimenti per animali domestici hanno già avvertito che saranno costretti a passare a “opzioni meno sostenibili”, così come hanno fatto anche i produttori di saponi e cosmetici, che con ogni probabilità si volgeranno all’impiego di olio di palma, essendo questa l’opzione più economica a disposizione. Nel peggiore degli scenari possibili, quello in cui l’olio di palma vergine arrivi a sostituire i grassi animali nell’industria oleochimica (saponi, cosmetici), alle emissioni di CO2 dei biocarburanti a base di grassi animali andrebbero sommate quelle prodotte per incrementare la produzione di olio di palma: questo renderebbe la produzione di biocarburanti due volte più dannosa per il clima del diesel convenzionale”.

Per Carlo Tritto “è semplicemente l’ennesimo greenwashing legato ai biocarburanti: i prodotti di scarto sono pochi e necessari per altre industrie e invece vengono utilizzati, probabilmente con etichettature fraudolente, per la produzione di biocarburanti che riducono le emissioni solo in teoria. Se questi vettori sono analizzati nel loro intero ciclo di vita ci si rende conto che emettono più del diesel fossile. E la cosa peggiore è che tutto questo avviene a completa insaputa di cittadini e consumatori, con lauti incentivi economici“.

Leggi anche: Combustibili sintetici e biocarburanti: così l’Europa punta a decarbonizzare il settore aereo

I dubbi sui biocarburanti di seconda generazione (parte seconda)

In Italia tra le prime associazioni che hanno criticato il greenwashing dei biocarburanti c’è A Sud. In particolare l’associazione ambientalista, che tra pochi giorni compie 20 anni di attività, ha contestato a maggio, in qualità di azionista critico, la scarsa trasparenza di Eni sulla filiera. Concentrandosi su tre aspetti:

  • la mancata diffusione dell’analisi LCA sui biocarburanti provenienti dall’Africa
  • il mancato calcolo delle emissioni sugli oli vegetali
  • i mancati dati sulle importazioni degli oli esausti

Nel primo caso Eni ha spiegato che a effettuare l’analisi LCA è stata la nota società RINA. Ma, come spiega l’associazione, “Eni continua a rifiutarsi di rendere pubblica quest’analisi. Lo fa andando contro la direttiva europea CSRD che obbliga le grandi imprese europee a rendere pubblici i dati su come il loro modello di business impatta l’ambiente e le persone, nonché i nuovi indicatori di sostenibilità elaborati dall’Istituto di ricerca delle Nazioni Unite per lo sviluppo sociale, e considerato inoltre che a livello internazionale si lavora per favorire l’accessibilità e lo scambio gratuito e libero di dati LCA tramite banche dati pubbliche”.

In ogni caso Eni ha specificato che “il contributo della materia prima è riportato nelle POS (Proof of sustainability) che  accompagnano la materia stessa e che riportano dati certificati da ente terzo secondo schemi predefiniti riconosciuti in ambito EU-REDs”. Inoltre in base alla direttiva europea Red II, che disciplina tra le altre cose l’utilizzo dei biocarburanti, la riduzione delle emissioni delle emissioni di CO2eq dell’HVOlution lungo la filiera logistico-produttiva nel 2022, è stata tra il 60% e il 90%, rispetto al mix fossile di riferimento (i.e. 94g CO2eq/MJ), a seconda delle materie prime utilizzate per la sua produzione”.

Nel secondo caso, invece, Eni spiega il mancato calcolo delle emissioni sugli oli vegetali riguarda una sperimentazione in Tunisia e che “i risultati sono in fase di valutazione per decidere su eventuali sviluppi futuri”. Mentre sugli oli esausti l’azienda in primo momento spiega che “gli approvvigionamenti di olii esausti sono prevalentemente di origine italiana” ma poi, messa alle strette da una domanda più precisa, allega l’elenco dei rifornimenti. Che, come si può notare, arrivano da varie parti del mondo.

importazioni oli eni

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Qual è il ruolo dei biocarburanti nel PNIEC?

In questo quadro diventa ancora più essenziale comprendere qual è la posizione del governo Meloni. In attesa del 2026, quando l’Unione europea potrebbe rivedere la propria posizione, l’Italia può definire meglio la propria strategia attraverso l’aggiornamento del PNIEC, il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima, che prevede un focus su mobilità e trasporti. Entro il 30 giugno gli Stati membri dell’Ue dovranno consegnare la propria visione sulle azioni da mettere in campo per contrastare la crisi climatica e definire la politica energetica.

A tal proposito assume particolare interesse il position paper “La decarbonizzazione dei trasporti”, realizzato dall’Alleanza italiana per lo SViluppo Sostenibile e curato da Andrea Poggio, di Legambiente. Un lavoro importante che ha visto la partecipazione di un gruppo di esperte ed esperti coordinati dall’Asvis , con il supporto delle più note associazioni ambientaliste a livello italiano, e che ha lavorato a una proposta per un nuovo PNIEC centrato su strategie credibili, scalabili e determinanti.

All’interno di questo paper un ampio spazio è dedicato ai biocarburanti, soprattutto perché il PNIEC precedente, che risale al 2019, ne dava ampio risalto, in tutte le forme possibili. Nella nuova proposta di Asvis e delle associazioni ambientaliste, invece, le uniche forme caldeggiate sono i “biocarburanti avanzati grazie all’apporto del biometano prodotto dalla raccolta differenziata degli scarti organici (FORSU), dai fanghi degli impianti di depurazione, dai residui e dagli scarti dell’industria agroalimentare e zootecnica. Ma dobbiamo avere la consapevolezza che l’insieme di questi apporti giunge a un potenziale rinnovabile limitato a non più di 10 miliardi di metri cubi di metano all’anno. Ciò non è affatto sufficiente a sostituire l’attuale consumo nazionale di metano, che è almeno sei volte superiore”.

Ancor più esplicito è il capitolo intitolato “I biocarburanti non sono tutti uguali”. Dove si legge che “le bioraffinerie all’olio di palma, le produzioni di biogas da trinciato di mais, il commercio internazionale di oli vegetali, da coltivazione o falsi oli di cottura usati (UCO), con certificazioni inattendibili, hanno drogato il mercato, hanno comportato investimenti non duraturi e un’alta volatilità nei prezzi. Questa politica, europea e italiana, sulle bioenergie è stata un fattore addizionale in diverse turbative sociali di Paesi in via di sviluppo, delle speculazioni sui prezzi delle commodity alimentari, delle rivolte arabe nel 2011, delle carestie in Africa”. Si potrebbe obiettare che però questi sono, in gran parte, i biocarburanti di prima generazione. Ma in realtà, come fa notare il paper, se si guardano i dati del Gestore Servizi Energetici si nota come le quantità maggiori di biocarburanti immesse sul mercato sono ancora del “vecchio modello” o comunque di importazione.

dati gse biocarburanti

Neppure sulla filiera più circolare, cioè quella degli oli esausti, le cose vanno meglio. “Gli oli alimentari usati riciclati di origine nazionale, certificati dai Consorzi di raccolta nazionali (Conoe e RenOils) come impone il decreto ministeriale del 14 novembre 2019 sono solo 40mila tonnellate – si legge nel report – Mentre gli oli di cottura usati (UCO) di origine cinese e indonesiana importati e trasformati in biodiesel dalla Spagna, dalla Bulgaria e da altri Paesi sono pari a 400mila tonnellate”. Una proporzione di 1 a 10, che lascia ancora più sgomenti se si pensa all’avversione del governo Meloni sull’auto elettrica per non consegnarsi alla dipendenza della Cina, come viene ripetuto spesso, mentre tale obiezione viene dimenticata quando si tratta degli oli esausti, su cui le importazioni dalla Cina sono comunque notevoli, seppur in maniera indiretta.

provenienza biocarburanti

Ma c’è di più. “Sugli oli di cottura usati (UCO) di importazione dall’estremo oriente, guarda caso dagli stessi Paesi di produzione dell’olio di palma, sussistono dubbi e contenziosi giuridici e istituzionali: il forte sospetto è che gli oli di palma esportati come oli di cottura usati (UCO) da Paesi privi di credibile certificazione d’origine non abbiano mai visto una frittura e siano valutati a doppio conteggio sul mercato italiano dei Certificati di immissione al consumo (CIC) dei carburanti rinnovabili, quindi a un valore di scambio doppio rispetto all’olio di palma grezzo“. Di fronte a tale quadro opaco, dunque, è difficile dimostrare dati alla mano la convenienza del passaggio dai carburanti fossili ai biocarburanti.

Per Asvis, anzi, questo passaggio “comporta talvolta emissioni complessive di gas a effetto serra persino superiori ai derivati dal petrolio”. Insomma: secondo le ong italiane ed europee coi biocarburanti di seconda generazione saremmo già di fronte a un altro caso di greenwashing. Ancora più nocivo se si pensa che, appena tre anni e mezzo fa, l’Autorità garante e della concorrenza e del mercato (AGCOM) aveva definito “ingannevole” la campagna promozionale del biodiesel Eni Diesel+, a seguito della denuncia di Legambiente, Movimento Dei Consumatori e Transport&Environment. Alla società Eni Spa era stata irrogata pure una sanzione di cinque milioni di euro, il massimo che AGCOM può stabilire.

Per tutti questi motivi, suggerisce dunque il documento, “conviene allora approfittare della necessaria revisione del PNIEC per consolidare scelte durature, anche anticipando le indicazioni normative (vedi Direttiva UE RED III in discussione) e concentrarsi sulle rinnovabili vere, rendendo prioritaria l’elettrificazione per tutti i mezzi e i servizi di mobilità in cui è possibile. L’elettrificazione diretta, in virtù della sua elevata efficienza, rappresenta infatti l’unica soluzione capace di far crescere i volumi di rinnovabili nei trasporti, in particolare di quelli stradali e ferroviari, permettendo contemporaneamente di ridurre il consumo primario di energia nel settore”.

Per il resto, aggiunge Legambiente, “chiediamo di uscire dalle false rinnovabili e di usare d’ora in poi solo biocarburanti avanzati, quelli derivati da rifiuti veri, cioè scarti non altrimenti utilizzabili, con meccanismi di certificazione che ne possano garantire la tracciabilità, e di concentrare la sperimentazione di idrogeno verde e carburanti sintetici rinnovabili limitatamente ai trasporti non elettrificabili, come ad esempio l’aviazione e la navigazione di lunga distanza”.

Leggi anche: Al via la prima causa contro lo Stato italiano per inazione climatica

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