Quando si parla di Eni si fa riferimento alle solite cose: la politica energetica ancora incentrata prevalentemente sul gas, il greenwashing di settori marginali per il cane a sei zampe come i biocarburanti o le rinnovabili, gli interessi geopolitici. Eppure c’è un aspetto prioritario per la più importante azienda energetica (forse tout-court) italiana, che viene analizzato poco e male: la finanza. Da quando nel 1992 Eni è diventata una società per azioni, quotata sia alla borsa di New York che a quella di Milano, le strategie industriali sono inevitabilmente cambiate.
Non si deve più rendere conto soltanto allo Stato italiano, che ha tenuto per sé una quota di minoranza del 30%, teoricamente per mantenere almeno in parte il controllo dell’azienda, ma a una platea ampia di azionisti. Ai quali, negli ultimi tre anni, la partecipazione azionaria del cane a sei zampe ha fatto molto bene. Tra il 2021 e il 2023 Eni ha conseguito circa 40 miliardi di utili, grazie soprattutto all’impennata dei prezzi del gas sul mercato TTF di Amsterdam.
Basti pensare che i recenti dati relativi all’esercizio 2023 – che hanno registrato un utile netto adjusted, depurato cioè delle partite straordinarie, di 8,3 miliardi di euro – hanno quasi deluso i principali giornali italiani, che hanno parlato di “calo” e di “ridimensionamento”. Mentre si tratta comunque di numeri straordinari, riconosciuti come tali anche dall’amministratore delegato Claudio Descalzi, che ha parlato di “un altro anno di eccellenti risultati, nonostante uno scenario incerto e volatile”.
Tuttavia Eni, così come le altre big del settore fossile a livello mondiale, in questi anni è sembrata più interessata ad avviare su questi enormi profitti nuove operazioni finanziarie, piuttosto che utilizzarli, ad esempio, per sostenere una reale transizione energetica e decarbonizzare le proprie attività. Ne è convinto anche Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa e che su questi temi ha scritto il libro “Prezzi alle stelle. Non è inflazione, è speculazione” (Laterza, 2023). Con lui abbiamo scelto di analizzare le politiche di un’azienda che, come dimostra il Piano Mattei del governo Meloni, resta fortemente connessa al presente e al futuro dell’Italia.
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Neppure i prezzi alle stelle del gas del 2021 e del 2022 hanno spinto i governi europei a sganciare il prezzo dell’energia dal mercato TTF di Amsterdam, che si è rivelato un mercato prevalentemente finanziario e speculativo. Se l’Italia non ha spinto per nulla in questa direzione sarà mica perché ha preferito incassare parte dei favolosi guadagni di Eni?
Io penso che la logica dello Stato azionista, nel caso specifico di Eni attraverso la partecipazione del ministero dell’Economia e di Cassa Depositi e Prestiti, sia stata concentrata in questi anni esclusivamente sul rendimento finanziario. È un fenomeno che si sta generalizzando: lo Stato non promuove più una politica energetica ma lascia che a realizzarla siano le sue partecipate, e questo vale ovviamente non solo per Eni ma anche per Enel, Terna, Snam. Vale anche per le multiutility locali, in quanto si è più interessati a staccare dei dividendi che sono stati particolarmente lucrosi.
Basti pensare che nonostante il parziale calo del 2023, gli utili sono stati comunque notevolissimi per Eni e dunque anche per lo Stato, che incassa il 30% dei dividendi. Ciò però pone un interrogativo. La logica del rendimento finanziario fa sì che i profitti vadano quasi per intero in dividendi, e questo mi sembra l’atteggiamento tipico dell’investitore finanziario. Lo Stato dunque è interessato semplicemente a incassare, senza preoccuparsi che il profitto venga reinvestito o utilizzato ad esempio per la riduzione delle tariffe o per un piano di investimenti. In questo modo lo Stato agisce come se fosse un grande finanziario, alla maniera di BlackRock o di Vanguard, rinunciando ad approfittare della sua presenza all’interno dell’azienda per tracciare una politica industriale. E lasciando le redini all’amministratore delegato Claudio Descalzi.
Tra il 5 e il 9 febbraio Eni ha comunicato di aver acquistato più di due milioni di azioni proprie: più in generale dall’avvio del programma di buyback, Eni detiene 174.678.840 azioni proprie, pari al 5,17% del capitale sociale. Se è vero che ormai da tempo così fan tutte, cosa significa in particolare un’operazione del genere per una società come Eni?
È vero che il riacquisto di azioni proprie è da tempo una pratica diffusa ma c’è qualcosa da aggiungere. Se da una parte col buyback si rafforza il valore finanziario e si matura un beneficio, approfittando del fatto che con questa operazione non si modifica la composizione azionaria, dall’altra è un meccanismo particolare che in Italia poggia sul fatto che il riacquisto di azioni non deve mai superare gli utili distribuiti. Società come Eni stanno mettendo in pratica una sorta di catena di sant’Antonio: realizzano utili molto alti, ricorrono al buyback in modo da gonfiare il valore azionario e possibilmente cedere quote allettanti di azioni, che in prospettiva vuol dire nuovi dividendi da riassegnare. Non si tratta, lo ripeto, di una strategia industriale ma anche dal punto di vista finanziario serve semplicemente ad attrarre i grandi fondi, per sopperire al fatto che le banche centrali hanno scelto da tempo di non acquistare più i titoli di stato.
A proposito, si fa sempre più insistente la voce per cui il governo italiano starebbe pianificando di vendere fino al 4% di Eni dopo che la compagnia petrolifera avrà completato il piano di buy back, in scadenza ad aprile, così da poter incassare circa 4 miliardi di euro e ridurre il debito pubblico italiano. Lei come giudica questa possibile operazione?
Di fronte al quadro delineato prima non mi ha stupito che a gennaio il ministro dell’Economia Giorgetti abbia parlato di questa possibilità, tra l’altro in una sede come il World Economic Forum di Davos, dove è notevole la presenza del mondo finanziario. Un’operazione resa possibile appunto, come si diceva prima, dai lauti profitti garantiti dai prezzi alti del gas sul mercato di Amsterdam.
Il vero tema è che se si rinuncia a fare una politica industriale e si fa una politica finanziaria lo scopo diventa non tanto la riduzione del debito pubblico quanto piuttosto la copertura economica per finanziare le leggi di bilancio. Le privatizzazioni delle partecipate statali, seppur parziali come quella di Eni o di Poste o di Ferrovie dello Stato, servono al massimo a garantire qualche margine di manovra immediato ma rinunciando a politiche di lunga gittata.
E in questo senso un esempio significativo è il ricorso al GNL (gas naturale liquefatto, ndr). I rigassificatori stanno diventando oggetto di acquisizioni da parte di grandi fondi finanziari, penso ad esempio alla vicenda del terminale di Rovigo. Una partita fatta tutta di tattica ma senza nessuna strategia.
D’altra parte nel mercato italiano del GNL le forniture arrivano via nave principalmente da Eni attraverso il ricorso a Stati come Algeria, Qatar ed Egitto, che hanno sostituito il gas russo. E si tratta, come abbiamo visto in questi due anni dall’avvio della guerra in Ucraina, di prezzi più alti perché sono legati al valore del mercato di Amsterdam. Ancora una volta, dunque, c’è una discrasia tra la finanza e l’economia reale. O no?
È proprio così. Anzi, se vogliamo il GNL è ancora più volatile e incerto del mercato di Amsterdam. Perché i contratti per queste forniture a volte cambiano durante la navigazione, e i prezzi si rivelano estremamente oscillanti. Da questo punto di vista la strada del GNL è particolarmente onerosa per gli utenti e i clienti finali del gas, non certo per Eni che gestirà in maniera monopolistica questo tipo di mercato in Italia, con la trafila dei rendimenti e dei dividendi che abbiamo già visto.
Col paradosso ulteriore che probabilmente sarà lo stesso Stato a rimetterci, perché da una parte incasserà i dividendi di Eni e dall’altra dovrà fornire aiuti economici e sussidi per quelle imprese e quelle famiglie che non potranno reggere a lungo il prezzo maggiorato del gas via nave rispetto a quello via terra. Una strategia molto miope.
Anche la vicenda degli extraprofitti è emblematica: al di là degli annunci, le società energetiche ne sono uscite alla grande, versando qualche centinaia di milioni a fronte di utili complessivi che hanno toccato quota 70 miliardi nel biennio 2021-2023. Non è un caso che grazie agli extraprofitti Eni abbia acquistato la norvegese Neptune, che rafforza la presenza del cane a sei zampe nel Mare del Nord, e una manciata di bioraffinerie in giro per il mondo. Era lecito attendersi qualcosa di più da parte di un’azienda che si racconta ancora come sociale e ancorata al territorio?
Aggiungo che allo stesso tempo Eni ha scelto di cedere pezzi abbastanza importanti, mi riferisco alla cessione lo scorso dicembre del 9% di Plenitude, e ancora una volta a un fondo finanziario, in questo caso gli svizzeri di EIP. La vicenda degli extraprofitti secondo me è un’ottima indicatrice di un fatto evidente: e cioè che laddove ci sono dei soci azionari magari minoritari ma comunque rilevanti, come è lo Stato per Eni, la tassazione sugli extraprofitti è comunque possibile.
All’inizio si ricorderà che l’azienda non voleva pagare nulla, poi alla fine è arrivata a concordare il pagamento di un miliardo e mezzo, che comunque è una cifra nettamente inferiore rispetto al gettito previsto dal governo Draghi, che la norma sugli extraprofitti l’aveva concepita. Anche in questo caso si è trattato di una manovra prettamente finanziaria che non ha nulla di politico in senso stretto, nel senso che c’era un azionista, lo Stato, che a un certo punto ha scelto di mollare la vertenza per accontentare gli altri azionisti, che invece erano più interessati a ottenere i dividendi e a utilizzare l’enorme liquidità per quelle operazioni da lei accennate.
Di fronte a tali scenario, è forse giunto il tempo di rinazionalizzare Eni, specie se i suoi interessi sono rivolti agli azionisti, o si dovrebbero immaginare altre vie?
Come insegnano i casi della Francia, dove di fronte ai problemi del nucleare il governo ha scelto di riacquistare parte del sistema energetico, e della Germania, dove il sistema della distribuzione intermedia dell’energia è stato anch’esso pubblicizzato, è sempre più evidente che l’energia è un tema strategico, e peraltro assolutamente redditizio. Con dei rendimenti così alti sarebbe auspicabile che il percorso nei confronti di Eni e delle altre società energetiche fosse quello della rinazionalizzazione.
Anche per tenere in piedi il sistema produttivo delle imprese italiane, composto da quattro milioni di piccole aziende dove il costo della bolletta in questi anni è stata una delle voci determinanti. Nel 2021-2022, infatti, le imprese più piccole sono andate in bambola mentre quelle più grosse hanno scaricato gli aumenti dovuti all’energia sui consumatori. Si tratta di una direzione, ripeto, che altri Paesi europei stanno in parte già percorrendo.
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