Lo sci alpino ha una storia quasi centenaria sulle Alpi, i primi impianti di risalita infatti comparvero già a metà degli anni ’30 del secolo scorso. È solo da qualche decennio però, dopo il boom economico e la cantierizzazione alpina degli anni ’60, che si è iniziato a pensare che, con la sua capacità di attrarre turisti, questo tipo di economia sarebbe stata l’unica soluzione possibile allo spopolamento delle valli alpine.
Oggi l’industria dello sci in Italia è un’economia che muove miliardi di euro (secondo i dati Anef, tra i 10 e i 12 miliardi di euro), che impiega direttamente circa 30 mila persone, e sostiene di fatto intere valli. Valli nelle quali spesso assorbe la gran parte degli investimenti, lasciando poco spazio a proposte di sviluppo alternative e creando una forte dipendenza da un unico settore economico. Questa soluzione è però entrata da anni in seria crisi per diversi motivi, su tutti uno fondamentale, il venire a mancare della risorsa prima per la sua esistenza: la neve.
A causa della crisi climatica, causata a sua volta dalle emissioni di gas ad effetto serra derivanti dalle attività antropiche, la linea di affidabilità della neve, la quota cioè alla quale è garantita una copertura nevosa di 30 centimetri per almeno 100 giorni, si sta alzando progressivamente. Questo fa si che per i comprensori alle quote più basse, diventi quasi impossibile garantire lo svolgimento della stagione sciistica dipendendo esclusivamente dalle precipitazioni nevose.
La neve artificiale
A questo problema, dagli anni ‘80, si è risposto con una soluzione tecnica, la neve artificiale.
Oggi il 90% delle piste in Italia, infatti, può contare su un sistema di innevamento artificiale, ma nonostante siano stati censiti da Legambiente almeno 142 bacini di accumulo per l’innevamento, con una superficie totale superiore ad un milione di metri quadrati, i comprensori ancora faticano a far quadrare i conti e a garantire la neve per tutta la stagione. Sono infatti circa 200 milioni di euro i soldi pubblici stanziati dal Ministero del Turismo per il quadriennio 2023-26, per sostenere questo settore, tenuto in vita, specialmente per i comprensori di piccola o media grandezza, in gran parte da finanziamenti pubblici.
Oggi infatti anche la produzione di neve artificiale è entrata in crisi e le società di impianti sono strette in una doppia morsa, tra costi di gestione in aumento e una crescente dipendenza dalle risorse naturali. Per produrre neve artificiale servono infatti tre condizioni fondamentali: energia, freddo e acqua; tre variabili dalle quali, durante una crisi climatica, è estremamente rischioso dipendere.
L’energia negli ultimi due anni ha raggiunto costi esorbitanti, dei quali non sembra sensato aspettarsi una diminuzione nel futuro prossimo. Da un anno all’altro, secondo il report “Neve diversa” di Legambiente, il costo per innevare le piste è passato da 2 euro al metro cubo per la stagione 2021-2022, a una cifra tra i 3 e i 7 euro al metro cubo nella stagione 2022-2023.
Il freddo è una variabile spesso sottovalutata, ma anche il motivo principale per il quale i comprensori necessitano di bacini di accumulo sempre più capienti per l’innevamento. Questo perché, con i cannoni di cui sono dotati oggi la maggior parte degli impianti, è impossibile sparare neve se le temperature non scendono almeno vicino allo zero. E visto che, soprattutto a basse quote, le giornate in cui queste temperature vengono raggiunte sono sempre più rare, è necessario in quelle poche giornate sparare tutta la neve necessaria per la stagione. Questo fa sì che ci sia bisogno di grandi disponibilità idriche, immediatamente utilizzabili, per sparare tutta la neve necessaria. Condizione che può essere garantita solo da enormi bacini di accumulo sempre pieni e pronti all’uso.
Per lo stesso motivo, c’è bisogno di una sempre maggiore quantità di acqua, l’unico ingrediente necessario per produrre la neve, ma anche un bene comune estremamente prezioso e sempre più conteso.
A livello nazionale oggi i metri cubi di acqua utilizzati per l’innevamento artificiale sono più di 90 milioni: con la stessa quantità si potrebbe coprire il fabbisogno di una città da più di un milione di abitanti per 12 mesi.
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I bacini artificiali
Sul sito dell’ANEF, Associazione Nazionale Esercenti Funiviari si legge: “Per ottimizzare il processo – quello per l’innevamento artificiale, ndr – sono necessari bacini di accumulo in quota, tra l’altro sempre più utili anche alla Protezione Civile nella lotta gli incendi e per l’agricoltura”.
Dei bacini si dichiara quindi che possano essere infrastrutture multiuso, utili per mitigare la siccità e per altri scopi.
Anche secondo Giacomo Bertoldi, ricercatore presso Eurac, Istituto per l’ambiente alpino, a seguito di un’adeguata valutazione d’impatto ambientale, la multifunzionalità dovrebbe essere al centro delle considerazioni riguardanti i bacini in alta quota. Caratteristica che, ad oggi però, dichiara non essere riscontrabile nei bacini per l’innevamento artificiale costruiti sulle Alpi. Per essere efficienti questi bacini devono essere costruiti il più in alto possibile, per diminuire al minimo i costi di pompaggio e poter utilizzare un’acqua molto fredda, altra prerogativa che facilita l’innevamento. Queste condizioni vengono a scontrarsi con le esigenze di altre attività che potrebbero necessitare dell’acqua accumulata in periodi di carenza.
“Ad oggi i bacini si trovano spesso in zone remote e difficilmente collegabili ai sistemi acquedottistici, svolgendo di fatto esclusivamente la funzione di bacini di accumulo per l’innevamento” aggiunge Bertoldi. Non solo i bacini al momento non sono utilizzabili per più scopi, ma a volte rischiano addirittura di entrare in conflitto per l’accesso all’acqua, come nel caso del discusso bacino artificiale progettato per l’innevamento delle piste del monte Bondone, in Trentino, il quale rischia di interferire con il sistema di acquedotti che serve Sopramonte, una frazione del comune di Trento.
La mancata multifunzionalità inoltre non è l’unica problematica, impermeabilizzando il suolo infatti questi bacini impediscono la filtrazione dell’acqua verso le falde e ne causano la dispersione di grosse quantità attraverso l’evaporazione. I dati sull’evaporazione sono diversi, vanno da una stima del 40/60% del rapporto di Legambiente già citato, ad altre stime più prudenti, che parlano di un massimo di mezzo metro di evaporazione all’anno, per bacini situati a duemila metri di quota. Cifre in ogni caso significative, se si considera che in Italia la superficie di questi bacini supera il milione di metri quadrati.
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Poca acqua sulle Alpi
Questi dati si inseriscono all’interno di un contesto già piuttosto sfavorevole per la disponibilità idrica sulle Alpi. Secondo l’ultimo aggiornamento della Fondazione Cima, che monitora lo Snow Water Equivalent, ovvero la quantità di acqua accumulata sotto forma di neve sulle montagne italiane, ad oggi (febbraio 2024) il deficit di acqua accumulata sotto forma di neve sulle Alpi, rispetto alla media del periodo 2011-2022, è del 53%. Un dato piuttosto preoccupante se pensiamo che per fiumi come l’Adige, in certe zone lo scioglimento nivale costituisce circa il 40% della portata totale.
Negli scorsi anni inoltre si è visto un aumento delle crisi idriche in zone alpine che non erano assolutamente abituate ad averne prima. Queste crisi, spiega Bertoldi, sono spesso legate ad ondate di calore estive, che aggravano una tendenza per la quale la neve si scioglie sempre prima, causando, nel caso in cui la situazione non venga compensata da adeguate piogge, una carenza delle risorse idriche nei mesi estivi.
Ad oggi, le crisi idriche causate dalle ondate di calore e dallo scioglimento precoce degli accumuli sotto forma di neve vengono in parte compensate dallo scioglimento dei ghiacciai, che in queste particolari condizioni possono mitigarne gli effetti più grossi. Questo contributo però è previsto in costante diminuzione, in quanto entro qualche decennio, dei ghiacciai delle Alpi, soprattutto quelli delle montagne più basse delle Alpi orientali, resteranno solo poche tracce. “E riguardo a questo c’è poco da fare – aggiunge Christian Casarotto, glaciologo presso il Muse, museo delle scienze di Trento – se non accelerare rapidamente le azioni di mitigazione delle emissioni di gas ad effetto serra”.
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Problemi e soluzioni
Il problema però secondo Tommaso Bonazza, portavoce del comitato acque trentine, è generale e non riguarda solo la singola valutazione riguardo agli impatti di un bacino artificiale, ma in modo più ampio, l’approccio estrattivista che porta a sfruttare le risorse naturali senza considerarne l’importanza per le comunità e gli ecosistemi. Per Bonazza le soluzioni non possono prescindere dal considerare l’acqua un bene comune fondamentale, il cui primo scopo dovrebbe essere quello di dissetare le persone. Per fare questo bisognerebbe “cambiare completamente l’approccio a questa risorsa, smettendo di cercare soluzioni limitate ad un solo comparto per garantire un proseguimento delle stesse attività di sempre, e guardando invece a questa risorsa in maniera olistica, scegliendo soluzioni basate sulla natura, che permettano di non dissiparla uccidendo ecosistemi”.
Per migliorare le condizioni di accumulo idrico quindi bisognerebbe puntare su soluzioni diverse dai bacini, che non impermeabilizzino il suolo e non causino un alto tasso di evaporazione dell’acqua. Lo sguardo sull’acqua dovrebbe smettere di essere mono-settoriale, e puntare a migliorarne l’accumulo per qualsiasi utilizzo. Le azioni più efficaci in questo senso, secondo il comitato, sarebbero quelle di aumentare la quantità di materia organica nei suoli adibiti ad uso agricolo, e preservare e ripristinare le zone umide e le torbiere, che hanno non solo un ruolo nell’accumulo e nella filtrazione dell’acqua, ma anche un grandissimo potere di assorbimento e deposito di CO2, fondamentale per affrontare la mitigazione della crisi climatica.
Lavoratori e comunità
D’altra parte al settore sciistico è stato affidato il compito di risollevare la valli alpine da abbandono e povertà: il costante bisogno di nuove infrastrutture e risorse per competere in un mercato globale stanno portando le piccole stazioni sciistiche di bassa quota davanti a un bivio: provare a reinventarsi o continuare ad investire in nuove e più grandi infrastrutture, con costi crescenti.
Una situazione estremamente delicata, soprattutto per il grande numero di persone che dipendono da quest’economia e che non possono al momento contare su prospettive differenti per garantirsi un reddito altrettanto sicuro.
Il fatto che la costruzione di nuovi bacini artificiali per l’innevamento sembri essere l’unica condizione in grado di sostenere queste economie pone un grosso interrogativo: è possibile sostenere le comunità e i lavoratori che dipendono da questa industria senza impattare in maniera esagerata sulle risorse naturali e aumentare i conflitti per una risorsa sempre più scarsa come l’acqua?
In Italia, e nel resto dei paesi alpini, esistono esempi di comunità che stanno provando a reinventarsi e a organizzarsi per accogliere il cambiamento senza venirne travolte, un esempio è Homeland in Lombardia, la prima stazione sciistica d’Europa senza impianti di risalita o di innevamento artificiale. Sono comunità che stanno cercando di favorire un turismo più dolce, meno dipendente da impianti e situazioni controllate. Sarebbe importante che gli enti pubblici sostenessero gli esempi virtuosi in questa transizione, per evitare di legare economie già fragili a traiettorie di sviluppo insostenibili, che potrebbero aumentare i conflitti per le risorse naturali senza risolvere le condizioni di fragilità economica.
Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente
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