È da quasi venti anni che Bill Baue studia gli indicatori di sostenibilità ed è una delle voci più autorevoli sul tema. E tra le più critiche. Secondo Baue, attualmente direttore dell’ong r3.0 (Redesign for Resilience & Regeneration), dalle ottime premesse dell’inizio degli anni Duemila, gli indicatori di sostenibilità elaborati negli anni successivi non siano riusciti davvero a stabilire cosa fosse sostenibile e cosa no. Questa considerazione lo spinge a parlare di “decennio perduto” e a non risparmiare attacchi aspri ai colleghi, come un anno fa, quando ha definito “narcisisti” e frutto di una “materialità sociopatica” gli indici elaborati dall’International Sustainability Standards Board (ISSB).
Fare un quadro dell’evoluzione nel tempo degli indicatori di sostenibilità non è facile: ma è fondamentale. Senza la capacità di misurare in maniera precisa la sostenibilità di un’azienda o di un investimento, è molto complicato, se non impossibile, individuare il greenwashing nel mare della finanza sostenibile o calcolare l’impatto reale di un’attività economica sull’ambiente. Contattato da EconomiaCircolare.com nel suo ufficio negli Stati Uniti, Bill Baue ricostruisce il lungo percorso e spiega dove, secondo lui, il meccanismo si è inceppato. E prevede due scenari.
Mr Baue, prima di entrare nel dettaglio ci aiuta a ricostruire l’evoluzione del dibattito sugli indici di sostenibilità?
Tutto è cominciato con le linee guida della Global Reporting Initiative (GRI), un ente internazionale senza scopo di lucro nato proprio con l’obiettivo di definire gli standard di rendicontazione delle performance sostenibili di organizzazioni di qualunque dimensione e settore. Queste linee guida sono state integrate e modificate nel tempo fino all’ultima catastrofica revisione nel 2021.
Nel mentre, nel 2013 erano nate due nuove istituzioni focalizzate sull’elaborazione degli indici di sostenibilità: il Sustainability Accounting Standards Board (SASB) e l’International Integrated Reporting Council (IIRC), che a loro volta hanno elaborato altri standard di sostenibilità. Nel 2021 si sono fusi creando l’International Sustainability Standards Board (ISSB), che nel 2023 ha messo a punto i nuovi indici da me criticati. Nello stesso anno si è inserita l’Unione Europea, presentando la versione finale degli ESRS, gli standard europei per la rendicontazione sulla sostenibilità.
Andiamo per ordine: perché le sue critiche maggiori sono rivolte agli standard ISSB?
La ragione centrale per cui critico gli standard dell’International Sustainability Standards Board è per l’uso e abuso che fa del termine “sostenibilità”, contravvenendo all’essenza del suo significato. Definendo la sostenibilità solo all’interno dello spazio delimitato delle informazioni finanziarie, lo standard restringe il campo di applicazione della definizione in modo tale da eliminare gli aspetti vitali della sostenibilità, ossia la sua attenzione agli impatti ambientali, sociali ed economici interni ed esterni.
Questo approccio confonde in maniera inadeguata (e pericolosa) la sostenibilità con i criteri ESG. I criteri ESG riguardano esclusivamente degli impatti esterni all’impresa degli elementi ambientali, sociali e di governance (outside-in: l’impatto dei temi ambientali sulle attività economiche dell’azienda), e non degli impatti interni dell’impresa sulla salute del suo ambiente operativo esterno in termini di elementi ambientali, sociali, economici e di governance (inside-out: impatto delle attività aziendali sull’ambiente). Per questi motivi, è chiaro che l’ISSB non sta affatto utilizzando il termine “sostenibilità” in buona fede.
È un approccio sociopatico alla sostenibilità per definizione: promuove una visione egoistica del mondo che esclude il benessere degli altri e sostiene comportamenti egoistici senza alcun riguardo per gli altri. Il tutto con un comportamento tipico dei narcisisti: l’ISSB sposta l’attenzione dall’impatto negativo primario che l’impresa ha causato alla vittima (gli impatti inside-out, ndr), all’impatto negativo secondario che l’impresa ha causato a sé stessa (gli impatti outside-in, ad esempio l’impatto dei rischi ambientali e il tentativo di arginarli, ndr).
Perché gli ESG non sono adatti a indicare la sostenibilità di un investimento o di un’impresa?
Gli indicatori ESG non hanno per loro natura il gene della sostenibilità. Un’azienda può ottenere un ottimo punteggio ESG, ma solo perché ha ottenuto buone performance rispetto ad aziende concorrenti o perché di anno in anno migliora in alcuni obiettivi interni, come l’utilizzo di risorse idriche, risparmio energetico, salari, salute e sicurezza sul lavoro. È il cosiddetto approccio incrementale, che crea una grandissima confusione sul mercato perché non dice nulla sulla sostenibilità in assoluto, ma solo da un punto di vista relativo.
Affermare che un’azienda ha eccellenti performance di sostenibilità, però, è tutta un’altra cosa. La vera sostenibilità non è un concetto incrementale ma normativo: bisogna stabilire cosa è sostenibile e cosa non lo è. E per farlo è indispensabile dotarsi di meccanismi che possano effettivamente misurare e, in ultima analisi, realizzare la sostenibilità. Significa che l’azienda è posizionata per prosperare a lungo termine e in modo da rispettare i limiti, le soglie e le norme definite dall’esterno, non semplicemente dal confronto con le altre aziende o da obiettivi interni all’azienda stessa.
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I planetary boundaries quindi potrebbero indicare il modo corretto per misurare questi indicatori.
Sì, i planetary boundaries sono un esempio perché fanno proprio questo: individuano dei limiti, delle soglie oltre le quali non c’è sostenibilità. I sistemi ecologici e sociali operano in uno spazio ottimale e di equilibrio. Quando ci si allontana troppo dall’equilibrio – il termine tecnico è capacità di carico – se si supera la capacità di carico, il sistema inizia a collassare. Perciò, per una reale contabilità della sostenibilità, un’azienda dovrebbe misurare il suo impatto sulle risorse vitali del pianeta, come la perdita di biodiversità, il consumo di risorse, il sistema di regolazione del clima, la capacità di un bacino idrico di fornire acqua, attraverso un approccio basato su soglie.
Queste soglie si applicano non solo ai sistemi ecologici, ma anche a quelli sociali, quindi i planetary boundaries non bastano, come ha dimostrato l’economista Kate Raworth con la teoria della ciambella: al tetto dei limiti ecologici da non sfondare si affiancano e sono necessarie le fondamenta sociali, rappresentate dai livelli minimi di coesione e stabilità sociale e quindi gli impatti sul benessere sociale: se l’impresa garantisce uno stipendio in grado di superare la soglia di sostentamento, la parità salariale, la parità di genere e promuove l’occupazione.
La sostenibilità autentica è una definizione introdotta nel novembre 2022 dall’Istituto di ricerca delle Nazioni Unite per lo sviluppo sociale (UNRISD) nel suo manuale per i nuovi Indicatori di performance dello sviluppo sostenibile (SDPI), intitolato “Authentic Sustainability Assessment. A User Manual for the Sustainable Development Performance Indicators”, dove sono elaborati, per la prima volta, una serie completa di indicatori per valutare le prestazioni delle aziende considerando le soglie di sostenibilità planetarie e le trasformazioni necessarie per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite entro il 2030. Questo titolo distingue esplicitamente tra valutazione autentica della sostenibilità, che applica soglie di sostenibilità ecologica e sociale, e valutazione non autentica della sostenibilità, che non lo fa, adottando invece approcci incrementalisti.
Lei ha parlato di decennio perduto: qual è stata l’evoluzione degli indici di sostenibilità e perché a suo avviso si è inceppata?
Proprio quando il mondo ha più bisogno di avanzare rapidamente sul tema della sostenibilità, il 2023 è stato l’anno più catastrofico per gli standard di sostenibilità, sabotando tutti gli sforzi fatti finora e riportando indietro le lancette del dibattito di oltre venti anni. Due decenni fa, nel 2002, il GRI aveva introdotto il Sustainability Context Principle nella seconda generazione delle Sustainability Reporting Guidelines (G2). Questo principio affermava che il reporting di sostenibilità è indissolubilmente legato a soglie economiche, sociali e ambientali e dunque rappresentava la prima articolazione in assoluto di una solida definizione di autentica sostenibilità nell’ancora emergente campo degli studi sugli standard di sostenibilità.
Nel 2006 la terza generazione delle Sustainability Reporting Guidelines (G3) introduceva il concetto di “materialità”, includendovi non solo le tradizionali soglie di materialità mutuate dal reporting finanziario, ma anche le soglie di sostenibilità tratte dalle scienze fisiche e sociali, nonché gli imperativi etici. Eppure, nel 2021, lo stesso GRI ha colpito al cuore il reporting di sostenibilità, rimuovendo il requisito della valutazione della performance dal Sustainability Context Principle nei nuovi standard rivisti, nonostante le proteste di 66 esperti di sostenibilità. Insomma, il GRI per ragioni apparentemente insensate, ha rinnegato del tutto la valutazione delle performance, trasformando il Sustainability Context Principle in un vuoto esercizio di relativismo incrementalista, rinunciando alla sua funzione.
Cosa ne pensa degli indicatori a cui sta lavorando l’Unione Europea?
Dal 2014 al 2021 l’Unione Europea è entrata nel dibattito degli standard di sostenibilità con la Direttiva sulla rendicontazione non finanziaria (NFRD), che nel 2021 si è evoluta nella Direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità delle imprese (CSRD). Entrambe le direttive hanno rappresentato la piattaforma per lo sviluppo di una serie di standard europei di rendicontazione della sostenibilità (ESRS). Questo sviluppo è andato di pari passo con il lavoro svolto nell’ambito della finanza sostenibile con l’elaborazione della Tassonomia, il cui percorso, purtroppo, si è concluso con una definizione politicizzata piuttosto che scientifica delle soglie di sostenibilità.
Sempre nel 2023, l’Unione europea ha pubblicato la versione finale degli standard ESRS, integrando le soglie di sostenibilità in quasi tutti gli standard ambientali, ma non negli standard generali né in quelli sociali e di governance. È promettente che l’Ue inquadri l’ESRS come uno standard di performance e non abbia ripudiato questo concetto come ha fatto il GRI col Sustainability Context.
Tuttavia l’approccio limitato e ad hoc non li rende tali da rappresentare un faro di riferimento negli standard di sostenibilità e l’atto delegato che ha formalizzato gli standard, cedendo alle pressioni politiche, li ha diluiti rendendoli da obbligatori a volontari. Tutte queste carenze sono facilmente correggibili, se ci sarà un sufficiente coraggio e la volontà politica. In ogni caso, gli standard ESRS rappresentano una timido “avanzamento” verso un autentico standard di sostenibilità.
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Cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo decennio?
Nell’ultimo decennio abbiamo perso tempo prezioso, non possiamo permetterci un altro decennio uguale. Prevedo due scenari: il primo, più probabile, è quello in cui gli standard continuano a sabotare la sostenibilità. Ci sarebbe un secondo scenario, che considero la più vaga delle possibilità, in cui c’è un brusco cambio di rotta negli standard di sostenibilità: vengono integrati con le soglie che definiscono realmente la sostenibilità e arriviamo a un autentico e coerente sistema di rendicontazione. La domanda è: siamo in grado di imparare dagli errori del passato e trasformare il prossimo decennio in un’opportunità?
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