Serve un nuovo approccio nella governance dei beni comuni globali e una loro rapida ridefinizione: non considerare soltanto gli oceani, l’Antartide, l’atmosfera e il clima, ma tutti i sistemi biofisici fondamentali per il funzionamento e la regolazione del pianeta Terra che vanno oltre i confini nazionali, come le grandi foreste pluviali, le barriere coralline o gli ecosistemi costieri. È l’appello lanciato da 22 ricercatori in un articolo pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS). Questa definizione più ampia è in linea col principio che i beni comuni sono fondamentali per sostenere la vita sulla Terra e che tutti noi dipendiamo da essi, indipendentemente da dove viviamo. Un concetto sostenuto dalla Global Commons Alliance e da molte altre organizzazioni.
La Earth Commission, ad esempio, ha individuato una serie di Earth system boundaries, confini sicuri ed equi per il clima, la biosfera, il ciclo dell’acqua e dei nutrienti e l’atmosfera. Perciò gli autori, esperti di scienze giuridiche, sociali e ambientali, chiedono un nuovo livello di cooperazione transnazionale per la difesa di questi beni comuni planetari e un cambiamento radicale nella governance, per non mettere in pericolo le società e garantire le funzioni critiche del sistema Terra. Una sfida notevole, viste le universalmente note difficoltà degli esseri umani a rapportarsi con i beni comuni e collettivi: tanto più nell’era dell’Antropocene, l’epoca in cui l’attività dell’uomo condiziona l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche e attiva perturbazioni profonde negli ecosistemi mettendo sotto pressione i sistemi di regolazione critici della Terra.
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Perché si parla di “tragedia dei beni comuni”
Alla fine degli anni Sessanta il biologo Garrett James Hardin, in un articolo intitolato “The Tragedy of Commons” e pubblicato sulla rivista Science, puntò l’attenzione sul problema dei beni comuni, o meglio sulla “tragedia dei beni comuni”, facendo un semplice esempio: se c’è un pascolo libero condiviso da una comunità e ogni contadino vi porta a pascolare le proprie mucche, l’interesse economico del singolo contadino sarà di aumentare il numero di mucche al pascolo, perché a fronte del vantaggio individuale “+1 mucca”, il danno al bene comune “-1 erba” si ripartisce come frazione infinitesimale su tutti gli altri contadini.
È evidente dove porta il ragionamento: funziona tutto finché il comportamento individuale dei contadini, sommandosi di volta in volta, non esaurisce il bene comune stesso. Se i membri della società raggiungono il punto critico di non ritorno, il processo di distruzione del bene comune diventa irreversibile: perciò prima è fondamentale fissare dei limiti al suo utilizzo. Pensiamo adesso a una prospettiva globale: i beni essenziali per la qualità della vita e la sopravvivenza sono beni che utilizzano contemporaneamente milioni (o miliardi) di persone: l’atmosfera, le foreste, i laghi, il mare, l’acqua. Senza aver fissato dei limiti chiari e invalicabili, stiamo andando incontro alla stessa tragedia, ma su scala globale.
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Dai beni comuni globali ai beni comuni planetari
Sono i cosiddetti “beni comuni globali”: nonostante quasi sempre si trovino al di fuori dei confini giurisdizionali dei singoli Stati sovrani, tutte le nazioni hanno un interesse collettivo, soprattutto quando si tratta di estrazione di risorse, affinché queste siano protette e governate efficacemente per il bene generale. Eppure, a patto si riesca a garantire davvero la difesa di questo interesse collettivo, cosa tutta da provare nel mondo di oggi, ciò potrebbe comunque non bastare, lanciano l’allarme i ricercatori nell’articolo su PNAS, e perciò per prima cosa è necessaria una ridefinizione del concetto di “bene comune globale”.
Ai beni comuni globali intesi come regioni geografiche condivise a livello planetario, bisognerebbe aggiungere tutti quei sistemi biofisici critici che operano al di là dei confini nazionali e regolano il funzionamento e la resilienza della Terra, e dunque la vivibilità su questo pianeta: le foreste pluviali dell’Amazzonia, del Congo e del Sudest asiatico, i ghiacciai dell’Artico e dell’Antartide, il permafrost della tundra, le barriere coralline, gli ecosistemi costieri di mangrovie o gli ecosistemi sottomarini di fanerogame, le paludi salmastre, lo strato di ozono, i monsoni.
I “beni comuni planetari”, come sono chiamati dagli autori per distinguerli da quelli globali finora riconosciuti, sottostanno a leggi ben diverse da quelle che regolano la produzione e il consumo dei beni privati, mentre le dinamiche dell’attività umana nell’Antropocene applicano la stessa logica a un sistema complesso e interconnesso come quello del pianeta, mettendo sotto crescente pressione i planetary boundaries, i limiti che non possono essere oltrepassati dallo sviluppo umano senza compromettere gravemente le risorse della Terra e la sua capacità di rigenerarsi.
Superarli significa accelerare i cambiamenti climatici, la riduzione dell’ozono nella stratosfera, l’inquinamento, l’acidificazione degli oceani, la perdita della biodiversità, che a loro volta innescano cambiamenti irreversibili e ingestibili nel funzionamento dei sistemi biofisici, con inevitabili effetti catastrofici sulle popolazioni di tutto il mondo: stiamo già assistendo alle tragiche conseguenze dello scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello del mare, l’impennata delle emissioni di carbonio a causa degli incendi nella foresta amazzonica o l’alterazione delle stagioni dei monsoni per effetto dei cambiamenti climatici.
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I limiti della governance dei beni globali
Secondo gli autori dell’articolo è necessario attivare al più presto nuove forme di cooperazione tra gli Stati per difendere la “versione estesa” dei beni comuni planetari prima di raggiungere il punto critico. Poiché questi cambiamenti interessano le popolazioni di tutto il mondo, sarebbe necessaria una nuova governance collettiva su scala globale. Il modello adottato finora per i beni comuni globali (mare aperto e fondali marini profondi, atmosfera, e Antartide), infatti, presenta numerosi limiti e non può essere nuovamente applicato agli altri beni comuni planetari.
I beni comuni sono stati definiti come aree estese della Terra che si trovano al di fuori delle giurisdizioni degli Stati, dove non esistono diritti sovrani e sono condivisi da tutte le nazioni. Questi beni comuni globali sono considerati a livello giuridico res nullius (di proprietà di nessuno) o res communes (di proprietà di tutti), oppure il loro status è ambiguo o contestato. Il nocciolo del problema, insomma, è che non esiste un regime generale di governance dei beni comuni globali.
Ciascuno di essi è regolato da singoli trattati, negoziati dagli Stati principalmente per regolamentare l’accesso alle risorse e al loro utilizzo, gli interessi geopolitici e la protezione dell’ambiente, partendo però dal presupposto di un sistema terrestre continuamente stabile, di risorse abbondanti e di perturbazioni ambientali prevedibili e relativamente minori, alle quali gli esseri umani possono facilmente adattarsi attraverso interventi mirati di governance. Mentre nella nuova era dell’Antropocene, “l’attuale quadro normativo e di governance globale non è in grado di affrontare la crisi planetaria e di impedirci di oltrepassare i planetary boundaries”, spiegano gli autori del report.
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Una nuova governance dei beni comuni planetari
Pensare a nuovo quadro di governance dei beni comuni planetari, secondo gli autori, non è un’ipotesi irrealistica e ci sono già iniziative a cui ispirarsi. Un esempio è il regime di governance globale di uno dei nove confini planetari, l’assottigliamento dello strato di ozono. Gli Stati stanno proteggendo con successo lo strato di ozono attraverso una cooperazione globale condivisa e di ampio respiro. Un altro esempio è l’accordo del 2023 nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare per la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina nelle aree al di fuori della giurisdizione nazionale. Infine, l’elaborazione dei Sustainable Development Goals testimoniano un accordo globale su obiettivi di sviluppo che richiedono un’azione collettiva da parte di tutte le nazioni per il bene comune.
Tuttavia, gli interessi nazionali e le disuguaglianze di potere tra gli Stati sono una notevole barriera per accordi vincolanti di più ampio respiro. Come punto di partenza, gli autori propongono un sistema di governance policentrico in grado di connettere e integrare i diversi interessi. Questo approccio richiederà per prima cosa un’istituzione globale responsabile per i beni comuni planetari, sul modello dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite o dei suoi organismi incaricati.
Molti trattati internazionali tendono però a non produrre gli effetti desiderati a meno che non vengano messi in atto forti meccanismi di attuazione, cosa che gli Stati sono spesso riluttanti a fare. Per ovviare a questo problema la soluzione proposta dagli autori è la formazione di diversi “club sul clima”, composti da sottoinsiemi di nazioni con forti motivazioni o ambizioni condivise. I costi di adesione, in termini di investimenti per la tutela dei beni comuni, dovranno essere inferiori delle sanzioni per i non partecipanti, mentre tasse ambientali per gli aderenti al club che violano le regole sarebbero un forte incentivo a rispettare il patto.
C’è, infine, da considerare il tema dell’equità degli accordi, sotto almeno due punti di vista. Se venisse istituito un quadro di governance, ad esempio, per gli ecosistemi del permafrost o la foresta amazzonica, la responsabilità primaria nella loro gestione ricadrebbe su un numero limitato di Stati sovrani o popolazioni indigene per cui, da un lato, sono necessarie forti restrizioni politiche e legali per le attività locali che danneggiano i beni comuni, perché gli effetti si ripercuotono sull’intero pianeta, dall’altro bisogna prevedere forme di compensazione da parte dei Paesi più ricchi con significativi trasferimenti finanziari e tecnologici destinati alle nazioni con reddito più basso.
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