A volte non si tratta di guardare altrove ma di immedesimarsi con sguardi altrui. Ed è quello che provano a fare Laura Pugno e Hannah Arnesen consegnandoci due opere – un romanzo metaletterario e un libro illustrato – originali e poetiche che riescono a tirare nuovi fili narrativi dalla matassa climatica e ad aprire la strada ad un’ecologia neo-animista propeudetica all’uscita da un approccio meramente estrattivo.
Estinzioni come emergenze umane
In Stardust di Hannah Arnesen, un magnifico libro illustrato – che teniamo tra le mani grazie alla scommessa della casa editrice Orecchio Acerbo – la narratrice presta la sua voce al Pianeta e ci immette in un tempo lungo miliardi di anni, ricordandoci come la temuta sesta estinzione non sia un’emergenza climatica ma un’emergenza umana. Diviso in tre parti al crocevia tra arte, poesia, scienza e filosofia, il libro dell’autrice svedese Hannah Arnesen si rivolge alla terra, a chi legge e a chi verrà. Chi apre il libro resta impigliato nelle sue pagine pittoriche realizzate con acquerelli e acrilici, e nelle sue parole, semplici e poetiche che riescono ad accendere piccole epifanie. Pagina dopo pagina viaggiamo dal big bang all’apparizione delle prime forme di vita fino a quella degli animali chiamati umani e vediamo dispiegarsi sotto i nostri occhi l’impatto umano sull’ecosistema terrestre, insieme a tutti i meccanismi che attuiamo per distanziarcene e non sentirci coinvolte.
Disseminate tra le pagine, le vertigini dei paradossi temporali aprono spiragli all’immaginazione e ci mettono di fronte a tutto quello che ancora non sappiamo o non sappiamo più: “Leggo che il primo ritrovamento di un enorme animale sconosciuto risale al 1739. Ossa di una specie mai vista prima di allora. Gli scienziati erano divisi: si trattava di un elefante o di una tigre? Un dubbio prese forma: forse c’erano state delle specie che non esistevano più. Forse le specie potevano estinguersi. Essere estirpate del tutto, essere dimenticate“.
Per Arnesen, “L’Homo sapiens è il dominatore grazie alla sua fantasia, la fantasia capace di creare miti a cui tutti credono. Racconti che plasmano le nostre società”, un dominatore che per strada si è dimenticato di “ascoltare tutte le lingue che non capiva[mo]”. Con Stardust, Arnesen esorta gli umani a ribaltare la propria visione del mondo e a tornare ad essere parte integrante della natura. “Per migliaia di anni – scrive Arnesen – l’uomo ha dotato di anima il suo ambiente. Tutto era vivo. La cultura a cui appartengo io si distingue da quella lunga storia. Per noi vale l’opposto. Tutto è morto. L’albero è solo albero, il vento solo vento”. Per resistere occorre ritrovare il fluire, ripartire da chi ancora ricorda il senso della parola reciprocità, come i popoli nativi e come chi non smette di sperare.
Hanna Arnesen, di pari passo con le riflessioni di Rebecca Solnit, cerca di non lasciarsi imprigionare in una visione binaria del futuro poiché “la storia ha sempre racchiuso in sé luce e buio” e di non lasciarsi schiacciare creando nuove storie in cui l’azione collettiva e la mobilitazione possono realizzare l’impossibile. Adesso.
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Un viaggio intimo verso la fine di un mondo
La poeta, saggista e scrittrice Laura Pugno firma con Noi senza mondo un libro ibrido, uscito per i tipi di Marsilio nella collana romanzo e che come tale si apre: anche se, pagina dopo pagina, diventa polimorfo a tratti romanzo distopico, saggio metaletterario, poema epico, memoir di autofiction di un’anima collettiva. Il testo di Pugno ci fa perdere le coordinate e ci immerge all’interno di un mondo – o in un mondo interiore – fatto di parole, canti, foglie, funghi, animali umani e non, echi.
Si parte da che cos’è un libro, oltre la sua forma materiale. “Il testo che segue è stato ritrovato scritto su foglie, su brandelli di corteccia e in parte su corpi di donne e uomini, mortali che poi sono morti e si sono propagati come semi e radici” si legge all’inizio del volume: piccoli gruppi di umani si riuniscono e si formano delle comuni attorno a un testo.
Qui si narrano le sorti de L’ultimo dei mohicani di James Fenimore Cooper, “è un libro sulla fine di un mondo. Il mondo di Uncas e di suo padre, il mondo adottivo, per quanto può esserlo, di Nathaniel-Hawkeye. Non racconterò la storia. Voi la storia di questo libro la conoscete. Dopo la fine di quel mondo, c’è il nostro mondo. E – questa è la domanda che torna ormai ogni giorno – che mondo viene, dopo? Ancora dopo?”.
Le suggestioni che derivano da questa narrazione corale e rizomatica ci mostrano, a scanso di equivoci, che i mondi sono abituati a morire ed sono già morti più volte. Pugno fa sue le parole precise di Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro in Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine. “Comunque ciò a cui accennavo in precedenza, ossia il fatto che gli indios avrebbero qualcosa in più da insegnarci in materia di apocalisse, di perdita di mondo, di catastrofi demografiche e di fine della Storia, significa semplicemente questo: per i popoli nativi delle Americhe, la fine del mondo ha già avuto luogo cinque secoli fa”.
Pugno tesse una rete sottile, densa e permeabile di riferimenti che collega clima, poesia, filosofia, biologia, memoria, femminismi, segue tracce diverse e le riversa nel suo testo: “Ibrido è ciò che si dissolve, dinosauro in uccello, lupo in cane, che è acquisto-e-perdita. Che si adatta. Che si tramanda. Che sopravvive, se sopravvive, perché ha nuovi sensi per nuove figure nel mondo”. Il bosco o la foresta – “reale e non reale” – qui non sono solo intesi come nutrimenti o fonte di immaginario ma anche come insieme di relazioni che tutto propaga e tutto tramanda indistintamente.
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