mercoledì, Dicembre 3, 2025

Scuderi (Verdi): Commissione Ue mette a rischio i progressi nella regolamentazione della sostenibilità

Rischi nella tutela dell'ambiente, incertezza normativa, scorno per le imprese più virtuose, greenwashing e rallentamento della transizione energetica. Benedetta Scuderi, eurodeputata dei Verdi, ci parla del pacchetto Omnibus e del Clean Industrial Deal: “Vogliamo un’industria europea realmente competitiva e sostenibile?”

Raffaele Lupoli
Raffaele Lupoli
Direttore responsabile di EconomiaCircolare.com, socio e consigliere di amministrazione della cooperativa Editrice Circolare. Giornalista professionista, saggista e formatore, è docente a contratto di Economia delle organizzazioni complesse presso l'università pubblica (AFAM) ISIA Roma Design, insegna all'ITS Machina Lonati di Brescia e collabora con il Sole 24 Ore. Ha diretto diverse testate, tra cui il settimanale Left e LaNuovaEcologia.it. Ha lavorato con Legambiente, collaborando tra l’altro alla redazione del Rapporto Ecomafie, ha coordinato la redazione del periodico Rifiuti Oggi e il mensile La Nuova Ecologia. Si è occupato di comunicazione politica e nel 2020 è stato consigliere della Ministra dell'Istruzione sui temi della sostenibilità ambientale e dell'innovazione sociale.
La Commissione europea ha presentato il pacchetto Omnibus sulle semplificazioni e il Clean Industrial Deal. Che giudizio dà Benedetta Scuderi, europarlamentare dei Verdi, dei segnali che giungono da questi provvedimenti? L’impianto del Green Deal regge ancora?

Il Clean Industrial Deal non si allontana dalla visione del Green Deal e sottolinea come il raggiungimento degli obiettivi climatici possa rafforzare la competitività. Ciò al netto di alcuni cambiamenti nella narrazione, come l’uso di “economia decarbonizzata” al posto di “neutralità climatica” e “clean” invece di “rinnovabile”. 

La Commissione europea si basa in gran parte su priorità già definite, tra cui energia accessibile, mercati di punta, investimenti, economia circolare, commercio e competenze sociali. Inoltre, include richieste chiave come la revisione degli appalti pubblici ed un nuovo quadro per gli aiuti di Stato.

Tuttavia, la prima proposta dell’Omnibus sulla legislazione in materia di sostenibilità, che riguarda la Tassonomia, la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) e la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), nasconde dietro la semplificazione, che sarebbe stata necessaria, delle modifiche particolarmente drastiche che poco hanno a che vedere con la semplificazione stessa e che costituiscono più una deregolamentazione aggressiva. Parallelamente, la Commissione ha annunciato un cambio di politica che segna un chiaro allontanamento dagli impegni verdi che erano stati una pietra miliare del precedente mandato di Ursula von der Leyen. Questa combinazione di proposte rischia di compromettere quasi un decennio di politiche strutturate dell’Unione Europea in materia di sostenibilità.

Quali sono gli aspetti positivi e quali le criticità del pacchetto Omnibus, a suo avviso?

Come appena detto, per noi Verdi è tutta l’impostazione del pacchetto ad essere critica. Una deregolamentazione indiscriminata pone pesanti limiti alla difesa dei diritti ambientali, umani e dei lavoratori. La via per noi è quella di una semplificazione in senso proprio, non quella che porta a stracciare norme cruciali per la sostenibilità sociale e ambientale. Nel DNA dell’Europa c’è la tutela dei diritti: su questo l’Ue deve rimanere unita e salda. Diversamente il rischio molto alto è quello di uscirne a pezzi e con un peso insignificante nel panorama internazionale.

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Con la riduzione da 47.000 a 7.000 imprese coinvolte dagli obblighi della Corporate Sustainability Due Diligence Directive, per fare un esempio, a suo avviso si può parlare di semplificazione o siamo davanti allo svuotamento di una direttiva nata per spingere nella direzione della rendicontazione e della tracciabilità?

La riforma Omnibus sulla sostenibilità riduce significativamente gli obblighi di trasparenza: solo le aziende con un fatturato superiore ai 450 milioni di euro o che si dichiarano sostenibili dovranno conformarsi alla Tassonomia UE, escludendo così la maggior parte delle imprese precedentemente coinvolte. Inoltre, è stata annunciata una moratoria fino al 2026 per la CSRD e la CSDDD, e questo penalizza le aziende che hanno già investito nella conformità, oltre a creare incertezza legale. Il numero di imprese soggette alla CSRD viene, poi, drasticamente ridotto da 50.000 a 5.000, limitando la capacità di monitorare i rischi ambientali e sui diritti umani.

Sono stati eliminati obblighi chiave, come il monitoraggio continuo degli impatti negativi lungo la catena del valore (ora richiesto solo ogni cinque anni) e la necessità di attuare piani concreti per la mitigazione del cambiamento climatico, aprendo la strada al greenwashing. Infine, le organizzazioni della società civile e i sindacati non potranno più intentare azioni legali per conto delle vittime e le imprese non saranno più obbligate a dissociarsi dai fornitori coinvolti in gravi violazioni ambientali o dei diritti umani.

Questi cambiamenti non possono essere considerati come una semplificazione, ma costituiscono un vero e proprio svuotamento della direttiva stessa. Le modifiche riducono pesantemente la trasparenza e la tracciabilità delle attività aziendali nei tre ambiti della sostenibilità (ambientale, sociale e di governance), limitando la capacità di investitori, governi e consumatori di valutare i rischi climatici e sui diritti umani. Inoltre, le imprese che avevano già investito nella conformità vengono penalizzate, mentre chi finora ha ignorato gli obblighi ne esce favorito. Se l’obiettivo principale della CSRD e della CSDDD era rafforzare la rendicontazione e la responsabilità aziendale, questa riforma va nella direzione opposta, compromettendo anni di progressi nella regolamentazione della sostenibilità.

Aggiungo un’ultima riflessione. Riformulare così drasticamente una normativa prima della sua entrata in vigore appare davvero immotivato. Se una legge viene riaperta senza motivi sostanziali, quello che si genera è incertezza nei progetti, oltre a tanto disordine. In una fase, peraltro, in cui la politica deve mostrarsi affidabile e impegnarsi per la stabilità economica. Così, invece, la Commissione rischia di scoraggiare gli investitori, penalizzando i più virtuosi e avvantaggiando quelli che lo sono meno. Sotto questo punto di vista, ciò che chiediamo ad Ursula von der Leyen è di tornare nel solco del Green Deal, sganciandosi dalle posizioni propagandistiche e vuote dell’estrema destra, che sono fortemente nocive per la democrazia europea.

Il generale slittamento dei tempi di attuazione sicuramente è un sollievo per le imprese, ma che ne sarà del rispetto dei target di riduzione delle emissioni?

Il rinvio dell’attuazione della CSRD e della CSDDD fino al 2026 può rappresentare un escamotage per le grandi imprese che non si erano adeguate ancora agli obblighi normativi, seppure date le loro dimensioni avevano le capacità per farlo. Resta, però, un chiaro problema strategico per tutte quelle imprese virtuose che avevano già investito per essere adempienti, compromettendo seriamente il conseguimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni e di rispetto dei diritti. Senza obblighi stringenti in termini di rendicontazione e tracciabilità, le aziende avranno meno incentivi a integrare strategie di sostenibilità nelle loro operazioni. Di più, la rimozione dell’obbligo di attuare concretamente i piani di transizione climatica apre la strada ad un aumento del greenwashing, riducendo l’efficacia delle politiche europee sul clima. Questo ritardo non solo ostacola la transizione ecologica, ma crea anche incertezza per gli investitori, per le imprese e per il mercato.

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Il Clean Industrial Deal non conferma l’impegno di ridurre le emissioni al 2040 e non esplicita l’intenzione di abbandonare progressivamente le fonti energetiche fossili. Dall’altra parte si impegna a fornire risorse economiche utili a imprimere un’accelerazione nella direzione dell’ecoinnovazione e della circolarità. Che idea si è fatta di questo provvedimento?

Il Clean Industrial Deal rappresenta un compromesso: da un lato riconferma l’ambizione di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040 e promuove investimenti nell’ecoinnovazione e nell’economia circolare; dall’altro non esplicita chiaramente un percorso per l’eliminazione progressiva delle fonti fossili. Questo lascia spazio a interpretazioni ambigue e rischia di rallentare la transizione energetica, soprattutto se le risorse economiche destinate all’innovazione non sono accompagnate da vincoli chiari per l’uscita dai combustibili fossili. Senza una governance partecipativa e un quadro normativo più definito, il rischio è che il provvedimento favorisca solo alcuni settori senza garantire una transizione equa e strutturata.

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Quali saranno le priorità sue e della sua forza politica nel prosieguo dell’iter del provvedimento? Crede che ci saranno margini di miglioramento del testo?

Tra le nostre priorità c’è senza dubbio quella di garantire che le industrie abbiano accesso ad un quadro normativo stabile e prevedibile, favorendo investimenti in elettrificazione, efficienza energetica e soluzioni circolari. È essenziale che il Clean Industrial Deal offra strumenti concreti per accelerare la decarbonizzazione senza penalizzare la competitività industriale, attraverso incentivi mirati, tariffe energetiche sostenibili e un mercato delle materie prime secondarie più dinamico. Serve anche maggiore flessibilità nei meccanismi di supporto, affinché le aziende possano adattarsi gradualmente ai nuovi standard, potendo al tempo stesso aumentare la produzione e garantire un’occupazione di qualità. È cruciale che i fondi siano vincolati a condizionalità sociali forti, per non ripetere gli errori del passato. L’obiettivo è supportare l’industria, ma occorre farlo nell’ottica del bene comune. Questo per noi significa rafforzare gli investimenti nell’innovazione e nella ricerca e creare più lavoro ma, lo ribadisco, che sia di qualità. Lo scopo per noi è quello di realizzare un valore comune condiviso, in una dinamica lontana dalla mera massimizzazione dei profitti.

Siamo convinti che questo provvedimento si possa rendere più coerente con l’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Al momento mancano indicazioni chiare su come verrà gestita la transizione dalle fonti fossili, e senza una strategia ben definita o puntando su tecnologie che non sono ancora commercializzate e/o sviluppate si rischia di rallentare la transizione, creando incertezza per le imprese che vogliono investire in tecnologie verdi.

Più in generale, questa riforma apre una riflessione più ampia: vogliamo un’industria europea realmente competitiva e sostenibile o preferiamo rimanere ancorati ad uno status quo che predilige il guadagno di pochi e che ci fa rimanere indietro rispetto ad altre economie che stanno investendo in modo massiccio nella transizione verde? Per noi, il successo di questo pacchetto dipenderà dalla capacità di bilanciare ambizione climatica e sostegno concreto alle imprese, alle lavoratrici e ai lavoratori, evitando che la giusta transizione diventi solo uno slogan privo di strumenti efficaci per realizzarla.

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