giovedì, Novembre 6, 2025

Da Milano Marittima al Pakistan, ecco come la plastica sovverte il clima

Diversi studi hanno mostrato i legami tra produzione di plastica e crisi climatica. Ve ne raccontiamo uno particolarmente interessante, secondo il quale “per rispettare gli accordi di Parigi sul clima è fondamentale fissare obiettivi per l'industria della plastica”

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, redattore di EconomiaCircolare.com e socio della cooperativa Editrice Circolare

Dalle alluvioni in Pakistan ai nubifragi a Milano Marittima, Cervia e Riccione questi eventi climatici estremi dovrebbero farci rammaricare non solo per le vittime e i danni materiali, ovviamente, ma anche, una volta di più, per il fatto che dopo quasi tre anni non si è ancora riusciti a raggiungere un accordo su un trattato globale contro l’inquinamento da plastica. Perché? Perché la plastica e le crisi climatica che alimenta bombe d’acqua e temperature record sono strettamente connessi.

Diverse analisi e report hanno misurato l’impatto della plastica sul clima. Una revisione della letteratura scientifica sugli impatti ambientali della plastica realizzata da un team di ricerca internazionale guidato da Patricia Villarrubia-Gómez, Stockholm Resilience Centre, dimostra che “l’inquinamento da plastica sta alterando alcuni importanti processi su scala dell’intero sistema Terra. Questo impatto si estende a questioni globali come il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l’acidificazione degli oceani e l’uso dell’acqua dolce e della terra”. Il Plastics & Climate Project ci dice che se l’industria della plastica fosse un Paese, sarebbe il quinto più grande emettitore di gas serra, dopo Cina, Stati Uniti, India e Russia. Particolarmente interessante, perché analizza l’impatto carbonico delle diverse fasi della vita dalla plastica e dei diversi polimeri, lo studio scritto da Nihan Karali, Nina Zheng Khanna e Nihar Shah del Lawrence Berkeley National Laboratory (LBL), un laboratorio nazionale dell’Office of Science del Department of Energy degli Stati Uniti, gestito dall’Università della California (studio pubblicato prima del secondo insediamento di Trump alla Casa Bianca).

“L’inquinamento da plastica è diventato una minaccia crescente per gli ecosistemi naturali, la salute umana e il clima” affermano (lo studio è del 2024) le ricercatrici e il ricercatore del laboratorio USA, ma “manca una granularità sul contributo delle materie plastiche primarie alle emissioni di gas serra e sul loro impatto sul bilancio globale di carbonio rimanente, necessario per rimanere al di sotto di un aumento della temperatura media globale di 1,5°C o 2°C”. Per questo il loro rapporto prova a misurare il contributo della produzione primaria (quella di plastica vergine) al cambiamento climatico, disaggregato per polimero e tecnologia.

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Fonte: Stockholm Resilience Centre

Leggi anche lo SPECIALE Trattato sulla plastica

La plastica responsabile del 5% circa delle emissioni climalteranti globali

Le stime del Lawrence Berkeley National Laboratory indicano che la produzione globale di materie plastiche primarie “ha generato circa 2,24 gigatonnellate di anidride carbonica equivalente (GtCO2e) nel 2019, rappresentando il 5,3% delle emissioni totali di gas serra a livello globale (esclusi agricoltura e Land Use, Land-Use Change and Forestry- LULUCF)”.

Da cosa derivano tutti questi gas? Dalla combustione di combustibili fossili per il calore di processo e l’elettricità e da altri processi non legati alla combustione, come le perdite di metano (CH₄) durante estrazione, fracking, perforazione e trasporto di petrolio, gas e carbone; alcuni processi come lo steam cracking o il catalytic cracking che generano emissioni dirette di CO₂ come sottoprodotto delle reazioni; o ancora l’utilizzo di gas fluorurati (HFCs, HCFCs) in plastiche espanse come il polistirene estruso.

La ricerca del LBL analizza anche il contributo dei diversi polimeri: Circa il 22%, il 21% e il 15% delle emissioni legate alla produzione primaria di plastica (2019) provengono rispettivamente da PE, PET e PP. Altre materie plastiche chiave, come PVC, PS, SAN, ABS e PU, sono responsabili di circa il 23% delle emissioni.

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Fonte: Lawrence Berkeley National Laboratory

Clima e scenari di crescita della produzione 

Lo studio analizza – in condizioni di stabilità del sistema energetico mondiale – le emissioni di gas serra della produzione primaria di plastica fino al 2050 in tre scenari principali: No growth, produzione di plastica resta costante ai livelli del 2019; 2,5% growth, la domanda di plastica cresce del 2,5% annuo (media delle proiezioni OCSE); 4% growth, la domanda cresce più rapidamente, al 4% annuo.

In uno scenario di crescita “conservativo” (2,5% annuo), le emissioni di gas serra derivanti dalla produzione primaria di plastica “sarebbero più che raddoppiate, raggiungendo 4,75 GtCO2e entro il 2050, pari al 21-26% del restante budget globale di carbonio per mantenere gli aumenti della temperatura media al di sotto di 1,5°C”.

Con una crescita del 4% all’anno, le emissioni aumenterebbero di oltre tre volte, raggiungendo 6,78 GtCO2e, pari al 25-31% del restante budget globale di carbonio per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C.

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Fonte: Lawrence Berkeley National Laboratory

Leggi anche: Rafael Eudes (GAIA) “Un trattato sulla plastica inutile è peggio di uno che non soddisfa tutti”

Le fasi della produzione

Un altro aspetto interessante è il contributo delle diverse fasi di produzione alle emissioni. Le ricercatrici rilevano che la maggior parte (circa il 75%) delle emissioni derivanti dalla produzione di plastica si verifica nelle fasi precedenti alla polimerizzazione. “Più di un quarto (26%) delle emissioni è generato durante la produzione di monomeri (ad esempio, etilene, propilene, acido tereftalico purificato (PTA), cloruro di vinile monomero (CVM) e stirene). Un po’ di più (29%) sono generate dalla raffinazione degli idrocarburi (ad esempio, nafta, etano) e dalla produzione di altri prodotti chimici non idrocarburi (ad esempio, metanolo, ammoniaca e cloro), mentre il 20% delle emissioni proviene dall’estrazione dei combustibili fossili necessari per le materie prime e per il processo di produzione della plastica.

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Fonte: Lawrence Berkeley National Laboratory

Fonti fossili e plastica

Come sappiamo, la produzione di plastica attualmente dipende fortemente (più del 90%) dai combustibili fossili. Lo Studio stima che la produzione globale di plastica oggi rappresenti circa il 12% della domanda totale di petrolio e l’8,5% della domanda totale di gas naturale. Il 70% di questi combustibili fossili viene usato come materia prima, il resto viene consumato come energia di processo, per generare calore ed elettricità.

Un dato che svela il rapporto perverso tra produzione di plastica ed estrazione di fonti fossili. Scrivono infatti le ricercatrici: “Ciò indica che, anche con un più ampio sforzo di decarbonizzazione del sistema energetico verso impegni di emissioni nette zero, la futura produzione primaria di plastica potrebbe ancora dipendere fortemente dai combustibili fossili come materia prima”.

Leggi anche: Trattato sulla plastica, l’importanza di includere anche gli additivi

Trattato globale sulla plastica

Scritto prima del fallimento dell’ultimo round negoziale dell’ONU, lo studio ci consegna informazioni utilissime per capire quali dovrebbero essere le linee d’azione di un possibile trattato globale sull’inquinamento da plastica. “Per raggiungere l’obiettivo generale di 1,5°C (quello degli accordi di Parigi sul clima, ndr), è fondamentale fissare degli obiettivi per l’industria della plastica”

Le ricercatrici richiamano l’attenzione sul fatto che la maggior parte delle strategie di mitigazione dell’inquinamento da plastica (ad esempio, la riduzione della produzione, l’eliminazione dei polimeri problematici e il riciclaggio) potrebbero avere conseguenze diverse sul cambiamento climatico e “dovrebbero essere studiate rigorosamente dal punto di vista climatico prima di poter trarre una conclusione definitiva sul loro impatto”.

Qualche riga viene dedicata anche al riciclo. Quello meccanico “può portare a una riduzione delle emissioni di gas serra, ma non è applicabile a tutti i tipi di polimeri plastici”. A livello mondiale è utilizzato infatti soprattutto per PET e PE, “ma la raccolta, la contaminazione e la selezione sono sfide che possono ridurne significativamente l’efficienza”. Visto poi che più numerosi sono i cicli di riciclo minore è la qualità del prodotto, il numero di cicli – e i vantaggi per l’ambiente – potrebbero essere ridotti.

Quanto al riciclo chimico, lo studio LBL ricorda che richiede un apporto energetico maggiore rispetto a quello meccanico e che il riciclo chiuso (da polimero a polimero) prevede “ulteriori fasi di produzione che ne aumentano l’impronta di carbonio”.

La metodologia dello studio 

Le ricercatrici del LBL hanno sviluppato un modello completo delle emissioni di gas serra derivanti dalla produzione globale di materie plastiche primarie. La modellazione include i flussi di materiali di tutte le fasi di produzione, i processi e le tecnologie utilizzate, dall’estrazione dei combustibili fossili necessari per la produzione alla creazione del prodotto finale. In particolare il lavoro si concentra su nove tipi principali di polimeri plastici a base di combustibili fossili che vengono prodotti e consumati in grandi quantità: tre tipi di polietilene (PE) – a bassa densità (LDPE), lineare a bassa densità (LLDPE) e ad alta densità (HDPE) – e poi polipropilene (PP); polietilene tereftalato (PET); cloruro di polivinile (PVC); polistirene (PS) e altre plastiche chiave a base di stirene, come lo stirene acrilonitrile (SAN) e l’acrilonitrile butadiene stirene (ABS), e poliuretano (PU). Questi polimeri insieme rappresentano circa l’80% della produzione globale di materie plastiche.

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