Incontro Helena Branco e Graziella Albuquerque virtualmente nel corso della Cop27, la 27esima Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite. Sono due giovanissime attiviste e giornaliste brasiliane arrivate a Sharm el-Sheikh per coprire il Summit sul clima.
Helena Branco ha 20 anni, è un’attivista da cinque, si occupa di parità di genere per Girl Up Brazil, un’associazione che vuole formare female leader tra i 13 e i 20 anni. Venire alla Cop per lei significa unire la prospettiva di genere alla lotta per la giustizia ambientale.
“Le donne, soprattutto le donne in condizione di vulnerabilità, sono le più colpite dai cambiamenti climatici. Mitigazione e adattamento devono guardare a loro. Cosa possiamo fare per prevenire la sofferenza di queste donne?”. È la prima cosa che mi dice quando le chiedo perché ha deciso di andare a Sharm el-Sheikh.
Graziella Albuquerque è una giornalista di Media Ninja e porta avanti un programma di educazione ambientale. Questo è il suo primo vertice sul clima in presenza ma ha già coperto la Cop26 virtualmente e non ha dubbi sul fatto di andare a Dubai per la Cop28 il prossimo anno.
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Pochissimo spazio per la società civile
Le due attiviste sono piuttosto critiche sullo spazio di protesta all’interno della Cop27: “Insieme agli altri attivisti provenienti da tutto il mondo, abbiamo constatato quanto sia stato difficile arrivare qui e quanto sia piccolo lo spazio per la società civile. Qui non possiamo protestare. Le proteste sono molto ridotte e abbiamo davvero paura delle ritorsioni. Abbiamo paura anche della sorveglianza. Non ci si può rilassare un attimo perché non si sa mai cosa può accadere, soprattutto quando si tratta di organizzarsi, mobilitarsi. Sappiamo di essere al sicuro all’interno, ma che dire dell’esterno? Non sappiamo come muoverci. È una situazione davvero difficile”.
Le manifestazioni di protesta, infatti, non sono ammesse all’esterno della Cop per cui, per la prima volta, le attiviste e gli attivisti si accalcano all’interno cercando di far sentire come possono la propria voce, con le immagini che ne conseguono di sparuti gruppi di persone dissonanti dalla frettolosa massa di delegati. Il governo Bolsonaro ha perfino negato gli accrediti per la Cop27 alle attiviste e agli attivisti che si sono rivolti all’esterno per potere avere accesso al Summit. “Mentre il Cile ha gestito gli accrediti tempo fa, il governo brasiliano ci ha negato qualunque pass. Abbiamo chiesto a organizzazioni internazionali di donarci i loro accrediti, nel nostro caso dobbiamo ringraziare A Sud Onlus“.
Ma se la presenza della società civile è stata impedita in ogni modo, quella delle aziende fossili sembra essere stata quasi invogliata. “Abbiamo visto una lunga fila di industrie fossili rappresentare la decarbonizzazione del Brasile: MyCarbon, General Motors,GWEC, Toyota, Vale do rio Doce“. Quest’ultima in particolare è stata protagonista di un disastro ambientale annunciato: nel 2015, la diga di contenimento della miniera di ferro di Fundão ha ceduto, riversando 50 milioni di tonnellate di fango e rifiuti tossici nel Rio Doce in Brasile, uccidendo 19 persone, inquinando il fiume, contaminando i terreni coltivati, devastando i pesci e la fauna selvatica e inquinando l’acqua potabile con fanghi tossici lungo i 650 chilometri del corso d’acqua.
Branco è indignata: “Ho chiesto a Marcelo Freire, segretario per l’Amazzonia e per i Servizi Ambientali del Ministero dell’Ambiente del Brasile, perché avesse portato tutte queste industrie energetiche fossili alla Cop27 e mi ha risposto che stiamo attraversando una crisi energetica a causa della guerra e dobbiamo garantire la sicurezza energetica del Paese. Non una parola sulla deforestazione. Non una parola sulle popolazioni indigene“.
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Il Brasile è tornato
Ma l’arrivo di Luiz Inácio Lula da Silva alla Cop27 dà speranza, soprattutto perché Jair Bolsonaro non si è mai presentato a nessun vertice sul clima. “Con le elezioni di Lula stiamo vedendo che numerosi paesi stanno cercando di creare relazioni diplomatiche e di vicinanza con il Brasile, mentre gli unici rapporti che intratteneva Bolsonaro erano con gli Stati Uniti. Tutto ciò ci dà speranza. Vogliamo ragionare su adattamento e mitigazione con quei Paesi che saranno più duramente colpiti dai cambiamenti climatici, con quei Paesi che hanno a cuore il futuro dell’Amazzonia. In America Latina e nei Caraibi, i disastri naturali che si stanno già verificando ridurranno in povertà circa 2 milioni di persone. Sappiamo per certo che questo succederà e credo che il governo brasiliano ci stia dando segnali molto forti sul fatto che il cambiamento climatico e la protezione dell’Amazzonia saranno in primo piano nelle politiche pubbliche e nelle azioni del governo”.
L’OPEC delle foreste
La recente elezione a presidente di Lula rappresenta un cambiamento potenzialmente enorme per il Brasile in termini di prospettive ambientali: non entrerà in carica prima di gennaio, ma secondo Reuters, che ha ascoltato tre diplomatici brasiliani sotto anonimato, la sua presenza al vertice ha aumentato di molto la credibilità del Paese agli occhi delle Nazioni Unite.
“Nessuno è salvo. I cambiamenti climatici toccheranno tutti”, ha dichiarato durante il suo intervento alla COP27. “Le diseguaglianze tra ricchi e poveri si manifestano perfino nello sforzo di ridurre gli effetti del cambiamento climatico. Per questo prometto che la lotta ai cambiamenti climatici sarà in cima alle mie priorità di presidente“.
Durante la sua permanenza al Summit, Lula ha anche incontrato le due figure chiave di questo vertice, gli inviati per il clima degli unici due paesi che possono smuovere i negoziati John Kerry (Stati Uniti) e Xie Zhenhua (Cina). Il nuovo presidente eletto si è presentato come uno dei leader del Sud globale e di tutte le sue battaglie, con l’ambizione di diventare punto di riferimento per il blocco dei Paesi più vulnerabili.
Da Silva promette di rendere il Brasile un paese ecologista, rafforzando l’applicazione di leggi ambientali smantellate dallo scettico sui cambiamenti climatici Bolsonaro, e di creare posti di lavoro green in settori che non minaccino l’Amazzonia. E mentre il presidente eletto si recava a Sharm el-Sheikh, lunedì veniva annunciato anche l’accordo contro la deforestazione tra Brasile, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo, un’alleanza strategica definita l’Opec delle foreste. L’accordo vorrebbe infatti creare una struttura simile all’organizzazione dei Paesi produttori di petrolio, che coordina i livelli di produzione e il prezzo del combustibile fossile. I tre Paesi, che ospitano più della metà delle foreste pluviali tropicali del mondo, si impegnano a collaborare per istituire un “meccanismo di finanziamento” che potrebbe aiutare a preservare le foreste e ripristinare gli ecosistemi critici.
Secondo quanto riportato da Global Forest Watch, Brasile, Repubblica democratica del Congo e Indonesia sono stati tra i primi cinque Paesi per perdita di foreste primarie nel 2021, con 11,1 milioni di ettari di copertura arborea persi lo scorso anno.
Prima di essere eletto, Lula ha dichiarato che l’alleanza potrebbe essere estesa ad altre nazioni come il Perù e la Cambogia.
Branco prosegue: “Nel 2004, quando Lula era presidente, la deforestazione dell’Amazzonia era scesa dell’83%, un dato incredibile che ci dice una cosa: sappiamo come migliorare. Dobbiamo solo implementare le giuste politiche”. L’area disboscata nell’Amazzonia brasiliana ha raggiunto un massimo di 15 anni da agosto 2020 a luglio 2021, secondo i dati ufficiali. Un trend in costante crescita sotto Bolsonaro.
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Alla Cop27 i simboli dell’ambientalismo brasiliano
Altro elemento che fa ben sperare, stavolta secondo Albuquerque, è la presenza di simboli dell’ambientalismo brasiliano. Al vertice sul clima le due attiviste hanno incontrato Marina Silva, ex Ministra dell’Ambiente e probabilmente anche prossima, e Sonia Guajajara, leader dei popoli indigeni e futura deputata federale per lo stato di San Paolo. Durante la Cop Silva ha assicurato che il Paese agirà con i proprio mezzi nella lotta alla deforestazione, ma si è detta contenta che Norvegia e Germania abbiano annunciato, dopo la vittoria di Lula, di essere pronte a riprendere il loro sostegno finanziario, tagliato nel 2019 poco dopo l’ascesa al potere di Bolsonaro, e ha affermato che il Brasile cercherà altri partner. Per Marina Silva gli aiuti internazionali possono essere utili anche per promuovere la cosiddetta bioeconomia. Secondo l’ex ministra, una delle strade è rafforzare l’agricoltura familiare in Amazzonia per aumentare la produttività delle fattorie esistenti attraverso tecnologie più moderne.
Sonia Guajajara è un’altra storia. La sua candidatura è stata spinta dal movimento indigeno come alternativa alla regressione dei diritti durante il mandato di Bolsonaro, che si è rivelato il più grande nemico dei popoli originari.
“Sonia è una donna simbolo della lotta indigena. Veniamo da un governo che ha perpetrato un vero e proprio genocidio nei confronti delle popolazioni indigene e lei rappresenta la transizione dal passato al futuro. Una delle promesse di Lula durante la campagna elettorale è stata quella di creare un Ministro dei popoli indigeni. Sarà lei a ricoprire il ruolo”, spiega Albuquerque. “Abbiamo bisogno di rappresentanti delle popolazioni indigene e originarie nei luoghi di potere, nei luoghi istituzionali, dove vengono prese le decisioni”.
Durante il suo intervento, il futuro presidente ha confermato la creazione di un ministero per i popoli indigeni cui affidare anche la tutela della biodiversità amazzonica. Ma soprattutto ha chiesto al segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, di ospitare proprio in Amazzonia, la Cop30 che si terrà nel 2025.
Ma gli ultimi giorni di Bolsonaro potrebbero rivelarsi difficili per il Brasile. Il timore di molti è che il presidente ancora in carica possa accusare Lula di aver vinto solo grazie a presunti brogli. Si teme che da qui all’insediamento di Lula, i sostenitori di Bolsonaro appoggiati dall’esercito possano creare disordini nel paese e cercare di impedire in modo violento la legittima vittoria. Inoltre, sono ancora in ballo nuove concessioni minerarie in territori indigeni, dove lo scorso giugno ha fatto scalpore la notizia dell’uccisione del giornalista britannico Dom Phillips e dell’indigenista brasiliano Bruno Pereira scomparsi nella Valle del Javari.
La speranza di attiviste e attivisti, comprese Branco e Albuquerque, è che il primo gennaio arrivi in fretta e che i movimenti sociali e i movimenti ambientalisti possano finalmente festeggiare una vittoria collettiva.
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