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domenica, Dicembre 15, 2024

BANCO ALIMENTARE e AVANZI POPOLO

EconomiaCircolare.com
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Redazione EconomiaCircolare.com

di Alessandro Leogrande

CATEGORIA SCRITTURA

Dal recupero al foodsharing, soluzioni in campo contro spreco alimentare e povertà.


ABSTRACT

 

Banco Alimentare è un’associazione che recupera cibo dalla filiera agroalimentare per distribuirlo a oltre 8000 strutture caritative in tutta Italia, con la duplice finalità di ridurre lo spreco alimentare e dare nuovo valore al cibo ancora buono. Oggi sono circa 700 le aziende alimentari che riforniscono l’associazione. Grazie al progetto “Siticibo” Banco Alimentare è la prima realtà italiana ad applicare la c.d. Legge del Buon Samaritano (155/2003) allo scopo di recuperare il cibo cotto e fresco in eccedenza dalle catene della Grande Distribuzione. Oltre alle aziende produttrici, sempre maggiore è il numero di supermercati e ortomercati che forniscono l’invenduto alla rete. Capofila storica nella lotta allo spreco alimentare, l’esperienza di Banco Alimentare ha il merito di aver innescato un processo di sensibilizzazione alla problematica portandola anche nel settore della ristorazione commerciale e collettiva. Porzioni di cibo cotto e ancora buono vengono recuperate da hotel, mense aziendali e ospedaliere, refettori scolastici, banchetti ed esercizi al dettaglio e destinate alle fasce più vulnerabili della popolazione.

www.bancoalimentare.it

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Avanzi Popolo 2.0 è un progetto ideato e sostenuto dall’Associazione di Promozione Sociale Onlus ‘Farina 080’, gruppo di persone impegnate nel campo dell’innovazione sociale, della solidarietà e del commercio equo, che opera nella città di Bari con l’obiettivo di promuovere l’attivazione della cittadinanza contro lo spreco alimentare. Il progetto attinge a due risorse ampiamente inutilizzate: il cibo che rischia di essere buttato e la disponibilità di tempo della comunità. Il cibo viene recuperato attraverso due strumenti, nati dalla volontà di intervenire sul problema in maniera innovativa e collaborativa: una piattaforma web per il foodsharing – ossia lo scambio tra gli utenti di cibo a rischio spreco – e la costruzione di canali diretti di contatto tra i luoghi dello spreco (famiglie, ristoratori, aziende di produzione, trasformazione, distribuzione alimentare e grandi eventi) e quelli del bisogno, che si avvale anche di soggetti attivi nella redistribuzione a scopo sociale (sportelli Caritas, Parrocchie, Associazioni).

www.avanzipopolo.it

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LE STORIE PILOTA

 

LA STORIA DEL BANCO ALIMENTARE  [di Alessandro Leogrande]

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Dentro l’uragano

“Nel 2008 c’erano due milioni e mezzo di poveri, ora sono quattro milioni e otto. In meno di dieci anni, la malattia è esplosa. Prima la povertà era cronica, ma rimaneva lì. Dal 2008 in poi è rimbalzata a numeri simili a quelli prima della guerra. È avvenuto tutto in un tempo rapidissimo. La povertà non è cresciuta piano piano, dandoti il tempo di organizzarti: è arrivato un uragano, ha buttato giù tutto, e adesso – pian piano – possiamo solo ricostruire. Ma devi ricostruire una città che è stata distrutta. Chi ha più capacità ed è stato colpito meno, sembra un po’ più avanti. Quello a cui hanno tirato giù tutto sta messo molto peggio di quello a cui hanno tolto solo il tetto.” Marco Lucchini dirige il Banco Alimentare da molti anni. Il Banco rifornisce di cibo ogni giorno oltre ottomila strutture caritative che a loro volta aiutano un milione e seicentomila persone in difficoltà. Quando parla di quello che è accaduto nel nostro paese negli ultimi anni, lo fa da una torretta di guardia un po’ più alta delle altre. Per capire la povertà, che spesso è fatta di silenzio, solitudine, depressione, tanto da apparire invisibile anche in un paese che – secondo molti indicatori – si è visibilmente impoverito, bisogna andare in quei luoghi in cui quelli che non ce la fanno a mettere insieme il pranzo con la cena, quelli che non mangiano da giorni, quelli che non riescono a fare la spesa per i propri figli, quelli che hanno perso il lavoro, quelli che sono soli al mondo da tempo, si ritrovano a consumare un pasto intorno a un tavolo. Sono le mense, dice. Nella sola città di Milano, ad esempio, il Banco Alimentare ne rifornisce 32, che a loro volta assistono 11.814 uomini, donne e bambini. Le mense sono un termometro sociale. Come quindici anni fa ci si accorse che a Milano, accanto ai loro frequentatori abituali, vi si aggiungevano sempre più spesso uomini soli, tra i 35 e i 50 anni, spesso in giacca (erano i padri separati che non avevano un posto dove tornare a cena; ed erano talmente numerosi da divenire un fatto sociale), così oggi – negli anni dell’uragano – è proprio nelle file per ottenere un pasto caldo che è possibile scorgere la grande trasformazione in atto.

Per metà, in quelle file, ci saranno degli stranieri. L’altra metà sarà composta da italiani. Non solo coloro i quali associamo “tradizionalmente” alla categoria della povertà, ma anche, e soprattutto, tutta la gamma possibile dello sgretolamento del ceto medio. Sempre più spesso ci sono nuclei famigliari che non riescono ad andare avanti dopo la perdita del lavoro di uno dei componenti, ci sono “lavoratori poveri”, ci sono donne con prole… Come dice ancora Lucchini: “L’immagine più rappresentativa dell’Italia oggi è spesso questa: io ho un euro e devo decidere se usarlo per mangiare o per qualcos’altro di importante. Se tu mi offri da mangiare, questo euro lo posso usare per qualcos’altro: magari l’affitto, o un quaderno per la scuola di mio figlio.” Poi ci sono i fenomeni nuovi. Ci si è accorti che sempre più spesso vengono a chiedere un pasto dei minori soli, non accompagnati. Soprattutto ragazzini tra i 14 e i 17 anni, che evidentemente non hanno più una famiglia alle spalle. E proprio come per i padri separati di quindici anni fa, soprattutto nelle mense calabresi ci si è resi conto che è questo il nuovo fatto sociale con cui fare i conti. L’allarme tra l’altro è confermato dai dati contenuti proprio in una ricerca realizzata dallo stesso Banco Alimentare: “Per gli individui, l’incidenza di povertà assoluta si porta al 7,9% con una variazione statisticamente non significativa rispetto al 2015 (quando era al 7,6%). Nel 2016 l’incidenza della povertà assoluta sale al 26,8% dal 18,3% del 2015 tra le famiglie con tre o più figli minori, coinvolgendo nell’ultimo anno 137.771 famiglie e 814.402 individui; aumenta anche fra i minori, da 10,9% a 12,5% (1 milione e 292mila nel 2016).”

Come dare da mangiare agli affamati?

Il Banco Alimentare nasce a Milano nel 1989, sul modello del Banco dos Alimentos, già attivo a Barcellona da diversi anni. L’idea è semplice: recuperare il cibo che il sistema agroalimentare e la grande distribuzione mandano al macero, anche quando è ancora buono, per darlo a chi ne ha bisogno. Ogni anno nel mondo si sprecano 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, pari a circa un terzo della produzione totale destinata al consumo umano (dati Fao). I paesi dell’Unione europea gettano 90 milioni di tonnellate di cibo, mentre in Italia lo spreco domestico vale complessivamente 8,4 miliardi di euro all’anno (Rapporto Waste Watcher 2015). Secondo dati forniti dal Ministero della Salute, in Italia ogni anno il 32% di cibo si perde nella fase di produzione agricola (510 milioni di tonnellate); il 22% (355 milioni) si spreca nelle fasi successive alla raccolta e nello stoccaggio; l’11% (180 milioni) va perso durante la lavorazione industriale; il 22% (345 milioni) è frutto dello spreco domestico; il 13% si spreca durante la distribuzione e nella ristorazione. Oggi, dopo quasi trent’anni di attività, la rete che ruota intorno al Banco Alimentare è capillarmente diffusa su tutto il territorio nazionale, non solo in Lombardia. Da una parte ci sono le 8.035 strutture caritative che distribuiscono cibo, attraverso le mense o attraverso la consegna di pacchi famiglia (è questa la modalità che va per la maggiore, e che costituisce oltre l’80% dell’intervento). Dall’altra, la necessità di recuperare cibo ancora utilizzabile, che altrimenti andrebbe distrutto. E qui interviene il Banco alimentare, con un’attività ormai ramificata. Ci sono dipendenti (119) e volontari (1878) che ogni giorno con furgoni recuperano cibo dalle strutture della grande distribuzione e lo consegnano direttamente alle strutture convenzionate, o (quando non rapidamente deperibile) lo portano nel magazzino centrale della fondazione nei pressi di Parma, da cui poi il cibo viene redistribuito anche su distanze più lunghe, a seconda delle esigenze della rete. A questo si aggiunge il recupero del cibo già cucinato in alcune strutture di ristorazione che altrimenti, benché fresco, finirebbe in discarica.

Entriamo nel dettaglio

Nel 2016 il Banco Alimentare ha distribuito 66.478 tonnellate di cibo. Queste provenivano dal fondo nazionale del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (23.563 tonnellate), dall’ortofrutta (11.155 tonnellate), dalle industrie agroalimentari (14.428 tonnellate), dalla grande distribuzione organizzata (4.966 tonnellate). Ma anche dalla ristorazione organizzata (circa un milione e duecentomila piatti pronti) e dalla Giornata nazionale della Colletta Alimentare (8.500 tonnellate), che – con il coinvolgimento di oltre centomila volontari in tutta Italia – raccoglie il cibo acquistato e devoluto per quel giorno al Banco da oltre cinque milioni di donatori. Insomma, visti in questi termini, il Banco sembra uno dei massimi esempi di economia circolare, in cui ciò che dovrebbe essere scartato e divenire rifiuto viene reimmesso nel circuito dell’alimentazione. Ma c’è dell’altro – e non solo perché il pane non può essere ridotto semplicisticamente a merce. Ci sono le persone. Forse il maggior pregio delle strutture rifornite dal Banco è quello di ricreare (soprattutto nel caso delle mense) delle piccole comunità in cui la solitudine della povertà e del disagio vengono lenite. O quanto meno non diventano uno stigma sociale. “Tanti volontari”, dice Lucchini, “sono persone che prima venivano a mangiare in mensa.” Di recente, il Banco Alimentare ha raggiunto un accordo con Costa Crociere per recuperare i pasti cucinati a bordo delle navi che non vengono serviti. Finora tutto il cibo che non veniva consumato dai passeggeri (“parliamo di migliaia pasti da hotel a quattro stelle”), era triturato e buttato al largo tra le onde del mare. Così è stato raggiunto un accordo-pilota per la Costa Diadema, la nave ammiraglia della compagnia. I pasti non consumati a bordo vengono riposti in contenitori di alluminio, sigillati, etichettati e conservati nelle celle frigorifere di bordo. Dopo l’attracco nel porto di Savona, i contenitori vengono consegnati ai volontari del Banco Alimentare, che a loro volta li portano a Varazze, presso la Fondazione L’Ancora, che gestisce una casa alloggio in cui soggiornano 20 minori e che fornisce inoltre aiuto alimentare a oltre 280 persone, tra cui molti rifugiati. “Costa è felice perché non deve buttare più la roba in mare, e perché i propri dipendenti – gli equipaggi sono formati per lo più da persone che vengono da paesi dove si fa la fame – sono più contenti. I ragazzi della casa alloggio sono straordinariamente contenti di magiare come in albergo, gli operatori sanno che per due giorni non dovranno aprire la cucina, e sono contenti anche loro… Quando si è sparsa la voce un’altra nota compagnia di crociere ci ha detto che vorrebbero farlo anche loro.”

Estendere la rete

Oggi l’attività di recupero delle eccedenze alimentari è ulteriormente agevolata dalla legge 166/2016 contro gli sprechi alimentari e farmaceutici. Il provvedimento riorganizza il quadro normativo che regola le donazioni degli alimenti invenduti, introducendo delle semplificazioni nelle procedure e degli incentivi. “Prima a una azienda o un supermercato conveniva mandare il cibo invenduto in discarica, anziché donarlo. Oggi, dopo un lungo percorso, sono state individuate delle agevolazioni nelle procedure per chi dona.” E questo permette di recuperare molte più tonnellate. Ciò che impressiona dell’attività del Banco Alimentare sono proprio i numeri. Se da una parte – quei numeri – definiscono quanto grandi possano essere le capacità di recupero cibo, a fronte della produzione sistematica di eccedenze da parte della filiera dell’agroindustria e della grande distribuzione, dall’altra ci dicono – per usare le stesse parole di Lucchini – che il dopo-uragano non è ancora finito. E che i numeri sulle povertà vecchie e nuove, che si ricavano dall’attività delle strutture caritative rifornite dallo stesso Banco, mettono in luce l’assenza di politiche reali che incidano su un vasto spettro di fragilità sociali. Negli anni più bui della crisi è accaduto spesso che le richieste di aiuto superassero le possibilità di fornirlo. Come nel caso di quel parroco bresciano (è sempre Lucchini a raccontarlo) che a un certo punto si accorge di avere molti più bisognosi. “Prima assisteva cento persone che erano per lo più straniere. Di colpo se ne ritrova duecento, di cui cento straniere e cento italiane dei paesi intorno. Non aveva cibo a sufficienza per tutti. Così mi dice: Se lascio fuori gli stranieri, mi danno del razzista. Se lascio fuori i bianchi, mi danno del traditore. Cosa faccio? Basta, chiudo. Saranno tutti incazzati, ma almeno non mi accuseranno di favorire qualcuno a discapito degli altri.” La situazione era questa. Non solo in Lombardia, ovviamente. “Molte realtà del Sud hanno dovuto chiudere perché si sono trovate letteralmente invase. Non riuscivano più ad andare avanti, neanche con tutto l’aiuto che potevamo dargli. I volontari erano persone brave e generose, ma con numeri così grandi non ce l’hanno fatta. Quel momento lì è stato veramente critico. Oggi siamo in una fase di ricostruzione, ma siamo ancora molto deboli.”

 


AVANZI POPOLO, UNA STORIA DI FOOD SHARING  [di Alessandro Leogrande]

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Il food-sharing nasce da un’idea molto semplice: condividere il cibo che per, un motivo o per un altro, non si riesce a consumare, con l’obiettivo di limitare gli sprechi alimentari. Intorno a questo assunto (fare cioè del potenziale rifiuto, del sicuro scarto, una risorsa per chi ne ha bisogno) si stanno creando oggi in Italia molte comunità, spesso anche molto piccole, su base locale. Quella sorta intorno alla piattaforma Avanzi Popolo nella città di Bari è invece relativamente grande. Ed è una delle più interessanti.

Marco Costantino spiega come è sorta, un paio di anni fa. “Siamo quattro amici con esperienze diverse nel mondo della cooperazione internazionale, del commercio equo e solidale e del volontariato, che a un certo punto hanno deciso di dedicarsi al tema dello spreco alimentare. Ci piaceva l’idea di portare in Puglia una pratica che avevamo visto diffondersi in Germania attraverso la rete. Ci aveva molto colpito, ad esempio, il video di presentazione del progetto tedesco foodsharing.de. Le immagini sono molto esplicative. Si vede un ragazzo in bicicletta tornare a casa, aprire il frigo e trovarlo vuoto. Senza perdersi d’animo, si collega alla rete, va sulla piattaforma e scopre che, a pochi metri da casa sua, c’è uno che ha uno yogurt da dargli. Così riprende la bici e va a recuperarlo. Ci è sembrata un’immagine molto potente: qualcosa che può essere fonte di eccesso per qualcuno può diventare una risorsa per qualcun altro.” Marco e i suoi amici intravedono subito un doppio binario: tenere insieme l’orizzonte ecologico (la lotta allo spreco alimentare) e il tema della redistribuzione del cibo, quale primo argine contro l’avanzare delle nuove povertà. Così partecipano a un bando pubblico della Regione Puglia, lo vincono e creano la piattaforma di food-sharing avanzipopolo.it. Inizialmente la piattaforma viene gestita in maniera informale. Poi, nell’agosto del 2015, decidono di costituirsi in associazione e di chiamarla Farina 080 (080 è il prefisso telefonico di Bari). “Uno dei primi interventi che abbiamo fatto è stato in occasione del concerto di Jovanotti. Fummo contattati dagli organizzatori del catering che avevano diverse centinaia di panini avanzati. Cosa fare? Non avevamo né le strutture, né le competenze per occuparci della distribuzione di quel cibo. Così abbiamo deciso di lavorare subito in una logica di rete. Abbiamo recuperato una serie di contatti che avevamo, negli sportelli Caritas o nel mondo delle mense parrocchiali, e abbiamo provato a distribuire i panini attraverso tale rete. Da essere una cosa fatta per necessità ci siamo resi conto che poteva essere una strategia.” 

Marco e gli altri colgono subito due aspetti fondamentali del food-sharing. Il primo è che spesso manca l’intermediario tra i luoghi dello spreco e i luoghi del bisogno, ed è proprio quella la funzione che devono provare a svolgere. Il secondo è che la creazione di quella rete non può essere affidata solo alla facilità di connettersi a una piattaforma virtuale. Va creata con contatti, mediazioni, telefonate, incontri… Insomma serve prima creare delle relazioni, e quindi una comunità, per poi servirsi degli strumenti che la rete offre. A due anni dalla nascita, Farina 080 ha redistribuito 5575 chili di cibo. L’associazione ha messo in contatto una trentina di soggetti da un lato (commercianti, aziende, sale ricevimenti, servizi di catering) con una trentina di soggetti dall’altra parte (parrocchie, associazioni, sportelli Caritas), che gestiscono mense o preparano pacchi famiglia. Quando ancora integro, lo scarto degli uni è stato redistribuito dagli altri. “Nel 90% dei casi mettiamo in contatto diretto la sala ricevimento con chi deve ritirare il cibo per la struttura. Questo viene fatto quasi a chilometro zero. Gli spostamenti sono in luoghi molto vicini. Noi chiediamo in ogni caso alle sale ricevimenti che si occupino loro del packaging, in modo che i contenitori possano essere trasportati facilmente.”

In città lavora anche una rete di volontari che ritirano e portano a loro volta il cibo nei posti più vicini. I volontari attivi sono una decina. Ad esempio, è capitato in questo modo di portare del cibo al Ferrhotel o all’ex Socrate occupato, due luoghi in cui vivono molti rifugiati. I ristoranti coinvolti sono invece un paio. Da questi passano per il ritiro dei pasti due volte a settimana. “Il cuoco di un ristorante ci prepara addirittura ad hoc qualcosa con quello che è avanzato e che altrimenti andrebbe buttato.”  Accanto al lavoro di intermediazione, ha preso forma poi la piattaforma di food-sharing vera e propria, che attualmente conta 550 iscritti. I passaggi, per chi vuole partecipare, sono molto semplici, e sono riassunti sulla stessa home page. “1) Entra nella nostra community di food-sharing registrandoti gratuitamente. 2) Verifica se hai in casa alimenti vicini alla scadenza o che pensi di non poter consumare. 3) Fai una foto agli alimenti che rischiano di essere sprecati e compila il form online. 4) Attendi che qualcuno richieda il cibo che hai condiviso e fissa un incontro per la consegna.”

In due anni di attività sono stati realizzati 133 scambi. Non sono numeri elevatissimi, ma permettono di scorgere in embrione qualcosa che può ingrandirsi progressivamente. Attualmente – tra gli ultimi cibi messi in condivisione, che altri utenti della piattaforma potrebbero recuperare – ci sono: una tisana, un pacco di spaghetti integrali Barilla, una scatola d’orzo, una miscela aromatica alla paprica, del ginseng. Di solito, sono prodotti che hanno una scadenza piuttosto lontana nel tempo. Come raccontato anche sulla propria pagina Facebook, nell’estate scorsa, Farina 080 ha lanciato un nuovo progetto: quello dei frigoriferi solidali. L’obiettivo è quello di piazzare sette frigoriferi in vari posti della città, portando così il food-sharing in strada. Alcuni di questi, come quello piazzato all’università, intendono incidere innanzitutto sulla riduzione dello spreco. Altri, come quelli collocati presso gli sportelli Caritas o presso alcune mense sociali, intervengono maggiormente sul fronte del bisogno. In un caso o nell’altro, che si intervenga sulla condivisione e sull’aiuto per chi ha fame, che si lavori in rete o in strada, non bisogna sottovalutare il fattore culturale. “Oggi si assiste spesso a un proliferare di piattaforme web e di app, ma la nostra impressione è che spesso siano strumenti un po’ freddi, che non si pongono il problema dell’innesco iniziale della relazione. C’è dello spreco e c’è della domanda. Ma l’incontro tra le due parti non può essere dato per scontato. Ad esempio, non tutti sono pronti a inserire prodotti sulle applicazioni. Bisogna prima lavorare sulla creazione della comunità e sul cambiamento culturale circa l’utilizzo di questi strumenti.” L’intervento sui due livelli permette un’ulteriore apertura. Nel momento in cui si punta sul food-sharing aperto a chiunque, gli interventi non verranno connotati unicamente come uno strumento “per i poveri”, bensì come un’azione anti-spreco valida per tutti, e – fattore non secondario – questo libererà l’intervento dal rischio di stigmatizzazione, e gli stessi utenti (spesso nuovi poveri, provenienti dallo sgretolamento del ceto medio) dall’etichetta di “bisognoso”. Anche questo, in fondo, è un salto culturale, e appare evidente da un altro progetto cui partecipano i volontari e gli operatori di Farina 080: la Casa delle bambine e dei bambini. Si tratta di un emporio aperto alle famiglie con ISEE al di sotto dei 3mila euro e figli minori al di sotto dei 5 anni, individuate tramite un bando pubblico del comune. Ogni famiglia riceve una tessera a punti che le permette di fare degli acquisti all’interno della struttura, simile in tutto e per tutto a un supermercato. “Il cibo con cui riforniamo l’emporio viene in massima parte da aziende. Per le attrezzature, i vestiti, i giocattoli dei bambini funziona invece molto di più la donazione tra privati. Ora vorremmo mettere in piedi un sistema di moneta virtuale in modo che le famiglie che donano delle attrezzature ricevano in cambio una moneta virtuale da poter utilizzare in negozi convenzionati, come se fosse una moneta complementare. Ciò potrebbe avvicinare gli utenti della casa alle persone che donano, e rendere l’emporio il meno possibile un posto solo ‘per i poveri’, e il più possibile un posto aperto a chiunque.”

In fondo, in una società che si sfilaccia sempre di più e si scopre fragile dopo gli anni della grande crisi, gli esperimenti di food-sharing possono essere uno di quegli ambiti privilegiati in cui sperimentare nuovamente, sotto forme innovative, il vecchio motto: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni. L’importante – ancora una volta – è creare comunità, e stabilire nessi tra uomini e donne che possano vivificarla.

 


 

 

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