“La cronopioggia fa invecchiare ciò che tocca, ma non può spazzare via tutto quanto. Il passato non ti abbandonerà”, avverte la ieratica musa Fragile all’indirizzo del nostro eroe Sam Porter Bridges. Siamo nell’intro di Death Stranding, ambiziosissimo videogame della star del game design Hideo Kojima, e la cronopioggia è una delle conseguenze di un futuro in cui è sostanzialmente ostile aggirarsi negli spazi esterni: un cataclisma che porta il nome del gioco ha liberato sul nostro pianeta le “creature arenate”, entità invisibili e letali provenienti dall’aldilà che solo i neonati sono in grado di percepire, perché non hanno ancora reciso del tutto il loro contatto con l’altra dimensione. Bisogna evitare di farsi trovare all’aria aperta e sotto le cronopioggia, che tra l’altro altera lo scorrere del tempo di qualsiasi creatura vivente venga toccata anche solo da una singola goccia: l’umanità vive in avamposti ultratecnologici connessi tra di loro attraverso un sistema di “reti chirali” e stampanti 3D – a consegnare le merci tra un bunker e l’altro ci pensano i rider, selezionati tra la parte di umanità in grado di sopravvivere alle piogge, coadiuvati da un infante a tracolla che permette loro di ripararsi per tempo dalle creature arenate (e al giocatore di cullare il joypad come fosse un bambino, per farlo smettere di piangere prima che risvegli i mostri).
Ecco, difficile trovare una visione più lucida del futuro che ci aspetta, un pianeta dove è diventato impossibile affacciarsi all’esterno, e una tecnologia in grado di sostituirsi al contatto e alle relazioni umani – il tanto temuto metaverso. Che il lockdown da Covid-19 sia stata solo una grande prova generale, coi suoi aperitivi su Zoom e gli utenti appesi alle serie tv sulle piattaforme? “Non sarà più importante dove vivi, ma sarà importante solo come hai intenzione di vivere”, ci ha detto proprio nel 2020 Lembit Öpik, il chair of parliament di Asgardia, la prima nazione nello spazio. “Arriveremo nello spazio facendo le cose giuste sulla Terra. Possiamo creare una democrazia digitale che possa funzionare su qualsiasi pianeta, e un’economia digitale che possa reggere allo stesso modo su qualunque pianeta. È quello che stiamo costruendo adesso. Questo significa che non ci si sentirà soli, neanche se ci troveremo a vivere in comunità molto piccole”.
Non è forse un caso se non è tanto il mondo del cinema, ancorato a pratiche linguistiche novecentesche, quanto quello dei nuovi media e dei linguaggi immersivi, a starci raccontando in maniera più precisa gli scenari per un futuro che non per forza debba sottostare ai dettami del disaster movie. Lembit Öpik ci parlava dei viaggi nello spazio, e negli scorsi mesi abbiamo visto accendersi le sfide per il turismo spaziale dei multimiliardari (pronti a lasciare la Terra prima che sia troppo tardi?), tra Blue Origin e SpaceX, Jeff Bezos e Elon Musk (che ha aiutato Tom Cruise per le riprese spaziali del prossimo Mission: Impossible). “L’apologia del movimento è parte integrante del consumo di un mondo costantemente rimpicciolito dalla tecnologia”, spiega Roldolphe Christin nel suo straordinario Turismo di massa e usura del mondo (Eleuthera, 2019).
“Il turismo nello spazio, business model al momento economicamente elitario, diventerà ben presto di massa? A forza di allargare gli orizzonti, l’ipermobilità non finirà per chiudere il mondo a doppia mandata, imprigionandoci, in una sorta di compensazione tecnologica stravolta, in miraggi di universi virtuali che sostituiranno le geografie di un reale ormai inospitale? Si parlerà ancora, senza sorridere, di realtà virtuale?”
L’unico mondo possibile?
E siamo tornati in Death Stranding. Addirittura Stephen King, nell’ultimo recente capitolo della trilogia dedicata a Gwendy Peterson, L’ultima missione di Gwendy, immagina un futuro in cui si stanno testando proprio i viaggi turistici intorno all’orbita spaziale – la senatrice Peterson vuole sfruttare l’occasione per liberarsi tra le stelle della scatola dei bottoni, strumento infernale affidatole da una vecchia conoscenza kinghiana, l’Uomo in Nero: la scatola è la responsabile dell’epidemia di Coronavirus, e così King continua ad aggiornare al contemporaneo la sua saga della Torre Nera, multiverso che tiene insieme la sua intera produzione con una serie di rimandi più o meno espliciti a una mitologia intricatissima, legata a personaggi e immagini ritornanti (i vettori, la tartaruga, la Rosa) che il cinema, ancora una volta, non è mai riuscito a trasporre con la necessaria forza.
Le dimensioni parallele sono un altro must delle narrazioni contemporanee: una volta sostituita l’idea del Tempo con la percezione di un eterno presente in grado di travalicare spazi e posizioni fisiche, non rimane che esplorare n-versioni alternative della nostra realtà, dove magari le cose non sono andate così male a livello climatico e ambientale. I grandi organismi complessi dell’entertainment dei nostri giorni, come il Marvel Cinematic Universe, fanno sempre maggiore ricorso a questa idea, quest’ultimo soprattutto per fare i conti con l’estinzione di massa causata dal cattivissimo Thanos nella cosiddetta Infinity Saga per risolvere il problema della sovrappopolazione multiplanetaria. L’idea che l’apocalisse sia reversibile, un evento ritornante, è un concetto che alcune filosofie hanno affrontato da epoche. Per restare in zona Marvel, Black Panther di Ryan Coogler (per molti versi il più importante titolo dell’intero lotto) è anche una rivisitazione fondamentale dei dettami dell’afrofuturismo, movimento culturale e politico che negli anni ’60 fondeva sci-fi e militanza per raccontare l’alterità della popolazione nera negli States, e il sogno del ritorno nella landa di provenienza, quell’Africa originaria così vicina al Regno di Wakanda del comic-movie del 2018.
“La simbologia connessa alla forma del cerchio si oppone a quella della linea, e questo è il cuore profondo dell’afrofuturismo: iniziare a vederci in maniera cosmica come all’interno di una via circolare, ciclica, e non in una progressione lineare che può andare solo avanti, verso un punto sconosciuto nel futuro”, ci ha detto una volta Shabaka Hutchings, il sassofonista leader dell’ensemble afrofuturista britannico The comet is coming, che ha appena dato alle stampe il nuovo, mastodontico album Hyper-Dimensional Expansion Beam. “Oggi c’è la tendenza a vedere gli accadimenti del presente come il punto d’arrivo definitivo. La tecnologia oggi fa di tutto per ancorarci in maniera fin troppo stretta al presente, al qui e ora, ma ogni istante porta con sé realtà molto diverse tra di loro, che non possono essere ridotte a un mondo solo, o ad una bacheca. Siamo esseri multidimensionali. L’idea della multidimensionalità è stata associata per decenni alla fantascienza, ma appartiene alla realtà: non esiste una sola dimensione, e se sei in grado di percepire questo e di arrivare a saperti muovere attraverso di loro, diventi un essere più completo e più consapevole”. E ci risiamo.
Un meme ci salverà
Ma sul serio il cinema, che è la più multidimensionale delle arti subito dopo la musica (You can’t go to war without a drum, you can not time travel seek outer and inner dimensions without free jazz, come dice Moor Mother in Circuit City) non è ancora stata in grado di cogliere in questi anni la mutazione del sentimento con cui guardiamo al futuro, e alla possibilità di poter sopravvivere a quello che incombe? Il manifesto cruciale arriva non a caso da una piattaforma, più precisamente da Netflix, e da una delle menti imprescindibili per poter leggere i nostri tempi, quella di Adam McKay: il suo Don’t look up è stato in grado di ispirare marce “per il clima e la giustizia sociale” in tutta la Francia, ed è diventato in pochissimo tempo una delle metafore più discusse della scorsa stagione, tra chi lo ha visto come una satira sul Coronavirus, chi come una messa alla berlina di populismi e complottismi vari, e chi come una campanella d’allarme sulle questioni climatiche e sulla lotta di classe che ci aspetta al tempo della (di nuovo) migrazione spaziale.
Soprattutto, McKay che viene dal mondo della commedia e della tv più urticante opera una decisa torsione formale alle modalità con cui la vicenda viene narrata e frammentata, prendendo in prestito e rifrullando (come fa da anni sul suo sito Funny or Die) il linguaggio della comicità del web, meme e gif e mash-up che rendono il montaggio di Don’t look up un continuo riscriversi su se stesso, un incessante accumulo di dati, suggestioni e interpretazioni che vengono puntualmente negati nella sequenza successiva. Esattamente la maniera con cui abbiamo ri-settato il nostro rapporto quotidiano con quello che King Shabaka più su aveva chiamato “il presente come punto d’arrivo definitivo”, mediato dalla tecnologia. Ma se uno dei mantra della Torre Nera di King è proprio l’assunto “esistono altri mondi oltre a questo”, è proprio l’approdo più “autoriale” dell’intero ciclo Marvel a farsene riflesso più esplicito: Eternals di Chloé Zhao è il manifesto di come le tematiche legate al climate change, al transumanesimo, all’antinaturalismo di matrice accelerazionista, e a una visione alternativa dell’evoluzione umana e della vita sulla Terra, possano assumere le forme di un film di supereroi, per quanto “autoriale” (la regista è la stessa di Nomadland, altro titolo programmatico sul ridefinire la nostra relazione mutata con la percezione della natura là fuori) e psichedelico-misticheggiante.
E che per forza di cose non può che avere uno snodo centrale, spaziotemporale, in Amazzonia, cuore malato del mondo. Quanta ricaduta reale hanno questi organismi audiovisivi complessi sulle pratiche che mettiamo in atto fuori dagli schermi per assicurarci un futuro? Per chiunque abbia sbloccato il trofeo “Reached the Daunt” all’interno del videogame Horizon Forbidden West uscito a inizio anno, un albero è stato piantato negli Stati Uniti, in foreste del Wisconsin, Florida e California. Bisognerà farsene una ragione, la maniera in cui ci comportiamo negli universi virtuali ha intenzione di influenzare sempre di più quella in cui viviamo in questa dimensione dell’esistente.
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