Il 2023 si è da poco concluso lasciandosi alle spalle il triste primato di anno più caldo nell’ultimo secolo e mezzo. Come annunciato dal Copernicus Climate Change Service nel rapporto Global Climate Highlights 2023, l’anno scorso la temperatura media globale è stata di 14,98 gradi Celsius e ha registrato un aumento di 1,48°C rispetto al livello pre-industriale, cioè quello compreso tra il 1850 e il 1900.
Una crescita molto vicina al limite di 1,5°C indicato dagli scienziati come soglia di sicurezza da non superare e rispetto alla quale le nazioni avevano dichiarato il proprio impegno a fermare il riscaldamento globale in occasione degli Accordi di Parigi del 2015.
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La crisi climatica accelera
Le previsioni della comunità scientifica, tuttavia, lanciano un nuovo allarme per il 2024: il Met Office britannico, uno degli istituti meteorologici nazionali di riferimento per i dati globali della World Meteorological Organization (WMO), prevede che quest’anno l’aumento della temperatura globale potrebbe superare temporaneamente la soglia dell’1,5°C, attestandosi in un range compreso tra 1,34 e 1,58° C in più rispetto alla media del periodo pre-industriale.
Se da una parte si registra l’atteggiamento cauto degli scienziati del clima nel fare previsioni certe sugli scenari dei prossimi mesi, non vi sono dubbi su quelle che sono state le conseguenze di ondate di calore, tempeste, alluvioni e altri eventi estremi che hanno colpito negli ultimi anni il nostro Paese e diverse aree del mondo.
Il sesto rapporto dell’IPCC (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) ha, infatti, sottolineato come i cambiamenti climatici stiano già influenzando molti eventi meteorologici e climatici estremi. Dal 1950 ad oggi nella maggior parte delle terre emerse, gli estremi di temperature calde, incluse le ondate di calore, sono diventati più frequenti e più intensi; al contempo, la frequenza e l’intensità delle precipitazioni sono aumentate. Tutto ciò in conseguenza del surriscaldamento globale causato dall’attività umana, in particolare dalle emissioni di gas climalteranti, la cui concentrazione in atmosfera non accenna a diminuire: nel 2023 le emissioni di CO2 e metano hanno continuato a crescere, registrando – come si vede nelle figure 1 e 2 – nuovi livelli record, rispettivamente 419ppm (parti per milione) e 1902 ppb (parti per miliardo).
Figura 1 – Fonte: Global Climate Highlights 2023 (C3S)
Figura 2 – Fonte: Global Climate Highlights 2023 (C3S)
Un fenomeno dalle molteplici implicazioni
Tuttavia la crisi climatica è un fenomeno estremamente complesso, che non può essere raccontato solo dal punto di vista scientifico. I suoi effetti si manifestano a molteplici livelli connessi tra loro: ambientale, con l’alterazione degli ecosistemi naturali e la conseguente perdita di biodiversità; economico, con danni fisici alle infrastrutture e perdite economiche in diversi settori produttivi (come agricoltura, pesca e turismo); sociale e politico, laddove le minacce alla sicurezza alimentare, la povertà, le crescenti disuguaglianze economiche e i flussi migratori contribuiscono ad accrescere le tensioni sociali, aumentando il rischio di instabilità e di conflitto.
La dimensione umanitaria è, quindi, una lente indispensabile attraverso la quale osservare il fenomeno dei cambiamenti climatici. Stando all’ultimo rapporto annuale sugli sfollati interni, il Global Report on Internal Displacement (GRID 2023) pubblicato dall’Internal Displacement Monitoring Center (IDMC) e dal Norwegian Refugee Council, il 2022 ha fatto registrare un nuovo record di sfollati interni a livello planetario: 71,1 milioni di persone, di cui il 45% (32,6 milioni) è stato costretto ad abbandonare la propria casa a causa dei disastri naturali legati alla crisi climatica.
Sempre i dati pubblicati dall’IDMC mostrano come dal 2008 al 2022 gli eventi estremi siano aumentati del 92% (2312 casi registrati nel 2022 rispetto ai 184 del 2008), con una crescita pressoché costante che riflette l’andamento crescente del riscaldamento globale e che mette in luce come la migrazione indotta dalla crisi climatica sia già in corso. Nella figura 3 abbiamo affiancato l’andamento degli eventi estremi registrati dal 2008 e quello degli sfollati interni per ragioni legate al climate change: è interessante vedere che negli ultimi anni le due curve seguono andamenti pressoché sovrapponibili.
Figura 3 – Timeline Internal displacements – Disastri naturali (Fonte IDMC)
Allo stesso modo, risulta significativo mettere a confronto l’evoluzione temporale dei disastri causati dai cambiamenti climatici con la variazione della temperatura media globale dal 1880 ai giorni nostri (figura 4): il progressivo aumento del surriscaldamento globale, con picchi sempre maggiori negli ultimi due decenni (figura 5), sembra confermare quanto dimostrato dalla comunità scientifica internazionale in merito alla stretta connessione tra cambiamenti climatici e fenomeni metereologici estremi.
Figura 4 – Variazioni della temperatura media globale. Fonte: NOAA Climate.gov
Figura 5 – Focus 2008-2023 variazioni della temperatura media globale. Fonte: NOAA Climate.gov
I Paesi più esposti agli effetti della crisi climatica
La geografia degli eventi estremi, tuttavia, non risponde a un principio di equità: alcune aree del mondo subiscono più di altre gli effetti della crisi climatica. L’analisi dell’andamento temporale dei disastri naturali rileva, infatti, una significativa ricorsività: Cina, Stati Uniti, India, Indonesia, Filippine, Vietnam, Giappone, Messico, Pakistan e Afghanistan sono i Paesi nei quali, dal 2000, si è registrato il maggior numero di eventi climatici estremi (secondo i dati dell’International Disaster Database, EM-DAT).
Figura 6 – Timeline totale dei disastri naturali per singolo Paese. Fonte EM-DAT
Figura 7 – Timeline totale dei disastri naturali per singolo Paese, focus sui dieci più colpiti. Fonte EM-DAT
Il confronto tra le informazioni sui disastri naturali e i dati degli sfollati interni consente di acquisire ulteriori elementi utili a ricostruire il quadro generale di un fenomeno alquanto articolato.
Da un lato, la presenza di alcuni Paesi già identificati come principale bersaglio degli effetti dei cambiamenti climatici (Cina, Filippine, India, Pakistan, Stati Uniti e Indonesia), conferma la stretta correlazione tra gli impatti negativi della crisi climatica e i relativi danni alle comunità colpite. Dall’altro lato, nelle prime dieci posizioni della classifica sugli sfollati interni si trovano anche nuovi Paesi (come Nigeria, Bangladesh, Cuba e Myanmar), particolarmente gravati dalle conseguenze degli eventi climatici estremi, anche se ne subiscono in numero minore rispetto ai precedenti.
Figura 8 – Timeline totale sfollati interni per singolo Paese. Fonte IDMC
Figura 9 – Timeline totale sfollati interni per singolo Paese, focus sui primi dieci. Fonte IDMC
Un moltiplicatore di disuguaglianze
La crisi climatica rischia, quindi, di essere un moltiplicatore di disuguaglianze: gli effetti del riscaldamento globale colpiscono in modo sproporzionato i Paesi più poveri e gli strati più vulnerabili della popolazione, rischiando di accentuare il divario esistente tra parti del mondo capaci di fronteggiare le sfide poste dai cambiamenti climatici e parti, invece, sprovviste degli strumenti e delle risorse necessarie per resistere.
Il sesto rapporto dell’IPCC, infatti, riporta che tra i 3,3 e i 3,6 miliardi di persone vivono in contesti altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici e che le regioni con maggiori ostacoli allo sviluppo sono anche le più fragili ed esposte ai rischi climatici. A questo proposito, i ricercatori della Notre Dame Global Adaptation Iniziative (ND-GAIN, istituto che sostiene i decisori politici analizzando i dati e individuando politiche di adattamento efficaci) hanno calcolato che le persone che vivono nei Paesi meno sviluppati hanno dieci volte più possibilità ogni anno di essere colpite da un disastro climatico rispetto a quelle dei Paesi ricchi.
Figura 10 – ND-GAIN Matrix
Guardando nello specifico all’indice di vulnerabilità elaborato dal programma dell’università francese, si osserva come i Paesi delle regioni più povere del mondo – principalmente situate nel continente africano e in quello asiatico – occupino le prime posizioni della classifica, registrando i tassi più elevati di rischio e, contemporaneamente, si posizionino al fondo del ranking per quanto riguarda la capacità di sfruttare le risorse e convertirle in azioni di adattamento (Readiness index).
Figura 11 – Confronto tra vulnerabilità e preparazione dei singoli Paesi di fronte ai cambiamenti climatici
Hotspot climatici
Accanto ai fattori politici, economici e sociali che concorrono a definire il grado di vulnerabilità di un Paese vi sono fattori strettamente legati alla fisica del clima. Gli scienziati parlano a questo proposito di “hotspot climatici” in riferimento a quelle «regioni che mostrano le maggiori variazioni in molteplici statistiche (media, variabilità ed estremi) delle variabili climatiche», ovvero punti caldi del pianeta in cui gli effetti dei cambiamenti climatici risultano più intensi.
In particolare, l’Asia centrale e meridionale, le regioni del Sahel e dell’Africa tropicale occidentale, alcune aree dell’America centrale (tra cui l’Amazzonia), l’Indonesia e il Mediterraneo sono aree che registrano forti variazioni di temperatura – con un aumento dei valori e della durata dei picchi di calore – e rilevanti mutamenti nelle precipitazioni – sia in termini di frequenza che di intensità.
L’aggravarsi delle condizioni climatiche trasforma progressivamente alcune zone del mondo in aree inadatte alla vita, costringendo milioni di persone alla fuga. Secondo il rapporto Groundswell della World Bank (2021), entro il 2050 almeno 216 milioni di persone saranno costrette a migrare a causa delle conseguenze del cambiamento climatico. Il numero più alto riguarderà l’Africa sub-sahariana: 86 milioni di persone, pari al 4,2% della popolazione totale; 49 milioni in Asia orientale e nell’area del Pacifico, 40 milioni in Asia meridionale; 19 milioni nell’Africa settentrionale e 17 milioni in America Latina.
In base ai dati pubblicati dal Dipartimento degli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite (UN DESA), l’Asia è il continente che ha registrato il maggior numero di partenze tra il 1990 e il 2020 (figura 12). Il 40% dei primi 30 Paesi per emigrazioni si trova, infatti, nel continente asiatico (figura 13).
Figura 12 – Volume del flusso di emigrazioni nei singoli continenti. Fonte ONU
Figura 13 – Classifica dei primi 30 Paesi per volume di emigrazioni
Migrazione come unica strategia di adattamento
Le proiezioni della Banca Mondiale confermano il ruolo centrale dell’Asia, ma prefigurano al contempo alcune variazioni rispetto ai trend registrati nei decenni passati, con un significativo aumento dei flussi migratori in partenza dai Paesi africani.
Per comprendere il complesso rapporto tra cambiamenti climatici e migrazioni, infatti, non è possibile soffermarsi solo sugli eventi estremi improvvisi (come inondazioni, tempeste e uragani), ma è utile guardare anche agli effetti dei cambiamenti a lenta insorgenza: siccità, degrado dei suoli, innalzamento del livello del mare e aumento graduale delle temperature interagiscono con altri fattori economici, politici e sociali, mettendo a rischio la sopravvivenza delle popolazioni di intere aree. Come sottolineato da diversi studi, questo tipo di cambiamenti può rendere più gravi le ripercussioni dei disastri improvvisi o innescare risposte volontarie ed economicamente motivate, che portano gli individui ad affrontare spostamenti anche sulle lunghe distanze.
In generale, i dati e le analisi degli esperti sottolineano la necessità che la società contemporanea porti la questione migratoria al centro del dibattito pubblico, non solo affrontando il problema come è stato fatto finora, ma anche leggendo la migrazione come strumento di risposta alla crisi climatica, ovvero come strategia di adattamento proattiva o come spostamento forzato di fronte a rischi mortali legati al cambiamento del territorio e alla mancanza di risorse.
I Paesi maggiormente interessati dai flussi migratori sono anche quelli meno preparati ad affrontare gli effetti della crisi climatica: spesso in queste aree le calamità naturali amplificano situazioni già critiche a causa di conflitti armati o di condizioni di forte povertà, aumentando la vulnerabilità delle popolazioni e riducendo fortemente le capacità di intraprendere azioni di mitigazione e adattamento da parte delle istituzioni. Di fronte alla mancanza di politiche attive di sostegno, la migrazione risulta la principale (se non l’unica) strategia di adattamento possibile per le comunità dei Paesi in via di sviluppo.
Un recente studio della Commissione Europea ha dimostrato la stretta correlazione tra il verificarsi di gravi problemi ambientali e la probabilità che le persone colpite pensino di doversi spostare in un futuro prossimo dal luogo in cui abitano per ragioni legate ai cambiamenti climatici. Probabilità che cresce significativamente all’interno del campione dei Paesi sottosviluppati: la necessità di migrare risulta, infatti, quattro volte superiore in questo gruppo rispetto alle aree economicamente più sviluppate del mondo.
Le specificità dei singoli contesti giocano, dunque, un ruolo chiave nel complesso meccanismo che influenza il modo in cui i cambiamenti climatici impattano sulle diverse aree del Pianeta. La crisi climatica colpisce tutti, ma non tutti allo stesso modo. Ecco perché è fondamentale agire anzitutto coinvolgendo i più vulnerabili, cercando di mettere in atto una transizione giusta che, accanto alle azioni per il clima, accolga anche misure volte a ridurre le disuguaglianze socio-economiche esistenti.
Le migrazioni climatiche in cifre
- 8,7 milioni le persone sfollate nel 2022 a livello globale a causa di disastri legati alla crisi climatica, il 45% in più rispetto al 2021
(Fonte: Global Report on Internal Displacement 2023 pubblicato dall’IDMC, https://www.internal-displacement.org/global-report/grid2023/).
- Il 98% degli sfollamenti interni per disastri naturali registrati nel 2022 è stato provocato da eventi estremi come inondazioni, tempeste e siccità
(Fonte: Global Report on Internal Displacement 2023 pubblicato dall’IDMC, https://www.internal-displacement.org/global-report/grid2023/).
- 7,4 milioni gli sfollamenti interni nell’Africa sub-sahariana nel 2022, contro i 2,6 milioni del 2021. La regione ha affrontato un periodo di prolungata siccità, con cinque stagioni di piogge inferiori alla media, che hanno provocato 2,1 milioni di sfollati in Somalia, Etiopia e Kenya
(Fonte: Global Report on Internal Displacement 2023 pubblicato dall’IDMC, https://www.internal-displacement.org/global-report/grid2023/).
- In Somalia il 55% degli sfollamenti interni registrati tra il 2022 e la prima metà del 2023 è dovuto ad eventi climatici estremi, principalmente inondazioni e siccità
(Fonte: https://story.internal-displacement.org/2023-mid-year-update/)
- 12,5 milioni gli spostamenti forzati nel 2022 in Asia meridionale, il doppio rispetto alla media annuale dell’ultimo decennio. Il 25% di questi sfollamenti è causato dalle inondazioni che hanno colpito il Pakistan
(Fonte: Global Report on Internal Displacement 2023 pubblicato dall’IDMC, https://www.internal-displacement.org/global-report/grid2023/) - In Pakistan 8,2 milioni di persone sono state interessate nel 2022 dalle piogge intense, che hanno inondato un’area di 85.000 km2, equivalente al 10% del territorio nazionale.
(Fonte: UNICEF Pakistan Humanitarian Situation Report No. 3 (Floods) 20 September 2022). - 30 miliardi di dollari circa: l’ammontare dei danni e delle perdite economiche stimate a seguito delle piogge intende registrate in Pakistan nel 2022.
(Fonte: World Bank, https://www.worldbank.org/en/news/press-release/2022/10/28/pakistan-flood-damages-and-economic-losses-over-usd-30-billion-and-reconstruction-needs-over-usd-16-billion-new-assessme). - Tra il 2010 e il 2020 la mortalità umana dovuta a inondazioni, siccità e tempeste è stata 15 volte superiore nelle regioni altamente vulnerabili rispetto alle regioni con vulnerabilità molto bassa
(Fonte: IPCC Synthesis Report: Climate Change 2023, https://www.ipcc.ch/report/sixth-assessment-report-cycle/). - Circa 900 milioni di persone che vivono nelle aree costiere di tutto il mondo subiranno gli effetti dell’innalzamento del livello del mare, che crea un rischio inondazione in molte grandi città, come Los Angeles, New York, Buenos Aires e Lagos.
(Fonte: WMO, https://ane4bf-datap1.s3-eu-west-1.amazonaws.com/wmocms/s3fs-public/ckeditor/files/WMO_Global_Sea_Level_Rise_Fact_sheet_15_Feb_Final_1.pdf?.0vuuTU1EiltzLVOcC0XA7cKV.huY_KW). - 190 milioni di persone circa (pari al 2,4% della popolazione mondiale) potrebbero essere costrette a migrare entro il 2100 a causa dell’innalzamento del livello del mare, in caso di aumento della temperatura media globale di 4°C
(Fonte: “Sea-level rise and its possible impacts given a ‘beyond 4°C world’ in the twenty-first century”, R.J. Nicholls et al. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/21115518/). - 15 milioni di cittadini americani saranno esposti a rischio inondazioni nei prossimi 30 anni. In questo periodo si prevede che il livello del mare lungo la costa degli Stati Uniti aumenterà, in media, di 0,25 – 0,30 metri, l’equivalente dell’innalzamento misurato negli ultimi 100 anni (1920 – 2020).
(Fonte: NOAA Sea Level Rise Technical Report 2022, https://oceanservice.noaa.gov/hazards/sealevelrise/sealevelrise-tech-report.html).
Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente.
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