Anche se ci si pensa poco, esistono già delle buone pratiche per superare la nostra insostenibile vita collettiva fatta di super produzione e super consumo, e quindi inevitabilmente intossicata da una montagna di rifiuti. Sono pratiche diffuse un po’ ovunque, ormai, che rendono concreta la trasformazione della società consumista. Ancor più preziose davanti ad un pianeta straboccante di plastica, veleni e oggetti non riciclabili, e ad un’economia costitutivamente inquinante che ne è la principale responsabile.
Sono pratiche prima di tutto culturali, a tutto tondo, e non mere attività economiche. Ci permettono di ripensare la nostra società da una prospettiva in cui i valori, il senso, la logica e i sentimenti del vivere in comune sono diametralmente opposti a quelli che oggi sostengono l’attuale società capitalista. Una costellazione di relazioni, principi, regole, affettività e scambi in cui prende forma una nuova socialità che sta tessendo un rapporto ecologico con la nostra casa comune, a partire da noi stessi. Dove la circolarità non è solo al centro del processo economico, ma un paradigma generale che traccia i confini di una vera e propria “ecologia umana”.
Gli ecovilaggi
Gli ecovillaggi sono di certo un esempio lampante di come poter armonizzare tutte queste pratiche in un unico centro che sposi una visione della società dove imparare a sentirsi parte del pianeta, sviluppando tutta la gamma plurale di buone azioni che rispettino il nostro ecosistema, e quindi anche la nostra umanità. In un mondo dove la mercificazione copre tutto lo spettro del vivente (umano e non), attività mutualistiche, partecipative, orizzontali e circolari, nei diversi ambiti del lavoro e delle relazioni interpersonali, sono un modo per iniziare una silenziosa rivoluzione culturale. Sono spazi estremamente incisivi quando riescono a svilupparsi e radicarsi nei territori in cui si trovano. In Italia ne esistono più o meno quaranta che ruotano attorno alla Rive, una Rete nazionale che da 26 anni si riunisce annualmente affinché si condividano esperienze, nascano cooperazioni e orientamenti comuni che possano ispirare il resto della società. Ognuna di queste vere e proprie “comunità resilienti” ha un suo specifico modo di organizzarsi, di condividere principi, pratiche e valori, o di vivere il potere collettivo e la libertà individuale. Ciò che le unisce è la chiara intenzione di ricreare forme autonome e nonviolente di vita comunitaria rispettose dell’ecosistema, per farne degli strumenti collettivi efficaci per affrontare i problemi che la crisi planetaria, ecologica e umana, ci pone davanti tutti i giorni.

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Una realtà mondiale
Il movimento degli ecovillaggi non è ovviamente solo italiano, ma ormai una realtà mondiale. Se ci soffermiamo sulla vecchia Europa, sembra che sia la Francia ad essere uno dei luoghi più interessanti di questa sperimentazione. Danièle Charrier, una delle fondatrici dell’eco-villaggio di Sainte Camelle, spiega così l’importanza di queste comunità aperte: “L’eco-villaggio è molto importante per moltissimi motivi. Prima di tutto per trovare insieme delle soluzioni ai problemi collettivi del nostro presente. Lo fa grazie a dei processi di riflessione comune in cui si genera e si condivide l’intelligenza collettiva. La stessa intelligenza che ci vuole per sviluppare l’economia circolare, tanto preziosa per cambiare il nostro modo di vivere. Inoltre si ricreano dei legami solidali con tutti coloro che vi partecipano, e poi tra gli ecovillaggi, e infine anche tra questi e la società nel suo insieme”. In effetti a Sainte Camelle si ricicla tutto quello che si può, ed esiste un sistema per usare l’acqua della pioggia in molteplici attività quotidiane (dall’irrigazione all’igiene). Inoltre, negli ultimi anni è stato sviluppato un sistema di salario minimo ed egualitario, di mille euro al mese, di cui usufruiscono nove dei suoi dodici abitanti. Inizialmente nato per permettere loro di lavorare sul posto, ed evitare così l’uso della macchina, oggi consente loro di non dipendere dall’assistenza pubblica (i sussidi che lo Stato elargisce ai disoccupati). Per guadagnare questo salario egualitario (un’ora di lavoro vale lo stesso per tutti i lavori e per tutte le persone), ogni abitante deve rendere 8 ore alla settimana alla comunità. Ossia un giorno di lavoro pieno, su sette.
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Il Progetto Tera
“Noi siamo l’economia, bisogna cambiare logica. Quella finanziaria, per noi, è l’economia alternativa” afferma Frédéric Bosqué quando gli viene chiesto di rendere conto dell’importante Progetto Tera, di cui è uno dei principali fondatori. Seguendo i principi del municipalismo federalista, e del centenario filosofo Edgar Morin (che nel 2020 è diventato padrino del progetto), grazie a questo progetto francese un territorio di 30 chilometri vicino Villeneuve-sur-Lot, tra Bordeaux e Toulouse, si è dotato di una moneta locale, la “abeille”, per sostenere un processo virtuoso che difende la molteplice dimensione dell’autonomia dei suoi abitanti. “TERA“, infatti, è un acrostico che significa letteralmente: “Tutti Insieme verso un Reddito d’Autonomia”.

Come fece Gandhi nel secolo scorso, quando aiutò a rigenerare l’economia locale contro l’economia colonialista inglese, permettendo ai piccoli villaggi indiani di produrre l’essenziale per la vita, il progetto Tera si muove con lo stesso obiettivo di democratizzare l’economia, per fare entrare la politica nella produzione e liberarsi progressivamente dalla dipendenza dell’economia finanziaria. Grazie anche ad una legge nazionale che nel 2014 ha istituito la moneta locale come mezzo legale di pagamento, e alla provincia che ospita il progetto, parte del Consiglio di amministrazione a cui partecipa chi lavora nel territorio, si sta creando un salario di base incondizionato di cento cinquanta euro/abeille per i venticinque lavoratori che portano avanti la produzione locale (il nucleo centrale del Consiglio di amministrazione).
“Ci organizziamo grazie al metodo del consenso e ad alcune indicazioni di Fredrick Laloux (su come reinventare forme organizzative orizzontali e circolari, ndr.)” spiega ancora Bosqué. “Siamo divisi in cerchi di lavoro, ognuno dei quali è autonomo. Poi c’è un Consiglio di sistema, dove si incontrano tutti i cerchi per discutere e organizzare il lavoro comune, quello in cui c’è un coinvolgimento trasversale delle attività. Con Tera e il reddito di base vogliamo progressivamente estendere a tutti la possibilità di avere un’economia che dipenda dal valore aggiunto sociale ed ecologico, e non da quello strettamente remunerativo. Siamo nati come ecovillaggio, ma poi ci siamo resi conto che siamo diventati un vero e proprio ecosistema, che vive a pieno una fase di transizione umana ed ecologica, grazie alla nostra economia e alla moneta locale. È come se votassimo ogni giorno. Come se la scheda elettorale fosse la nostra moneta. Un’economia democratica, solidale e cooperativa”.

Il Progetto Tera, in altre parole, ha trasformato gli ecovillaggi da punti di arrivo in punti di partenza per la costruzione di una nuova economia ecologica generale. Perché per ripopolare la terra e generare una nuova umanità responsabile, c’è bisogno di un’economia all’altezza dei bisogni di umanità, nonviolenza, autonomia, frugalità e benessere psico-sociale, che parta dalla comunità e dal micro e arrivi ad abbracciare la nostra casa comune, la Terra. Da Tera alla Terra, il cammino è lungo. Ma la direzione è chiara, e qualcuno lo sta già percorrendo.
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