La domanda di data center non sembra diminuire: con l’esplosione dei servizi di cloud computing e di IA generativa, queste infrastrutture attraggono investimenti in tutto il mondo. Gli Stati Uniti sono leader del mercato, con più di 5000 strutture sul loro territorio. A confronto l’Europa arranca con circa 1200 data center. Tra i paesi europei l’Italia gioca un ruolo non indifferente: seppur meno numerosi dei circa 300 di Francia e Paesi Bassi e dei circa 500 della Germania, i data center italiani a marzo 2024 erano 168, molti dei quali nell’hub milanese.
La concentrazione lombarda nel corso del 2025 verrà bilanciata da Roma: la società Aruba inaugurerà il Data Center Campus potenziando il tecnopolo tiburtino. L’Osservatorio Data Center del Politecnico di Milano riporta che altre 22 organizzazioni hanno annunciato l’apertura di 83 nuove infrastrutture nel periodo 2023-2025, la cui attivazione potrà portare sul territorio, potenzialmente, fino a 15 miliardi di euro di investimento complessivo. Allargando di nuovo la prospettiva, una stima prodotta da McKinsey sulla base dell’analisi dei trend di consumo, quantifica cosa dobbiamo aspettarci al livello mondiale: negli anni fino al 2030 la domanda globale di capacità dai data center potrebbe aumentare ad un tasso tra il 19 e il 22% annuo per raggiungere una domanda annua tra i 171 e i 219 gigawatt (GW).
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Cosa sono i data center e come sono cambiati
I data center sono gli edifici simbolo della Rivoluzione industriale che stiamo attraversando. Equivalgono a ciò che erano alla fine del Settecento le ciminiere delle fabbriche apparse sempre più fitte nelle campagne attorno alle città. La differenza è che sono molto meno vistosi: da fuori, sembrano semplici palazzi per uffici, di quelli moderni, con facciate in vetro lucide e un po’ intimidatorie. All’interno, invece, custodiscono quei server che fanno da snodo critico per la colossale infrastruttura materiale su cui si regge la nostra attività digitale, per quanto sembri eterea e intangibile.

Quando mandiamo un messaggio a un amico, ordiniamo una pizza, prenotiamo un viaggio, la nostra interfaccia non comunica direttamente con quella dello smartphone destinatario, di Just Eat o di Ryanair. Serve un luogo di passaggio, stoccaggio, trattamento e analisi dell’informazione. Per molto tempo le imprese hanno immagazzinato i loro dati in locali tecnici esiliati in uno sgabuzzino. Ma la quantità di dati è cresciuta esponenzialmente. Giganti come Google, Facebook, Apple si costruiscono i propri data center, ma per motivi di costi un numero crescente di imprese preferisce affidare la gestione dei propri server a gruppi specializzati come Equinix, Interxion, EdgeConneX, CyrusOne, Alibaba Cloud, Amazon Web Service.
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Sostenibilità dei data center, RAEE e intelligenza artificiale
Un’espansione di questa portata pone alcuni problemi di sostenibilità ambientale, dovuti alle caratteristiche dei data center. I carichi di lavoro ad alta intensità di dati implicano un consumo energetico molto elevato; i sistemi che evitano il surriscaldamento dei server utilizzano spesso il raffreddamento per evaporazione, che consuma decine di migliaia di litri d’acqua al giorno; gli edifici più grandi occupano ampie superfici di suolo, per ottenere le quali può essere necessario disboscare il terreno cancellando la biodiversità.
E poi c’è il grande tema della produzione di RAEE. Secondo il Global E-Waste Monitor delle Nazioni Unite, nel 2022 sono stati generati 62 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici – l’82% in più rispetto al 2010. Si prevede che entro il 2030 questa cifra aumenterà di un altro 32%, il che significa che la produzione di RAEE sarà duplicata in meno di vent’anni. Inoltre solo il 22% dei rifiuti elettronici mondiali è stato documentato come correttamente raccolto o riciclato. Il resto viene spesso gettato nelle discariche, scaricato nell’ambiente dove contribuisce all’inquinamento di superficie da sostanze tossiche, o spedito nei paesi in via di sviluppo. Infatti, nonostante la Convenzione di Basilea, che regola il movimento dei rifiuti tossici, si stima che circa 3,3 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici vengono spediti ogni anno senza un’adeguata supervisione. Gran parte di essi fluisce dalle nazioni ad alto reddito verso i Paesi a basso reddito, dove spesso la tutela dell’ambiente e della salute è carente.
I data center contribuiscono alla sovrabbondanza di RAEE: a causa del ritmo dell’innovazione nel settore, molti data center eliminano i server e le componenti informatiche hardware per sostituirle in media ogni 3-5 anni, solo in quanto ormai obsolete, ma senza che siano fuori uso. La rilevanza del problema cresce se consideriamo i materiali presenti nella componentistica rimossa: ad esempio RAM, CPU, driver e schede madri contengono oro, argento, palladio. Le schede drive contengono anche terre rare come disprosio, neodimio e ittrio, e altre componenti elettroniche sono ricche di materie prime critiche quali gallio, indio e tungsteno. Destinare questi materiali allo smaltimento ad ogni sostituzione di hardware, senza implementare strategie circolari di riuso e riciclo, è una grossa perdita in valore economico e un danno ambientale con ramificazioni lunghe e fitte.
L’IA generativa potrebbe incrementare questa pratica. Le applicazioni e i servizi che offre devono essere sottoposti a una fase di “formazione”: questo è un processo temporaneo e relativamente breve; una volta completato e messa in funzione l’IA, i server utilizzati non potranno essere “riqualificati” per altre funzioni, e dunque dovranno essere rimpiazzati. Un recente studio pubblicato su Nature stima che la sola IA generativa potrebbe produrre da 1,2 a 5 milioni di tonnellate di RAEE all’anno fino al 2030.
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Le soluzioni esistono già: pratiche virtuose per le aziende
Dal punto di vista dell’impatto ambientale, sono due i problemi principali: il primo è il consumo eccessivo di materie prime a causa della frequente sostituzione dell’hardware, il secondo lo smaltimento inadeguato.

La soluzione al primo problema risiede in un approccio sostenibile al ciclo di vita delle componenti e nell’implementazione di strategie di durability design, di riuso e di riciclo. Le componenti dovrebbero essere progettate per non essere sostituite a ritmi così intensi, e perdurare più a lungo possibile. In secondo luogo, quando le componenti non possono più assolvere ai loro compiti, il design dovrebbe prevedere il riutilizzo mediante la riqualificazione ad altre funzioni secondarie. Quando le parti non possono più essere riutilizzate, il design dovrebbe prevedere il riciclo dei materiali, il cui costo ambientale è una frazione di quello della produzione da materie vergini.
Secondo uno studio condotto da SuperMicro, una delle maggiori aziende americane di prodotti informatici, nel 2021 solo il 28% delle aziende al mondo riutilizzava il proprio hardware internamente. Ma il metodo sembra acquisire nuova popolarità, dopo che è stato adottato anche da Microsoft e Google: Microsoft mira a riutilizzare il 90% del suo hardware da cloud computing nel 2025, e per farlo l’azienda ha lanciato tre Circular Centers per la lavorazione delle componenti. Già nel 2022 Google aveva annunciato che 7 dei suoi 23 data center avevano raggiunto l’obiettivo zero-waste. In quest’ottica, il secondo problema di sostenibilità, cioè lo smaltimento, viene ridotto ad un worst-case scenario.
Le soluzioni a questo secondo problema dipendono dalla responsabilità degli operatori dei data center nello scegliere le aziende partner specializzate nello smaltimento dei rifiuti. Dovrebbero essere preferite quelle che adottano una politica di “zero waste to landfill”: ovvero, una volta cancellati tutti i dati dai server alla fine del loro ciclo di vita, si mira a evitare del tutto la discarica e massimizzare il riciclo. Sono da considerare più virtuose anche le aziende di gestione dei rifiuti che offrono un servizio locale e non spediscono rifiuti all’estero, una pratica che genera livelli elevati di emissioni, e può anche portare allo smaltimento dei materiali. Una scelta facilitata dall’Unione Europea, con i due regolamenti 2024/3229 e 2024/3230, entrati in vigore da gennaio 2025, i quali stabiliscono che tutte le spedizioni di RAEE all’interno dell’UE e dell’OCSE saranno soggette a una procedura di notifica e autorizzazione preventiva scritta, mentre le esportazioni verso Paesi non OCSE saranno vietate.
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Ostacoli economici e ingegneristici
Se le multinazionali hanno le risorse per implementare alcune strategie di riuso e riciclo, la situazione è diversa per le piccole e medie imprese. In più queste strategie hanno alcuni limiti ingegneristici strutturali. Marco Bettiol, professore di Economia e Gestione delle Imprese all’Università di Padova, si è occupato di studiare gli impatti dei data center e le difficoltà che si incontrano nei tentativi di ridurli, conducendo uno studio di LCA sul data center dell’Università di Padova. Ha anche scritto di questi temi per ISPI e Agenzia Digitale.
«Per quanto riguarda il riciclo, c’è un problema di filiera», nota Bettiol. «Gli operatori di data center comprano gli hardware da produttori sul mercato; la componentistica proviene da una filiera iper-specializzata nel Sud-Est asiatico – soprattutto Taiwan. Questa filiera non progetta ancora in modo da rendere conveniente il riciclo. Il design for disassembly è un concetto che non è ancora passato nel modo di concepire la value chain». Altro punto debole della filiera è la trasparenza, come sottolinea Bettiol: «Al momento i produttori di hardware non dichiarano in modo preciso le componenti di base dei loro prodotti. Non ci sono molti dati sulla produzione di chip, sui materiali usati, si fanno molte assunzioni. In questo modo diventa anche difficile poter calcolare con esattezza l’impatto ambientale di questi prodotti. I produttori sostengono che non possono rendere noti questi dati per preservare il vantaggio competitivo ed evitare di essere copiati dai concorrenti. Forse bisognerebbe consentire ai produttori di tenere nascoste le caratteristiche strutturali per un periodo di tempo, ad esempio due anni, per poi renderle pubbliche in modo da facilitare le operazioni di riciclo e riuso».
Anche il riuso, nel caso dell’hardware utilizzato nei data center, non è così semplice. «Destinare a utilizzi diversi i server dei data center è più complicato di quello che può sembrare», nota Bettiol. «Sono progettati per usi particolari e industriali, dunque richiedono un certo lavoro di adattamento per poter essere usati in altri contesti, come nelle scuole. L’hardware per l’IA enfatizza questo punto debole dell’industria: ad esempio i chip per l’IA sono altamente specializzati, costano molto, oltre i 5000 euro, e hanno consumi energetici che non rendono facile un loro altro impiego».
«Se vogliamo provare a risolvere questo problema », conclude Bettiol, «è necessaria una maggiore collaborazione di filiera tra i produttori di hardware e gli operatori dei data center. L’intento è aiutare tutti gli agenti economici a lavorare nella giusta direzione della sostenibilità. Bisogna informarli e renderli consapevoli come è stato fatto per il tema dell’energia, e iniziare a ragionare su più punti della filiera. Non è una strada semplice, ci sono dei limiti tecnici ma è anche vero che se questo tema non diventa una priorità per le aziende del settore diventa complicato trovare una soluzione».
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Scontro tra transizioni
Il tema della produzione di RAEE non sembra ancora penetrato a fondo tra chi si occupa di normare la transizione digitale per renderla sostenibile, almeno in Italia. In una recente intervista di Energia Italia News all’Onorevole Enrico Cappelletti, membro della Commissione Industria alla Camera dei Deputati, si parla dell’opportunità di una legge quadro per i consumi dei data center, ma i RAEE non vengono mai citati come fattore dell’impatto ambientale.
Anche nelle linee guida per la valutazione ambientale dei data center stilate dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, e adottate con il Decreto n. 257 del 02/08/2024, il ciclo di vita delle componenti hardware viene trascurato, mentre viene data rilevanza alla costruzione dell’infrastruttura e al suo approvvigionamento energetico. L’assenza del tema dalle istanze normative segnala uno scarto rispetto all’Europa: l’UE già nel 2019 promulgava un primo regolamento che disciplina i «servers and data storage product […] typically placed on the market for use in data centres», e prevede una serie di obblighi da rispettare in fase di progettazione di questi prodotti, con l’obiettivo di favorire l’efficientamento energetico, la riparabilità dei prodotti in caso di guasto, la scalabilità dei sistemi basati su questi prodotti e le pratiche di economia circolare. È auspicabile che questo fattore meno noto dell’impatto entri tra le preoccupazioni dei legislatori, per seguire la direzione già in parte tracciata dall’Unione.
I data center sono edifici simbolo della Rivoluzione industriale che stiamo attraversando, ma non sono gli unici. Accanto devono esserci pannelli solari, pale eoliche, centrali idroelettriche, geotermiche, a biomassa. La stessa Commissione Europea l’ha riconosciuto nel documento “Strategic Foresight Report 2023”: per raggiungere gli obiettivi strategici UE del 2030 e 2050, avrà un ruolo determinante la duplice transizione, digitale ed ecologica – o la “Twin Transition”, quella blu e verde contemporaneamente, nel gergo pubblicitario che la Commissione si concede. Tuttavia i data center sono un esempio di come le due transizioni, intersecandosi, potrebbero stridere tra loro. Evitarlo richiede sforzi, in termini di investimenti, ma soprattutto istruzione, formazione, conoscenza.
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Questo articolo è uno degli elaborati pratici conclusivi della nona edizione del corso online di giornalismo d’inchiesta ambientale organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com in collaborazione con il Goethe Institut di Roma, il Centro di Giornalismo Permanente e il Constructive Network
AGGIORNAMENTO DEL 30 APRILE 2025
Ad aprile 2025 un dettagliato report dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), intitolato Energy and AI (si può leggere qui) ha aggiornato i dati della “sete di energia” dei data center, mostrando come i data center sono una delle questioni su cui nel prossimo futuro si concentranno le attenzioni politiche.
Riportiamo le valutazioni più interessanti:
“I data center hanno rappresentato circa l’1,5% del consumo mondiale di elettricità nel 2024, o 415 terawattora (TWh). Gli Stati Uniti hanno rappresentato la quota maggiore del consumo globale di elettricità dei data center nel 2024 (45%), seguiti da Cina (25%) e Europa (15%). A livello globale, il consumo di elettricità dei data center è cresciuto di circa il 12% all’anno dal 2017, più di quattro volte più veloce del tasso di consumo totale di elettricità. I data center focalizzati sull’intelligenza artificiale possono assorbire tanta elettricità quanto le fabbriche ad alta intensità di energia come le fonderie di alluminio, ma sono molto più concentrati geograficamente. Quasi la metà della capacità dei data center negli Stati Uniti si trova in cinque cluster regionali (…)
Il consumo di elettricità del data center è destinato a più che raddoppierà a circa 945 TWh entro il 2030. Questo è leggermente superiore al consumo totale di elettricità del Giappone oggi. L’intelligenza artificiale è il motore più importante di questa crescita, insieme alla crescente domanda di altri servizi digitali. Gli Stati Uniti rappresentano di gran lunga la quota maggiore di questo previsto aumento, seguita dalla Cina. Negli Stati Uniti, i data center rappresentano quasi la metà della crescita della domanda di elettricità da qui al 2030. Entro la fine del decennio, il paese è destinato a consumare più elettricità per i data center che per la produzione di alluminio, acciaio, cemento, prodotti chimici e tutti gli altri beni ad alta intensità energetica messi insieme. Le incertezze si allargano ulteriormente dopo il 2030, ma il nostro caso di base vede il consumo globale di elettricità dei data center salire a circa 1 200 TWh entro il 2035″.



