Al centro dell’agenda mediatica e politica ha finalmente fatto breccia il tema della crisi climatica. Questa minaccia di cui siamo sempre più consapevoli si accompagna, purtroppo, a molte altre correlate. Una di queste è la perdita di biodiversità, di cui il nostro sistema alimentare è il principale attore, oltre che il responsabile di un terzo delle emissioni globali di gas serra.
Come produciamo e consumiamo cibo è di grande importanza per la salute della natura e dell’uomo, nonché per le conseguenze sul clima. Questa crescente consapevolezza sta incoraggiando sia il mondo politico che quello produttivo a trasformare e diversificare la nostra dieta.
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Natura sana in corpore sano
“Una dieta varia – spiega Claudia Sorlini, vicepresidente della fondazione Cariplo, già docente e preside della facoltà di agraria dell’Università di Milano, nonché coordinatrice del Comitato Scientifico per EXPO 2015 del Comune di Milano – è una componente fondamentale per la conservazione e la difesa della salute. L’ampio spettro di prodotti naturali garantisce l’apporto di ogni componente, compresi i micronutrienti, importanti nella sintesi degli enzimi. Dunque un’agricoltura ricca di biodiversità è in grado di produrre un’alimentazione che consenta di dispiegare tutte le potenzialità fisiche e intellettive dei cittadini”.
E non è tutto. La varietà, oltre che alla salute, fa bene all’ambiente. “In un contesto molto ricco di biodiversità o di agrobiodiversità – continua Sorlini – la resilienza dei sistemi sia forestali che colturali è più elevata. Per esempio, se un bosco in cui convivono tante specie diverse viene colpito da agenti biologici (fitopatogeni, insetti, parassiti, ecc.), oppure climatici (caldo, siccità, ecc.), è più facile che, tra le tante specie, ci siano quelle che hanno sviluppato resistenza nei confronti delle aggressioni e che riescano a difendere se stesse, una parte delle altre piante e quindi l’insieme dell’ecosistema bosco”.
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Il sistema alimentare, un cane che si morde la coda
Lo stesso vale per l’agricoltura: più si coltivano tante varietà della stessa specie o di specie diverse, più il sistema è resistente. Secondo lo studio della Ellen MacArthur Foundation dedicato all’alimentazione (The big food redisign) oggi solo quattro colture – grano, riso, mais e patate – forniscono quasi il 60% delle calorie consumate a livello globale. Solo poche varietà di ciascuna coltura di base è prodotta su vasta scala e, nel complesso, le varietà di piante e animali domestici si riducono man mano che il sistema alimentare diventa più omogeneizzato.
La conseguenza è una diminuzione della resilienza del sistema alimentare alla minaccia di parassiti, malattie e shock meteorologici estremi aggravati dal cambiamento climatico. Per superare queste sfide i produttori dipendono dall’uso di fertilizzanti sintetici e pesticidi, che contribuiscono a loro volta all’impatto sul clima e sulla biodiversità: un cane che si morde la coda.
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Food design: riprogettare il cibo in tavola
Per contrastare questa tendenza, Ellen MacArthur Foundation suggerisce di affidarsi al “food design”. Come la maggior parte degli oggetti di consumo, infatti, anche quello che arriva in tavola è stato progettato, attraverso decisioni sul sapore, l’aspetto, il valore nutrizionale, e così via. Secondo questo assunto, per favorire un design circolare del cibo, le aziende possono impostare strategie di progettazione volte a favorire la resilienza della natura, selezionando ingredienti diversi, a basso impatto, riciclati e prodotti in modo rigenerativo.
I primi 10 marchi alimentari e della grande distribuzione, secondo Ellen MacArthur Foundation, cambiando le proprie scelte, potrebbero trasformare il 40% dei terreni agricoli nel Regno Unito e nell’Unione europea progettando alimenti più sani per la natura. Sarebbero, dunque, gli stessi attori che attualmente sono parte del problema, a diventare parte della soluzione, grazie alla loro dimensione e influenza.
Si tratta di un approccio “top-down” che potrebbe rivelare qualche rischio, se non accompagnato dalla formazione, consapevolezza e approvazione dei consumatori.
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L’importanza del gusto, la parola ai consumatori
“Qualsiasi modifica delle diete alimentari – spiega Claudia Sorlini – anche se fatta sulla base della difesa della natura e della salute dei consumatori, non può ignorare il gradimento e il gusto delle popolazioni interessate. Nella storia della cooperazione con i Paesi in via di sviluppo – continua Sorlini – abbiamo assistito alla messa a punto di alimenti ricchi di proteine e di nutrienti, proprio per compensare alle carenze alimentari delle diete tradizionali, che sono stati rifiutati dalle popolazioni di questi paesi perché lontani dal loro gusto”.
Non è un caso che chi lavora sul cibo “di domani” spesso prova a ricalcare forma e sapore dei cibi “di ieri”, come succede alle “bistecche” vegetali, che anche se sono fatte di proteine provenienti dai piselli o da sottoprodotti vegetali, sono rosse come la carne di scottona. “Per citare un esperimento riuscito, invece – riprende Sorlini, che vanta varie esperienze nei paesi africani – è la patata dolce al sapore d’arancia introdotta in Uganda, ricca di provitamina A, resiste agli agenti biologici locali e amata dai bambini per il suo colore arancione”.
Prodotti del futuro, si parte dalla colazione
Tra i vari “future products”, può andare alla prova del gusto Climate Crunch, un concept brand, che produce cereali e barrette di cereali da grano e piselli, coltivati insieme con minima lavorazione e ridotti input sintetici. “Questa tecnica – spiega Sorlini – ha la sua origine in diversi paesi in via di sviluppo dove, soprattutto attorno ai villaggi e alle piccole comunità, si usa seminare mescolando insieme diverse sementi di piante alimentari, come i cereali, con le leguminose. Queste ultime creano simbiosi tra le proprie radici e i batteri azotofissatori, capaci di catturare l’azoto dell’aria e fissarlo nel terreno così da essere utilizzato non solo dalle stesse leguminose, ma anche da tutte le piante che crescono vicine”.
Questo stesso meccanismo di fertilizzazione biologica, utilizzato in maniera più funzionale e su vasta scala, consente l’eliminazione o la riduzione dei fertilizzanti azotati di sintesi, con diversi vantaggi. Tra questi: la riduzione delle emissioni di gas climalteranti causate dalla produzione industriale dei fertilizzanti, la riduzione dell’inquinamento di acqua e suolo dovuto al fertilizzante non assorbito dalle piante, la riduzione dei costi di produzione. Allontanandosi dall’agricoltura omogenea, dunque, è possibile favorire una maggiore biodiversità, aumentare il reddito degli agricoltori e ridurre la loro esposizione al rischio.
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La scelta spetta a noi
Gli esperimenti di cibo circolare e sostenibile sono oggi numerosi, dai cereali con i piselli, al latte d’orzo da grano esausto, ai formaggi da noci e latte prodotti in simbiosi, fino alla carne vegetale dagli scarti dell’industria dell’olio. Anche in Italia si trova qualche brand che riutilizza e commercializza gli scarti della propria produzione, come le croste del pane per tramezzini, o che produce gelato con latte di mandorla invece che vaccino. Alcuni ricercatori pensano che per il futuro avremo bisogno, non solo di modificare le attuali produzioni, ma di nuove fonti di nutrimento, come alghe, insetti e microproteine.
Su una cosa Claudia Sorlini ci rassicura: “Il potere del consumatore non è mai stato tanto importante come in questa fase storica nella quale l’attenzione e la presa di coscienza sulla propria alimentazione sta diventando sempre più rigorosa. Le scelte del consumatore influenzano intere filiere, dagli agricoltori ai trasformatori alla grande distribuzione organizzata, perché sono loro che decretano il successo o l’insuccesso di un alimento”. Se il pranzo del futuro è servito, dunque, la parola spetta a noi.
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