Uno studio di qualche anno fa ha preso in esame almeno 114 diverse definizioni di economia circolare (Conceptualizing the circular economy: An analysis of 114 definitions, 2017), a riprova del fatto che si tratta di un “fenomeno” non ancora cristallizzato, un work in progress abbastanza solido nella teoria ma ancora molto acerbo nella pratica. È la difficoltà maggiore che abbiamo incontrato in questi due anni di vita, da quando nell’ottobre del 2020 abbiamo deciso di lanciarci in questa avventura con una testata che, già dal nome, si concentrasse unicamente su una definizione, appunto l’economia circolare, che per noi era ed è soprattutto un cambio di paradigma.
Dai flussi di materia al cambiamento sistemico
Resta inevasa la domanda, allora come oggi: ma concretamente cos’è l’economia circolare? In estrema sintesi ruota intorno ad alcuni concetti-cardine: prevenzione e rigenerazione sono quelli da cui si dipanano tutti gli altri. Secondo la definizione della Ellen MacArthur Foundation si tratta di “un’economia pensata per potersi rigenerare da sola”, in cui i flussi di materiali si reintegrano nella biosfera (flussi biologici) o vengono rivalorizzati senza entrare nella biosfera (flussi tecnici). Insomma, un sistema economico pianificato per riutilizzare i materiali in successivi cicli produttivi, riducendo al massimo gli sprechi.
Questo concetto di circolarità appare ancora troppo ristretto, perché se è vero che mette al centro la rigenerazione, è altrettanto vero che insiste poco sulla necessità di ridurre il più possibile alla fonte l’estrazione e l’uso di materia – e dell’energia ad essi correlata, concetto fondamentale in questa crisi energetica in cui siamo piombati. Ed è altresì evidente – come rilevano gli autori dello studio citato – che non si riflette abbastanza sulla necessità di un cambiamento sistemico, sull’impatto dell’economia circolare sull’equità sociale e sulle generazioni future. Inoltre, modelli di business e consumatori spesso non vengono indicati come fattori abilitanti dell’economia circolare.
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Trasformarsi per trasformare
Ma torniamo all’obiettivo della prevenzione, concetto ampio che ricomprende a sua volta diverse possibili attività. L’unico momento effettivamente utile ad applicare l’approccio della prevenzione alla produzione di beni e servizi in chiave circolare è la fase della progettazione. L’ideazione è la vera forza generatrice del maggiore o minore impatto ambientale di un prodotto o processo.
La domanda da porsi in questa fase è: come tolgo materia (ed energia) senza togliere funzioni? Questa domanda non va applicata soltanto al bene in sé, ma alla fase stessa di predisposizione dei fattori di produzione, poi alla produzione vera e propria, alla distribuzione e vendita, al consumo e post-consumo.
Bisogna compiere il viaggio della materia prima e trasformarsi insieme a lei, passare in presse e forni, viaggiare su gomma e su rotaia, entrare nelle case e sì, finire schiacciati, rotti o gettati via con essa, magari bruciati in un inceneritore o abbandonati sul bordo di una strada secondaria. Soltanto in questo modo si potrà riavvolgere il nastro e immaginare altri viaggi, meno energivori, con materiali o quantitativi diversi, con una comunicazione efficace o un packaging davvero sostenibile e così via.
Ecodesign, per piegare la linea in cerchio
Inizia qui l’economia circolare, nella testa di chi la pensa e fa. In sintesi questo processo viene definito “ecodesign” o “ecoprogettazione” e interviene per scongiurare quello che in genere è definito “errore di progettazione” (spesso si usa questa locuzione per definire i rifiuti), ma che in realtà porta con sé anche un errore di sistema. Per l’economia lineare la logica è estrattiva e distruttiva: take-make-waste significa che quando un bene esce dalla fabbrica non interessa più a chi l’ha prodotto. In malora i costi sostenuti per materia prima, macchinari, energia, trasporti, acqua, manodopera… In malora gli impatti ambientali e sanitari!
Nel modello circolare, invece, il prima e il dopo della produzione sono forse più importanti della produzione stessa, proprio perché la linea si deve piegare in cerchio. Così la progettazione coincidente con la definizione di forma e funzione si fa “eco” e ingloba requisiti di sostenibilità e considerazioni ambientali lungo l’intera catena del valore: dalle fasi di pre-produzione, passando per la distribuzione e il consumo e considerando il post-consumo come l’opportunità di evitare uno spreco o rigenerare materia. Allora l’ecodesign dematerializza, ottimizza, condivide, digitalizza, riutilizza, disassembla, ripara, allunga la vita, aggiorna, rifabbrica, ricicla. Chiude i cicli modificando condotte e processi, ricorrendo a strategie di prevenzione e, quando queste sono esaurite, di rigenerazione. In una parola, ripensa.
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Per avere risposte nuove servono domande nuove
Chiuso definitivamente il cerchio dunque? In realtà fin qui siamo ancora fermi alla teoria o poco più, perché il vero salto è calare il progetto nella realtà concreta e cominciare a capire che se l’errore è di sistema: non è soltanto il prodotto o servizio l’elemento da riprogettare, ma l’ecodesign deve riguardare lo scenario d’uso in cui esso è inserito. Dove riparo il mio ferro da stiro? Se uso un contenitore riutilizzabile come lo restituisco al fornitore o venditore del contenuto? Se la lavatrice non è più un prodotto che compro ma un servizio a noleggio, chi si occupa della sua manutenzione e del suo fine vita? Se decido di riutilizzare le bottiglie di vetro ritirandole con un sistema cauzionale dovrò costruirle tutte uguali e magari uniformare il colore?
Per trovare risposte nuove servono nuove domande. E questa è una parte fondamentale del lavoro che cerca di fare EconomiaCircolare.com. Porre domande nuove per conto dei lettori e delle lettrici, misurare le prestazioni e gli impatti, individuare le criticità, smascherare il greenwashing ma al contempo cercare le soluzioni. Lo chiamiamo giornalismo costruttivo, per la strana china che ha preso nel tempo l’informazione, che preferisce spesso criticare per criticare piuttosto che criticare per cambiare.
Ma questo giornalismo da solo farebbe poca strada anche qualora disponesse di mezzi illimitati, perché finirebbe per dare risposte semplici – commisurate ai soli strumenti di cui dispone un giornale, sia pure autorevole – a problemi complessi. La sfida invece è farsi carico di individuare, raccogliere e riportare anche risposte complesse (e possibilmente pensiero laterale), rendendole il più possibile semplificate (ma mai banalizzate) per i fruitori dell’informazione.
Per vincere questa sfida serve un’alleanza dialettica e mai acritica prima di tutto con le scienze, un confronto costante con chi fa ricerca e produce innovazione, di processo e di prodotto, negli enti di ricerca, nelle università e – con i dovuti accorgimenti – anche nelle imprese. Perché in fin dei conti è sul mondo delle imprese e sulla politica che si riverbera il risultato di questa elaborazione scientifica: sulle prime con l’obiettivo di giungere alle applicazioni pratiche, sulla seconda affinché le accompagni con l’opportuna cornice regolatoria e di incentivazione.
Ci avviciniamo così a comprendere quanto sia magmatico, ma potenzialmente e necessariamente sistemico il paradigma della circolarità. Un paradigma che non ha semplicemente bisogno di una tecnologia né riguarda soltanto una o più filiere. In realtà siamo davanti a un indispensabile “ripensamento a catena” del ruolo di ciascuno di noi – ricercatori, produttori, consumatori, legislatori, comunicatori e così via –, nonché dell’economia e della società. Mettendo al centro la natura nel suo complesso e non più soltanto l’essere umano.
Perché l’economia circolare non è solo tecnica ma mette insieme vita materiale, sociale e persino spirituale. Ecco perché ci piace definire l’economia circolare come un orizzonte culturale che contiene in sé la spinta verso un ripensamento individuale e collettivo, un ripensamento della produzione, delle relazioni e, in prospettiva, della nostra visione di futuro.
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