Già il titolo, “Implicazioni atmosferiche dell’aumento del consumo di idrogeno”, lascia presagire risultati non certo incoraggianti. Ha fatto discutere il recente studio, realizzato dalle università di Cambridge e Reading e commissionato dal governo britannico, su un vettore energetico che, nelle intenzioni soprattutto dell’Europa, dovrebbe servire a diversificare le fonti energetiche. Finora i dubbi sull’idrogeno si erano concentrati su alcuni punti precisi:
- l’assenza di infrastrutture, dato che i gasdotti esistenti fino a questo momento possono condurre al massimo il 10% di idrogeno e comunque andranno riconvertiti o, peggio ancora, dovranno essere realizzati appositi “idrogenodotti”
- dei tanti colori dell’idrogeno l’unico “buono” è quello verde, cioè realizzato attraverso fonti rinnovabili, mentre le grandi aziende fossili premono soprattutto sul blu, da realizzare dunque col gas e con la co2 da catturare
- nonostante i tanti fondi investiti, finora le applicazioni industriali sono scarse, giusto qualche prototipo di treno e poco altro, lo sforzo massimo è ancora nella ricerca e dunque ciò vuol dire che ci vorranno anni per ottenere utilizzi estesi
Pochi dubbi, finora, sulle implicazioni climatiche e sul confronto con l’anidride carbonica, il principale (e più noto) dei gas serra. Un assunto che viene rovesciato dallo studio inglese, che addirittura si spinge a indicare l’idrogeno come “potenzialmente dannoso” fino a 11 volte in più rispetto alla c02. Possibile? La ricerca inglese giunge proprio nel periodo in cui l’Europa sembra voler investire in maniera decisa sull’idrogeno. La Commissione Eu ha dato infatti il via libera al finanziamento di 5,4 miliardi di aiuti pubblici. Come ricorda un recente comunicato stampa del Ministero dello Sviluppo Economico, “oltre 1 miliardo è destinato all’Italia” che ha presentato un progetto di comune interesse europeo insieme ad altri 14 Stati membri dell’Unione europea.
Scrive ancora il Mise che sono sei le imprese italiane ad essersi aggiudicate questi fondi: “da Ansaldo a Fincantieri, Iveco Italia e Alstom Ferroviaria, fino a Enel e De Nora (in partnership con Snam) – a cui si aggiungono i due enti di ricerca Enea e Fondazione Bruno Kessler (FBK) – sono stati presentati investimenti in ricerca e innovazione ritenuti a livello europeo di elevata qualità e pertanto considerati meritevoli di essere finanziati con una quota maggiore rispetto a quella destinata ad altre imprese europee. In particolare, verrà realizzata una filiera della componentistica dedicata allo sviluppo di elettrolizzatori, celle combustibili, tecnologia per lo stoccaggio, trasmissione e distribuzione dell’idrogeno, fino agli elementi da utilizzare nel settore dei trasporti”.
Difficile immaginare che lo studio inglese possa cambiare la tabella di marcia italiana ed europea. Ma resta un campanello d’allarme da approfondire.
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Le conseguenze dell’immissione di idrogeno nell’atmosfera
Nell’approfondito studio (75 pagine), realizzato dall’equipe scientifica composta da Nicola Warwick, Paul Griffiths, James Keeble, Alexander Archibald, John Pyle (provenienti dall’università di Cambridge) e Keith Shine (dall’università di Reading), si riconosce che “l’uso dell’idrogeno come sostituto dei combustibili fossili contenenti carbonio (come il gas naturale) eviterebbe le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, con notevoli benefici sull’impatto climatico. Tuttavia, qualsiasi fuoriuscita di idrogeno influenzerà la composizione atmosferica (con implicazioni per la qualità dell’aria) e ciò ha un effetto indiretto sul riscaldamento climatico”.
Ciò avviene considerando “l’impatto delle varazioni che potrebbero seguire nelle emissioni di gas diversi dall’anidride carbonica”. Secondo i ricercatori, infatti, ad aumentare con l’immissione di idrogeno nell’atmosfera (a seguito del suo utilizzo) sono le cosiddette “specie co-emesse”, che comprendono il monossido di carbonio, il metano, i composti organici e gli ossidi di azoto. Come è possibile? Tutto dipende dalla presenze dei radicali idrossilici che fanno ottenere l’effetto opposto rispetto a ciò che ad esempio si intende perseguire con l’idrogeno verde, cioè la diminuzione dell’uso – e dell’immissione in aria – del metano. Le inevitabili fuoriuscite di idrogeno dagli impianti (così come avviene col metano) porterebbero infatti ad un aumento della presenza di metano proprio per via della combinazione in aria dei radicali idrossilici. Inoltre “le perdite di idrogeno porteranno a un aumento del vapore acqueo in tutta l’atmosfera, con aumenti potenzialmente significativi nella stratosfera”.
Di più: secondo un modello chimico-climatico all’avanguardia, realizzato dagli stessi ricercatori, con le perdite di idrogeno nell’atmosfera si avrebbero peggioramenti pure sul fronte della forzatura radiativa, uno dei maggiori fattori dei mutamenti climatici. Lo studio britannico però non chiude del tutto le porte all’uso esteso dell’idrogeno. Quel che si chiede ai decisori politici, che dovranno indirizzare gli ambiti di ricerca, è di far diventare una priorità la riduzione al minimo delle perdite se si vuole rendere l’idrogeno come vettore energetico fondamentale. Data però l’analogo problema sul metano, c’è poco da essere ottimisti.
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