Ci sono classifiche sulle quali è meglio non primeggiare. E’ il caso di multinazionali come Cola Cola, Pepsi e Nestlé che per il terzo anno consecutivo si aggiudicano i primi tre posti nella classifica dei livelli di inquinamento di plastica al mondo, secondo il rapporto “BRANDED Vol III: Demanding Corporate Accountability for Plastic Pollution”. La temuta classifica è redatta dal movimento globale Break Free From Plastic, che dal 2016 mette insieme oltre 1900 organizzazioni non governative e singoli individui per chiedere una massiccia riduzione della plastica monouso e per ottenere soluzioni durature a uno dei più noti e peggiori impatti ambientali.
Nello specifico l’iniziativa lunga un anno consiste nel conteggio e nella documentazione dei marchi sui rifiuti di plastica trovati nelle comunità di tutto il mondo: nel 2020 i volontari provenienti da 55 Paesi nel mondo hanno raccolto 346.494 pezzi di plastica. Un numero considerevole, al quale va aggiunto il lavoro dei raccoglitori di rifiuti informali, prevalentemente nel Sud del mondo, e l’impatto che la plastica monouso di basso valore ha sui loro mezzi di sussistenza.
“Vincono” sempre gli stessi
“Non sorprende vedere gli stessi grandi marchi sul podio dei principali inquinatori di plastica del mondo per tre anni consecutivi” ha affermato Abigail Aguilar, coordinatrice Greenpeace della campagna per la plastica nel Sud-est asiatico. “Queste aziende affermano di affrontare la crisi della plastica eppure continuano a investire in false soluzioni collaborando con le compagnie petrolifere per produrre ancora più plastica. Per fermare questo caos e combattere il cambiamento climatico, multinazionali come Coca-Cola, PepsiCo e Nestlé devono porre fine alla loro dipendenza dagli imballaggi di plastica monouso e abbandonare i combustibili fossili”. La rete Break Free From Plastic ha inoltre notare che “nell’ultimo rapporto della Ellen MacArthur Foundation è stato chiarito che queste società non hanno compiuto alcun progresso nell’affrontare la crisi dell’inquinamento da plastica.
La plastica monouso ha effetti devastanti non solo sulla nostra terra ma per le comunità in prima linea in tutto il mondo. I raccoglitori di rifiuti e i membri della comunità nel Sud del mondo stanno assistendo alla rapida escalation di imballaggi di plastica monouso di bassa qualità che vengono immessi sul mercato in modo aggressivo dalle principali multinazionali”. Che l’abuso della plastica, specie quella monouso, sia da anni condannato da governi, ong e cittadini è un fatto assodato. Eppure le principali multinazionali del settore, invece che concentrare i propri sforzi su nuovi modelli di produzione che a partire dalla progettazione prevedano l’esclusione di rifiuti, continuano a incentivare pratiche di greenwashing.
All’economia circolare si preferisce il greenwashing
“Le aziende fanno affidamento sui lavoratori informali dei rifiuti per raccogliere i loro imballaggi, consentendo loro di rispettare gli impegni di sostenibilità e giustificare il loro uso di elevate quantità di imballaggi in plastica monouso” spiega Lakshmi Narayan, co-fondatore di SWaCH Waste Picker Cooperative a Pune, in India.
“Tuttavia, l’attuale passaggio a imballaggi in plastica di valore inferiore sta minacciando i mezzi di sussistenza dei raccoglitori di rifiuti, che non possono rivendere articoli di qualità così bassa. I sistemi in cui operano le raccoglitrici di rifiuti devono cambiare.Le multinazionali devono assumersi la piena responsabilità dei costi esternalizzati dei loro prodotti di plastica monouso, come i costi di raccolta e trattamento dei rifiuti e il danno ambientale da essi causato. Se le cose continuano come al solito, la produzione di plastica potrebbe raddoppiare entro il 2030 e addirittura triplicare entro il 2050. Il tempo sta finendo”.
Bilanci miliardari
Soltanto Coca Cola, il più noto colosso al mondo di bevande analcoliche e al primo posto di questa triste classifica, ha reso noto di aver concluso il terzo trimestre dell’anno riportando utili netti per 1,74 miliardi di dollari. Come a dire: ci sono tutte le potenzialità economiche per cambiare rotta. Specie perché anche chi segue nella classifica di Break Free From Plastic può vantare bilanci miliardari: dopo Pepsi e Nestlè ci sono marchi come Unilever (la società che produce beni di consumo con al suo interno 400 brand diffusi in oltre 190 Paesi) e Philip Morris (il più noto dei colossi del tabacco). E allora le buone pratiche dei cittadini, così come gli incentivi di governi e banche, rischiano di passare in secondo se alla spinta verso l’economia circolare non si accompagnano nuove strategie di impresa.
Ma non è solo colpa delle multinazionali
Ovviamente il problema dei rifiuti nell’ambiente non si può liquidare attribuendo la responsabilità totale ai soli produttori né, tantomeno, ai soli cittadini. Dire che la responsabilità è condivisa, allo stesso tempo, non vuol dire non essere consapevoli che esiste certamente una gerarchia per cui al primo posto, per rimanere al format delle classifiche, restano i soggetti che hanno ottenuto profitti immettendo i loro prodotti in Paesi – come è il caso del Sud Est asiatico, citato più volte nel report di Break Free From Plastic – dove non esistono adeguate infrastrutture per la gestione dei rifiuti.
Certamente ci sono governi che non hanno saputo o voluto vigilare adeguatamente, così come non sono stati capaci di imporre sistemi di cauzionamento per le bevande e regimi di responsabilità estesa dei produttori, in modo magari che potessero essere proprio le multinazionali citate più volte a sobbarcarsi i costi dell’avvio a riciclo del loro packaging. Perché c’è un punto netto da cui (ri)partire: i grandi marchi dovrebbero investire più in sistemi basati sulla dematerializzazione del packaging invece di continuare a immettere imballaggi riutilizzabili, riciclabili e compostabili. Si tratta di uno dei principi cardine dell’economia circolare: il miglior rifiuto è quello che non si produce. E qui davvero lo sforzo deve essere comune: dai cittadini alle imprese ai governi.
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