Per andare avanti, a volte, è necessario guardarsi indietro. Lo sa bene Stefano Petrucciani, professore ordinario di Filosofia politica presso l’università di Roma La Sapienza, noto soprattutto per essere uno dei più acuti e preparati studiosi del pensiero di Karl Marx. È autore di numerosi volumi tra cui Introduzione a Habermas (Laterza 2000), Introduzione a Adorno (Laterza 2007), Marx (Carocci 2009). Ha curato una Storia del marxismo (3 voll., Carocci 2015). Per Einaudi ha pubblicato Modelli di filosofia politica (2003), Democrazia (2014), Politica. Una introduzione filosofica (2020) e ha curato l’edizione delle opere di Adorno.
Proseguiamo dunque con Petrucciani l’analisi, già affrontata attraverso le precedenti interviste, sul Piano nazionale di ripresa e resilienza. Un’occasione mancata di partecipazione democratica, in cui i cittadini sono stati relegati a semplici spettatori, con il Pnrr che in realtà, come ha osservato bene l’esperto di processi partecipativi Giovanni Allegretti, ha confermato l’assenza di attenzioni politiche sul territorio che, invece, “va visto come l’unità guida”.
Allo stesso tempo, come ha affermato il politologo francese Yves Sintomer, serve la consapevolezza che “una transizione ecologica seria, all’altezza del problema cruciale dell’ambiente oggi, non sarà facile perché ci imporrà cambiamenti difficili nelle nostre vite e nel quotidiano”. Senza dimenticare, come ha ammonito l’esperta nell’ascolto e nella gestione creativa dei conflitti Marianella Sclavi, che “l’innovazione ormai si fa nel locale” e che “l’economia circolare è anche la sostenibilità circolare delle opere“. In fondo, come ha ricordato la vicepresidente della Commissione nazionale francese del Dibattito pubblico Ilaria Casillo, “la transizione ecologica è prima di tutto una transizione democratica“.
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Il Pnrr e la crisi della politica
Nel piano di resilienza e di rinascita (Pnrr) non si dà importanza alla partecipazione diretta e attiva dei cittadini, soprattutto per le opere di natura ecologica, per il rinnovamento della produzione in senso ecologico, e quindi anche per sviluppare l’economia in senso circolare. Sia nella crisi pandemica, sia nella risposta alla crisi pandemica, purtroppo, l’elemento della partecipazione dei cittadini non è stato contemplato. Possiamo considerarlo come l’espressione della cosiddetta “crisi della politica”?
Evidentemente la partecipazione democratica è poco o per niente digeribile da parte di coloro che scrivono questi progetti. Il che, devo dire, mi sembra davvero assurdo: come sappiamo, e com’è stato già sperimentato da qualche decennio, è proprio nell’organizzazione delle opere sul territorio, nella partecipazione democratica sul territorio, che l’economia circolare trova forse uno dei suoi luoghi d’elezione. Perché è qui che il cittadino è stimolato ad interloquire.
Anche perché una delle cause della cosiddetta crisi della politica è il fatto che il cittadino sente che la sua partecipazione ha scarsa o nulla influenza su chi prende decisioni. Invece, in uno scenario di prossimità, che è molto importante, la partecipazione può effettivamente evitare che si abbia questo senso di frustrazione, perché è dove, di fatto, può avere un’incidenza sulla vita pubblica. Esiste un enorme dibattito sulla “democrazia di prossimità” come attivazione del potenziale democratico, non a caso. Quindi, che questo non venga preso in considerazione, mi sembra francamente una cosa assurda.
Perciò possiamo dire di essere effettivamente in presenza di una crisi della politica?
Di cosa parliamo quando usiamo questa espressione? C’è una critica della politica anche da parte dell’establishment che, con molti altri poteri, ha interesse ad avere una politica debole. Quindi scredita la politica e i cittadini che sono sfiduciati e risentiti, e poi condividono questa prospettiva del discredito della politica. Se ci riconosciamo in una visione della democrazia che fa riferimento alla partecipazione politica del cittadino, o anche in una storia che ha visto momenti di partecipazione civica del cittadino, allora possiamo dire che effettivamente c’è una crisi. Il problema si pone così: la partecipazione attiva dei cittadini è un dato continuo, una vera e propria struttura portante della democrazia moderna, o meglio, dell’età postmoderna, dell’età individualistica, oppure, invece, è qualcosa che si accende, per così dire, in determinati momenti? Sulle istituzioni partecipative (chiamiamole così) di cui oggi c’è crisi sicuramente (perché c’è poca partecipazione), dobbiamo capire quanto il rischio di routinizzazione le coinvolga, ossia come si possano ripensare istituzioni partecipative che non diventino una stanca routine, a cui partecipano sempre e solo gli stessi quattro gatti.
Ciò detto, poi si tratterebbe di indagare le cause della crisi, le cause della disaffezione, e le cause della sfiducia. Secondo me sono tante. Se ne potrebbe fare veramente un lungo elenco e si dovrebbero, perciò, cercare di mettere a fuoco quelle più significative. La crisi della politica è legata a doppio filo alla crisi della sinistra, in quanto è quella forza che crede nella politica: la sinistra è sempre stata storicamente, da Rousseau e dalla Rivoluzione francese in poi, la forza che la valorizza, ha sempre pensato alla centralità e all’importanza della politica. La destra liberale, al contrario, considera la politica come una sorta di male necessario. Crisi della sinistra vuol dire estrema incapacità, o estrema difficoltà, nel dare risposte ai problemi che l’età della globalizzazione ha posto: la sinistra è sempre stata una forza portatrice di valori universalistici, ma nella globalizzazione questi valori creano non pochi problemi agli strati più sfortunati, dei lavoratori industriali, del popolo delle periferie. A questo si può aggiungere la crisi delle ideologie politiche, che pensavano la politica e davano luogo a organizzazioni. La politica si è nutrita di queste ideologie. Ma oggi, la gran parte delle ideologie ha perso la propria credibilità. Hanno perso la capacità di impattare sul pensiero, sulla vita culturale.
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Politica e democrazia
Guardando il quadro complessivo, la crisi della politica sembra avere molto a che fare con la crisi della democrazia. Qual è, dalla sua prospettiva, la relazione tra politica e la democrazia?
Marx avrebbe detto: “La democrazia è la verità della politica”. Se la politica non è intesa come la intende un certo realismo ristretto, come semplice lotta per il potere, ma se è intesa come “costruzione della casa comune”, allora è chiaro che, nel mondo moderno, la politica rettamente intesa si esplica nella democrazia. Tuttavia, la democrazia contemporanea, rappresentativo-liberale, non gode oggi, purtroppo, di ottima salute. C’è una sorta di regressione oligarchica della democrazia che ha a che fare con la diminuita partecipazione dei cittadini, con la crisi dei partiti, e con la crisi dei parlamenti, che ormai, lo si dice da decenni, sono diventati una “camera di registrazione”, e inoltre, infine, anche con l’indebolimento di tutte le arene decisionali nazionali, rispetto a quelle sovranazionali.
Indebolimento che non è neutro nei suoi effetti, perché mentre le arene decisionali nazionali (le sedi di decisione a livello nazionale) sono più visibili e più controllabili dai cittadini e dall’opinione pubblica, quelle dislocate negli uffici di Washington o di Bruxelles sono molto meno visibili, criticabili e discutibili dai cittadini. Questo si collega di nuovo al problema della globalizzazione che, appunto, svuota il potere degli stati nazione, e lo sposta sostanzialmente in una serie di circoli tecnocratici e finanziari, che hanno possibilità di incidere molto su tutte le dinamiche di potere.
Sulla globalizzazione neoliberista
Riferendosi alla globalizzazione e anche a Marx, su cui ha appena dedicato due corsi universitari a partire dal suo ultimo libro (“Marx in dieci parole”, Carocci 2021), sembra evidente che la globalizzazione non è “neutra”, e non a caso la si associa spesso, a diversi livelli, all’aggettivo “neoliberista”. Ma, se è così, allora questa globalizzazione ci riporta a due dimensioni del capitalismo individuate da Marx: sfruttamento ed alienazione. Se c’è uno svuotamento democratico, se c’è una crisi della politica, è anche perché esiste un’affermazione importante, a livello globale, della logica, di dinamiche, e di un potere “capitalista” (dove si conservano queste due dimensioni)? Uno degli elementi della crisi della politica non è forse proprio quello dell’affermazione del tipo di società capitalista in cui stiamo vivendo?
Come dici giustamente, la globalizzazione non è un evento naturale, ma è un portato politico (di scelte fatte) e tecnologico. Queste due dimensioni si intrecciano. Sicuramente è un prodotto di scelte politiche a cominciare da quelle sulla liberalizzazione dei movimenti dei capitali e sulle aperture di certi mercati. È un prodotto di scelte politiche, però, che si lega molto, appunto, alla rivoluzione tecnologica digitale, che è un altro aspetto essenziale. Magari meno “neoliberista”, ma non meno importante: perché la rivoluzione digitale consente di mettere in connessione tutto il mondo in tempo reale. Così, di nuovo, ritorna la questione: lo sviluppo delle tecnologie è neutro o non lo è? Quanto è politico e quanto non lo è? Le risposte a queste domande sono molto complesse, perché le tecnologie sembrano procedere per una loro logica autonoma, ma non è detto che sia così. Quindi abbiamo sicuramente una ridefinizione del quadro del capitalismo, dello sfruttamento capitalista, in questo processo. Ma con quali geografie? Non è semplicissimo da capire. Su queste cose bisognerebbe avere una competenza molto ampia che, come filosofo, non possiedo.
Diciamo che, dal punto di vista dello sviluppo dei mercati, sulla globalizzazione economico-tecnologica-finanziaria, dobbiamo fare dei distinguo. Quella finanziaria ha fatto dei danni enormi, mentre quella economico-tecnologica non può essere dannata e condannata come un progetto di sfruttamento capitalista e basta, perché, come del resto lo stesso Marx scriveva per il capitalismo del suo tempo, questi sono processi complessi che hanno diverse dimensioni. Marx condannava lo sfruttamento, come la schiavitù del lavoratore salariato, però diceva anche che se il capitalismo aveva una funzione e un valore, era quello di creare le condizioni per fare in modo che tutti potessero uscire dalla miseria, in buona sostanza. Per un verso, quindi, questa enorme espansione dei mercati e la dislocazione delle produzioni industriali, che prima non erano così forti, come quelle della Cina e di tanti altri, ci colloca in un mondo molto difficile e squilibrato, e ci espone anche al rischio di lotte per l’egemonia che non sappiamo dove ci condurranno, perché quando crescono le grandi potenze economiche diventano anche grandi potenze politiche, e sono pronte a sfidarsi in scontri per l’egemonia che potrebbero essere estremamente rischiosi. D’altra parte, tuttavia, è anche vero che questa globalizzazione economica ha innescato anche processi positivi: ha tolto molte persone dalla condizione di fame e di miseria, almeno così viene detto e si legge. Molti concordano che il numero dei poveri, in Paesi come la Cina per esempio, sembra essere drasticamente diminuito. Credo che esistono degli osservatori obiettivi su questo.
La povertà globale in certi Paesi sembra effettivamente essersi ridotta. Naturalmente questo ha dei costi di vario tipo. In primo luogo politici, perché i regimi che cercano un decollo capitalistico impetuoso sono autoritari, e soprattutto ecologici, perché l’enorme problema che si è creato con il tempo è lo sviluppo massiccio di produzioni di tipo industriale ad alto tasso di impatto ambientale (basti pensare ancora una volta alla Cina, per esempio), che hanno un costo ecologico enorme che paghiamo tutti. Insomma, non condivido la demonizzazione dei processi dell’economia globale, perché alcuni aspetti positivi, o potenzialmente positivi, vanno visti. Tuttavia, non possiamo ignorare che i problemi che vi sono legati sono molto grandi.
Crisi ecologica, ma non solo
L’accenno che ha appena fatto alla questione ecologica mi sembra decisamente centrale. Com’è possibile che la prospettiva della globalizzazione neoliberista, come avviene più in generale, per la produzione e il consumo capitalisti, ci ha “regalato” la crisi ecologica? È possibile che questo tipo di economia, questo tipo di impostazione e di sistema, assuma una impronta ecologica? Il tentativo di rinnovare la produzione e il consumo è qualcosa di fattibile o è puro maquillage pubblicitario?
È una domanda a cui è davvero molto difficile rispondere. Quello che si può dire, secondo me, è che, rispetto a vent’anni fa, oggi assistiamo al fatto che un omaggio anzitutto verbale a questi temi è generale. Mentre prima erano poche voci, e mi riferisco ai “teorici dei limiti dello sviluppo” (inizialmente sbertucciati da tutti), oggi l’omaggio verbale a questi temi è assolutamente generalizzato. Il che è un piccolo passo avanti. Ma la tua domanda resta aperta. Non sappiamo se questo non diventi solo una sorta di stucchevole orpello, che viene posto come una “verniciatura green” su un processo che prosegue sostanzialmente come prima, come sempre. Questo è il grosso rischio, perché è un pericolo reale. In genere, quando i discorsi li fanno un po’ tutti non diventano molto impegnativi. Ma non bisogna neanche essere così negativi, perché si procede sempre per piccoli passi. Una volta abbandonata l’utopia della rivoluzione tutta d’un colpo, si procede per trasformazioni molecolari. Già il fatto che nell’opinione pubblica tutti debbano riconoscere la centralità del problema ecologico, è un cambiamento molecolare. Il fatto che ci siano stati dei protocolli usciti da dei summit mondiali per ridurre le emissioni, è un passo in avanti. Si tratta di una via complicata, intendiamoci, ma che non si può escludere.
Certo, il problema ci riporta a quello che dicevamo prima: senza la partecipazione attiva dei cittadini, con il fatto che loro sono messi all’angolo dalle decisioni prese a livello transnazionale dai tecnocrati e dai cosiddetti “competenti”, c’è poco da fare. Perché, in definitiva, sono i cittadini che devono e possono fare la differenza. L’impresa green, sarà pure green, per carità, ma il suo interesse è sempre fare profitto, in quanto è un’impresa capitalistica. Quindi, se per fare più profitto può essere meno green, lo farà. Il problema è la mobilitazione ecologica e la spinta che deve venire dai cittadini, e questo è un tema complicato soprattutto in Italia, dove mi viene da pensare a tutti i fallimenti che hanno segnato la storia dei partiti verdi, rispetto, invece, a Paesi come la Germania. Forse l’Italia è un Paese che ha ancora troppi problemi? Sono talmente gravi da oscurare quello dell’ambiente? Può darsi. Perché l’Italia purtroppo è un Paese che arranca: abbiamo tante arretratezze, tante difficoltà, tante forme di corruzione e di mafiosità, e soffriamo anche, e di più, per tutto questo. Non sviluppiamo la consapevolezza della centralità di un problema come quello ecologico perché abbiamo, per esempio nel centro-sud, ma non solo, un’infinità di difficoltà e di limiti del nostro Stato e della nostra società civile. Forse è proprio questo uno dei motivi per i quali la prospettiva “verde” fa tanta fatica ad affermarsi.
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