mercoledì, Novembre 5, 2025

Se la transizione green poggia sulle terre indigene

Una ricerca mostra come l’estrazione di materie prime necessarie per la transizione energetica riguarderà soprattutto le terre dei popoli indigeni e le aree gestite da piccoli agricoltori. “Senza attenzione ai diritti si rischia di riprodurre i danni dell’estrattivismo nelle solite regioni”

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, redattore di EconomiaCircolare.com e socio della cooperativa Editrice Circolare

L’articolo non è recentissimo (dicembre 2022), ma il tema di cui si occupa sì. Parliamo di transizione green e materie prime critiche. Quelle che l’Europa potrebbe avere riciclando la grandissima quantità di beni elettrici ed elettronici che consuma ma che invece cerca sotto terra. E non solo nei paesi dell’Unione, ma anche oltre le frontiere dell’Unione, molto lontano da propri confini. Estrattivismo (predominante) invece di economia circolare e riciclo (residuale). Con la scusa di “accordi win-win” che però, secondo alcuni osservatori, ricordano molto atteggiamenti coloniali.

Lo studio di cui scrivo è stato pubblicati su Nature Sustainability nel dicembre 2022 e pur con alcuni limiti legati alla disponibilità di dati arriva alla conclusione che la transizione energetica fa affidamento su materie prime che se non vengono recuperate e riciclate dai vecchi PC, da telefonini rotti o dalle lavatrici rottamate verranno prelevate dalle terre di popoli indigeni o da quelle dei piccoli contadini: soggetti la cui sopravvivenza dipende proprio da quelle terre e che a fatica potrebbero difendersi dalle mire delle grandi imprese minerarie.

Scrivono John R. Owen (Sustainable Minerals Institute, The University of Queensland, Brisbane, Australia), Deanna Kemp (Australia), Alex M. Lechner (Monash University Indonesia, Banten), Jill Harris (Australia), Ruilian Zhang (Australia) e Éléonore Lèbre (Australia): “La nostra analisi rivela che più della metà della base di risorse dei metalli e minerali di transizione energetica (energy transition minerals and metals-ETM) si trova su o vicino alle terre dei popoli indigeni e contadini, due gruppi i cui diritti alla consultazione e al libero consenso informato preventivo sono sanciti dalle dichiarazioni delle Nazioni Unite”.

Materiali per la transizione energetica e metodo dell’analisi

Analizzando le stime disponibili, le ricercatrici e i ricercatori hanno osservato che la base materiale della transizione energetica è rappresentata da almeno 30 minerali e metalli (ETM). Partendo dalla lista di questi materiali sono stati identificati e geo-localizzati 5.097 progetti che comprendono sia le miniere operative che quelle che potrebbero esserlo in futuro. Ne è emerso appunto “un alto livello di intersezione con i territori meno interessati dalle forze storiche dell’industrializzazione”.

Secondo la letteratura scientifica, i popoli indigeni esercitano una qualche forma di controllo territoriale sul 30% della superficie terrestre, mentre non esistono stime equivalenti per le terre dei contadini.

Se è più semplice intendersi quando di parla di popoli indigeni (il riferimento è alla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Popoli Indigeni-UNDRIP) vale la pena specificare cosa si intenda nello studio per “contadini”. Il riferimento è la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Contadini e delle Altre Persone che Lavorano nelle Aree Rurali (UNDROP): “Qualsiasi persona che, a livello artigianale o in piccola scala, operi nel settore agricolo, sia dedito alla coltivazione di terreni, all’allevamento di bestiame, alla pastorizia, alla pesca, alla selvicoltura, alla caccia o alla raccolta, e a tecniche artigianali relative all’agricoltura o ad un’occupazione correlata in una zona rurale. Si applica inoltre ai membri a carico della famiglia di contadini”.

Oltre ai territori controllati direttamente da indigeni e piccoli contadini/allevatori/pescatori/cacciatori, lo studio considera le terre “dove i diritti collettivi potrebbero essere rivendicati, ma dove il riconoscimento statale potrebbe essere assente”.

CRM critical raw materials indigeni
Foto: Canva

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La competizione tra obiettivi legittimi

Quali sono state le risultanze di questo incrocio di dati lo abbiamo detto: più della metà degli ETM è situata sulle terre delle popolazioni indigene e contadine o nelle loro vicinanze.

La ricerca sottolinea che la necessità di contrastare l’emergenza climatica rischia di fagocitare altre legittime necessità, il diritto a difendersi dal global warming potrebbe avere il sopravvento sulla garanzia dei diritti di alcuni gruppi di persone. Un’altra chiave di lettura potrebbe essere l’opposizione tra interessi globali e interessi locali. “La crisi sociale e ambientale associata al cambiamento climatico – afferma la ricerca – tende a far passare in secondo piano il fatto che le soluzioni di mitigazione del clima introdurranno nuovi impatti e nuove dinamiche man mano che le risorse verranno estratte per sostenere la transizione”. Sono necessari più minerali e metalli per le tecnologie green, è vero, ma altrettanto vero è che dobbiamo evitare di perpetuare logiche che non distribuiscono equamente costi e benefici della transizione. Le logiche tipiche dello sviluppo capitalistico che contemplano – prevedono, secondo alcuni – l’esistenza di zone di sacrificio: quelle che i due relatori speciale dell’ONU sui diritti umani David R. Boyd e Marcos Orellana hanno definito “aree estremamente contaminate dove i gruppi vulnerabili ed emarginati sopportano un peso sproporzionato delle conseguenze sulla salute, sui diritti umani e sull’ambiente dell’esposizione all’inquinamento e alle sostanze pericolose”

Si legge nello studio su Nature Sustainability: “Sebbene sia necessario aumentare l’offerta di ETM per soddisfare l’aumento della domanda, l’estrazione delle risorse è una soluzione altamente problematica che intensifica la competizione tra la mitigazione dei cambiamenti climatici, i valori ambientali, l’uso del territorio e la protezione dei diritti delle popolazioni legate alla terra”.

Il rischio di aggravare i problemi

Finché gli impatti estrattivi a livello locali non saranno meglio caratterizzati e analizzati, scrivono le ricercatrici e i ricercatori, “le attuali soluzioni climatiche rischiano di aumentare il tasso di industrializzazione, aggravando così il problema originario”.

È d’accordo Sophie Grig, ricercatrice di Survival International, che a EconomiaCircolare.com dice: “La corsa a procurarsi materie prime critiche per la ’transizione green’ rappresenta una minaccia per la vita, le terre e gli stili di vita dei popoli indigeni. Poiché la maggior parte dei minerali necessari alla transizione energetica si trova nei territori di popoli indigeni, o nelle loro vicinanze, è vitale che nessun progetto sia realizzato nelle loro terre senza il loro genuino Consenso libero, previo e informato (FPIC)”. Un principio sancito dalle Nazioni Unite, ma che con grosse difficoltà popolazioni ai margini dell’industrializzazione e lontante dalla civiltà occidentale riescono ad esigere. Non a caso Grig ricorda l’esempio di una popolazione indonesiana incontattata (si definiscono incontattati o non contattati popoli indigeni che evitano il contatto con la civiltà globalizzata), gli Hongana Manywawa, che abitano territori ricchi di nichel e che potrebbero ospitare una fabbrica per produrre batterie per auto elettriche: progetto che “rappresenta una catastrofe per i circa 500 Hongana Manyawa incontattati”, afferma Survival Internazional: “La loro foresta ancestrale viene già distrutta dall’estrazione di nichel; ora questa espansione rischia di distruggere completamente la loro foresta e, con essa, anche loro stessi”.

Ovviamente in casi come questo il principio FPIC non può tradursi in un silenzio assenso: da questa popolazione, sottolinea ancora Grig, “è chiaramente impossibile ottenere tale consenso e pertanto nel loro territorio non deve esserci alcuna attività mineraria. Punto”.  

Lo stesso vale per le terre utilizzate per attività agricole di sussistenza. La Dichiarazione delle Nazioni Unite prevede infatti che gli Stati prendano misure adatte “per far sì che qualsiasi tipo di sfruttamento che influisca sulle risorse naturali che i contadini che lavorano in zone rurali tradizionalmente detengono o utilizzano sia permesso” avvenga alla luce di una serie minima di criteri: dalla consultazione attraverso “una partecipazione attiva, libera, effettiva, significativa e informata” alla valutazione dell’impatto sociale e ambientale fino alla “ripartizione giusta ed equa dei benefici di tale sfruttamento che siano state stabilite sulla base di termini reciprocamente concordati tra le parti che sfruttano tali risorse naturali e i contadini”.

CRM critical raw materials indigeni
Foto: Canva

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La necessaria attenzione ai diritti

Per questo motivo andranno guardati con attenzione sia la promozione di attività minerarie nei paesi emergenti prevista dai Paesi del G7 (Critical Minerals Action Plan); sia le semplificazioni europee sulle normative di due diligence, che riducono la vigilanza delle imprese sulle catene di approvvigionamento; sia i progetti di estrazioni di materie prime critiche in paesi fuori dall’UE che, come ha detto Robin Roels, Policy Officer for Raw Materials dello European Environmental Bureau e coordinatore della Coalizione UE per le materie prime, “comprendono progetti minerari stranieri in Paesi con una scarsa sorveglianza ambientale. Senza criteri chiari, salvaguardie e divulgazione pubblica, questi progetti rischiano di ripetere i modelli coloniali di estrazione delle risorse“.

Mi dice Deanna Kemp, una delle autrici dello studio su Nature Sustainability: “Senza un’attenzione costante alla responsabilità delle imprese e alle dimensioni sociali e dei diritti umani delle catene di approvvigionamento minerario, c’è il rischio che gli sforzi per ‘accelerare’ l’estrazione mineraria per la transizione verde riproducano o intensifichino i modelli di danno nelle regioni che ospita le risorse”.

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