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domenica, Dicembre 22, 2024

Perché il greenwashing dei crediti di carbonio deve preoccuparci

La recente operazione in Brasile, dove è stata individuata un’organizzazione criminale che avrebbe venduto crediti di carbonio da aree invase illegalmente in Amazzonia, ribadisce che serve maggiore attenzione sul metodo preferito dalle imprese e dall’UE per contrastare il cambiamento climatico

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Redazione EconomiaCircolare.com

È stata definita la più vasta truffa dei crediti di carbonio della storia e la stessa polizia l’ha nominata “Operazione Greenwashing”: sono gli esiti più clamorosi di un’indagine della polizia federale brasiliana che in Amazzonia avrebbe individuato “un’organizzazione criminale” che per oltre un decennio avrebbe venduto crediti di carbonio provenienti da aree invase illegalmente per un valore complessivo di 34 milioni di dollari (circa 180 milioni di reais).

Seppur l’operazione sia avvenuta a giugno se ne discute ancora adesso perché affidarsi alla compensazione delle emissioni di CO2 attraverso i carbon credit è la strada scelta dalla maggior parte delle grandi aziende per centrare i loro obiettivi climatici. E in vista della Cop29 che si terrà a Baku a novembre c’è da giurarci che si continuerà, nonostante gli scandali che cominciano ad accumularsi, su questa rotta, riprendendo le fila di un discorso già affrontato alla Cop28 di Dubai.

Nel settembre 2023 un’analisi di Carbon Brief durata 5 anni aveva verificato che ben due terzi delle imprese che hanno annunciato la volontà di azzerare le emissioni nette hanno fatto affidamento a tale opzione. E anche l’Unione Europea sceglie di puntare su questo mercato per raggiungere la neutralità climatica al 2050. Eppure negli stessi giorni dell’operazione brasiliana uno studio di Transport & Environment, l’organizzazione ambientalista indipendente europea, ha svelato che 12 Paesi dell’UE sono destinati a non raggiungere gli obiettivi climatici nazionali per il 2030. Il motivo? Troppo affidamento sui crediti di carbonio.

carbon brief
Grafico di Carbon Brief

Germania e Italia mancheranno i loro obiettivi climatici con uno scarto sostanziale (rispettivamente 10 e 7,7 punti percentuali) – scrive l’ong T&E – Di conseguenza, potrebbero consumare tutto il surplus di crediti disponibili per gli altri Paesi. La Germania da sola avrà bisogno del 70% dei crediti disponibili. Gli altri Paesi non conformi con gli obiettivi di riduzione delle emissioni si ritroveranno senza crediti da acquistare. Una situazione, questa, che potrebbe dare adito a contenziosi legali”.

Insomma: nonostante le buone intenzioni il mercato dei crediti di carbonio resta ancora troppo controverso ed è il settore dove si annida maggiormente il rischio di greenwashing. Come ha dimostrato la clamorosa operazione brasiliana.

Leggi anche: Alla Cop28 si discute di un mercato unico dei crediti di carbonio

Operazione Greenwashing

Quello che è avvenuto in Brasile è emblematico del rischio maggiore di gran parte dei progetti di crediti di carbonio, e cioè il colonialismo occidentale delle industrie che proprio nei Paesi maggiormente colpiti dalla crisi climatica provano a rifarsi una verginità. Nell’Operazione Greenwashing portata a termine dalla polizia federale brasiliana dopo un’inchiesta lunga più di un anno, emergerebbero i legami tra i progetti REDD+ e una truffa per il riciclaggio di legname ottenuto illegalmente.

Ricordiamo che REDD+ è l’acronimo di Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation, vale a dire una delle più note e utilizzate soluzioni basate sulla natura (Nature Based Solutions), le quali a loro volta conservano, ripristinano o migliorano la gestione dell’ecosistema naturale per limitare le emissioni di gas serra nell’atmosfera. Per contribuire alla mitigazione del cambiamento climatico ci si rivolge ai progetti REDD+ (o REDD plus) attraverso cinque principali gruppi di attività:

  • Riduzione delle emissioni dalla deforestazione
  • Riduzione delle emissioni da degrado
  • Riduzione delle emissioni attraverso la conservazione
  • Gestione sostenibile delle foreste
  • Miglioramento dello stock di carbonio

greenwashing 2

L’idea alla base è che la “monetizzazione” di foreste minacciate attraverso l’emissione di crediti di carbonio contribuisca a scongiurare un ulteriore aumento della temperatura globale. A sua volta, la vendita di questi crediti dovrebbe generare un flusso di reddito da investire nuovamente nella conservazione delle foreste, che, secondo i sostenitori, è fondamentale per proteggere non solo il carbonio che la biomassa contiene, ma anche altri servizi ecosistemici, la biodiversità e le risorse vitali.

Al di là del processo di “finanziarizzazione della natura”, in ogni caso, spesso i singoli progetti si sono rivelati puro greenwashing: o perché annunciano risultati roboanti e che è difficile verificare o perché chi verifica è in palese conflitto d’interessi. Al centro delle indagini brasiliane vi sono i progetti Fortaleza Ituxi, Unitor ed Evergreen, che si trovano tutti nel sud dello Stato di Amazonas. Queste aree, secondo le autorità, non sarebbero state usate solo per produrre crediti di carbonio falsi, ma anche per emettere false documentazioni per riciclare il legname prelevato dalle aree deforestate illegalmente. Le irregolarità sono venute alla luce dopo un’esame del Center for Climate Crisis Analysis (CCCA), una organizzazione no profit con sede nei Paesi Bassi.

La polizia federale brasiliana ha disposto cinque mandati di arresto preventivo e 76 mandati di perquisizione e sequestro, oltre ad eseguire 108 misure cautelari (non detentive), 8 sospensioni da cariche pubbliche e varie altre misure. Dai primi risultati delle indagini è emerso che il quantitativo di legname sfruttato illegalmente ammonta a oltre un milione di metri cubi, per un danno ambientale di circa 606 milioni di reais (112 milioni di dollari). Il capo investigatore dell’operazione, Thiago Marrese, ha poi spiegato al sito Mongabay che i terreni dai quali veniva prelevato illegalmente il legname appartengono agli indigeni Kaxarari.

La polizia federale brasiliana ha sequestrato inoltre due aerei, un motoscafo e auto di lusso tra cui una Porsche e due Mercedes Benz. L’Operazione Greenwashing ha ricevuto il sostegno dell’Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria, del Servizio federale brasiliano delle entrate, dell’Agenzia nazionale dell’aviazione civile, dell’Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili, nonché dell’accademia e del mondo della ricerca.

Leggi anche: “Carbonio insanguinato”, il report che contesta gli impatti dei progetti di crediti di carbonio

A Taranto il greenwashing sarebbe anche nelle emissioni

Anche l’Italia, purtroppo, non sta a guardare. E ha il suo enorme caso di greenwashing. Le cronache di questi anni sono piene del tentativo e della volontà di decarbonizzare l’ex Ilva di Taranto, cioè l’ex più grande acciaieria d’Europa, probabilmente il caso più emblematico e più complesso di industrializzazione andata a male, con un enorme impatto ambientale e sociale (leggi qui per saperne di più). Senza voler ripercorrere qui le lunghissime vicende giudiziarie e i vari rimpalli amministrativi, negli scorsi giorni è emersa una nuova maxi inchiesta, destinata a fare luce sulle emissioni e la gestione della fabbrica ionica negli anni di gestione pubblico-privata. Come racconta Il Sole 24 ore, la procura di Taranto ha emesso dieci avvisi di garanzia nei confronti di altrettante persone di Acciaierie d’Italia con l’ipotesi di reato di truffa allo Stato. Secondo l’accusa, avrebbero taroccato le comunicazioni dei dati sull’anidride carbonica in modo da ottenere quote di CO2 in misura maggiore rispetto a quelle previste.

Scrive Il Corriere di mezzogiorno che per tutte le persone indagate, che sono state sottoposte anche a una serie di perquisizioni da parte della Guardia di Finanza, “l’accusa è di aver attestato nel piano di monitoraggio e rendicontazione al Comitato Ets (Emission Trading System) falsi quantitativi di consumi di materie prime (fossile, gas, ecc.), di prodotti finiti, semilavorati e giacenze e quindi alterato il «fattore di emissione» e il «livello di attività» per ottenere un maggior numero di quote. In sostanza l’ex Ilva ha dichiarato di aver utilizzato un numero di quote di CO2 inferiore a quello effettivo al punto che il Comitato interministeriale ha assegnato gratuitamente allo stabilimento per l’anno 2023, un ammontare di quote superiore a quello spettante. In una telefonata intercettata dai finanzieri di Bari è la stessa Morselli (l’ex amministratrice delegata prima della nomina degli attuali commissari da parte del governo Meloni, nda) che, parlando dei dati dei consumi e ignara di essere ascoltata, sembra confermare la tesi della procura: «Sono manipolati per poter avere le quote CO2… sono finti… a-posta».

In attesa che la magistratura faccia il suo corso, come si dice in questi casi, si tratta in ogni caso della conferma, l’ennesima, di un meccanismo opaco, spesso basato sulle autocertificazioni, che andrebbe rivisto in maniera netta. Semplicemente non possiamo più permetterci il greenwashing ma il collasso climatico ci impone azioni reali, con la prospettiva di un’economia circolare che costituisca l’agognato cambio di paradigma.

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