Le parole sono importanti. Fanno esistere le cose, le fanno comprendere, le rendono reali ed utilizzabili. Lo dicevano Heidegger, Wittgenstein e tutti quei filosofi, poeti, scrittori, fino al regista Nanni Moretti, che hanno mostrato come attraverso le parole, avvenga la ricerca e la creazione di noi stessi, degli altri, delle cose, e del mondo. A partire da questo assunto, si fa necessario un approfondimento e ripensamento, oggi soprattutto, del linguaggio che descrive la difesa dell’ambiente e la crisi climatica.
È di questo avviso Survival International, un movimento impegnato nella difesa dei diritti dei popoli indigeni, che alla vigilia della COP27 ha pubblicato una Guida per decolonizzare il linguaggio nella conservazione.
Secondo gli autori, quando si scrive o parla di questioni ambientali, bisogna dare il giusto peso ai termini e ai concetti utilizzati, specie nei casi in cui sottendono pratiche di tipo coloniale o addirittura razzista. È il caso delle parole e delle conseguenti politiche legate al tema della conservazione della natura, messe sotto accusa nel report di Survival International perché volte a celare le violenze e il furto di terra subiti da milioni di indigeni e da altre popolazioni locali da parte dell’occidente. Non è un caso che alcune di queste parole sono le stesse riecheggiate nei giorni appena trascorsi alla COP egiziana.
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Fare i conti col passato coloniale
Quando si rievoca il colonialismo e si tenta di fare i conti con un passato difficile e le sue conseguenze, il tema ambientale non è l’unico terreno sdrucciolevole. Il linguaggio, ad esempio, legato alle migrazioni dei popoli del Sud del mondo verso i paesi occidentali, in particolare l’Europa, risulta inscindibile dalla storia di dominio e sfruttamento su cui è basato il benessere del vecchio continente a discapito dei popoli “inferiori” conquistati in epoca coloniale. Secondo un’analisi pubblicata su Melting Pot Europa un discorso sulle migrazioni contemporanee non può scindere da un’attenta analisi del colonialismo e di quel passato coloniale ancora così vivo nel nostro presente.
La “conservazione fortezza” dei cacciatori coloniali
Nel report di Survival International, tra le parole sotto accusa troviamo “conservazione fortezza”, wilderness, “sovrappopolamento”, ma anche “compensazione e crediti di carbonio”, “soluzioni basate sulla natura”(Nature Based Solution) e net-zero.
L’assunto di base è che dietro queste parole si cela una storia di sopraffazione del mondo ricco e bianco sul mondo dei popoli che vivono a contatto con la natura e sono parte di essa. Nel nostro linguaggio, infatti, la “natura” è indipendente e distinta dagli uomini, mentre per i popoli indigeni è il paesaggio che vivono e gestiscono e di cui sono parte integrante e fondamentale. Non è un caso, si legge nel report, che “le principali organizzazioni internazionali per la conservazione sono state avviate o patrocinate da potenti e influenti cacciatori coloniali (come Theodore Roosevelt e il Principe Filippo), che continuano a sostenere un approccio razzista”.
La natura per ricchi
Molti parchi naturali, infatti, sono appannaggio di ricchi viaggiatori bianchi, ma interdetti alle comunità che vivono quei territori. L’idea stessa di wilderness, secondo Survival International, ovvero di terre “vergini”, “intatte” e “selvagge”, trova le sue radici negli USA della fine del XIX secolo ed è un mito coloniale: le terre furono descritte come vuote in modo da potersene appropriare. In realtà, “gli ambienti naturali più famosi al mondo – si legge nella guida – come lo Yellowstone, l’Amazzonia e il Serengeti sono le terre ancestrali di milioni di indigeni che per millenni li hanno plasmati, alimentati e protetti”. I conservazionisti, di contro, descrivono le foreste come intatte, sostenendo che nessuno le abita, per poter continuare a istituire “aree protette” senza il consenso della popolazione locale.
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Le parole controverse della crisi climatica
E non è tutto. Molti concetti utilizzati per descrivere l’attuale crisi climatica hanno un sottotesto “colonialista”. Per esempio, il tema della sovrappopolazione, causa diretta di un aumento delle emissioni, fa riferimento, in particolare, all’incremento demografico in Africa e in Asia. In realtà, “la vera causa della perdita di biodiversità, dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici – precisa Survival International – non è il numero crescente di persone nel Sud globale ma lo sfruttamento delle risorse finalizzate al profitto e il sovra-consumo trainato dal Nord”.
E ancora, quando si parla di “compensazione e crediti di carbonio”, non si fa altro che permettere a governi e aziende responsabili delle emissioni, di continuare a emettere, a fronte del finanziamento di progetti che, in teoria, “catturano” altrove l’ammontare equivalente di tali emissioni. È così che grandi brand si proclamano net zero e continuano a inquinare.
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Non basta piantare alberi
I progetti che generano crediti di carbonio – continua Survival International – volti soprattutto a piantumare alberi o limitare la deforestazione sono inefficaci e pericolosi per i popoli indigeni. Anche gli alberi, infatti, se vanno a sostituire ecosistemi preesistenti, come le praterie, finiscono “col devastare i mezzi di sostentamento dei popoli indigeni e locali, che per la propria sopravvivenza dipendono dalle risorse naturali del territorio”. Lo stesso vale per le soluzioni basate sulla natura. Sono tutte pratiche che non affrontano le reali cause dei cambiamenti climatici, ovvero le emissioni generate dai combustibili fossili e dello sfruttamento delle risorse naturali per il profitto, soprattutto, dei paesi del Nord globale.
Le parole della COP27
Uno dei concetti cardine delle discussioni alla COP27, non a caso, è quello del loss and damage (perdite e danni). L’espressione si usa per indicare il principio per cui i paesi più ricchi e inquinanti del mondo dovrebbero trovare il modo di risarcire i paesi più poveri e vulnerabili alla crisi climatica. In un articolo pubblicato su The Conversation il capo degli indigeni Huni Kui dell’Amazzonia fa notare che la stragrande maggioranza delle discussioni della COP di Sharm el-Sheikh non fa altro che riprodurre i modelli coloniali di crescita economica insostenibile, distruzione ecologica e spossessamento indigeno, responsabili in prima istanza dell’instabilità climatica.
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Le soluzioni per continuare il business
Il dibattito sembra concentrarsi sull’assunto che sarà il capitalismo multiculturale verde, una versione del capitalismo carbon neutral e più “inclusivo”, a impedire un’ulteriore catastrofe climatica. La maggior parte dei governi e delle multinazionali che finanziano e partecipano alla COP27 sembrano vedere nella crisi climatica un’opportunità di business.
“Questa mercificazione e commercializzazione della natura – sottolinea l’articolo – è ciò che ci ha messo in una situazione catastrofica. Nel frattempo, i ladri di terre, favoriti dalla grave siccità, appiccano incendi dolosi e distruggono vaste aree della foresta pluviale amazzonica per far posto all’agribusiness su larga scala”. L’obiettivo è incrementare le esportazioni per soddisfare la domanda dei paesi ricchi, a spese della vita della foresta e dei popoli indigeni, con effetti a catena in tutto il mondo. Lo stesso vale per la corsa allo sfruttamento delle miniere di materiali preziosi per favorire la così detta svolta digitale.
Il CO2lonialismo e la riparazione
La maggior parte delle soluzioni sul tavolo della COP, come la rimozione del carbonio land-based, i biocarburanti e le molte forme di “energia verde”, sono in realtà forme di “CO2lonialismo”, secondo il termine coniato dalla Indigenous Environmental Network. Questa tesi ritiene che, senza riconoscere i ripetuti errori commessi e senza lavorare con umiltà per una nuova forma di convivenza tra gli uomini e di relazione con il pianeta, non sarà possibile ottenere il cambiamento necessario per l’auspicata decarbonizzazione locale o globale. A questo fine anche la scelta delle parole a difesa del nostro pianeta può giocare un ruolo decisivo.
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