Anche i rifiuti tessili sono finiti nel vortice del New Deal della Commissione Ue, che ha chiesto agli Stati membri di raccoglierli in maniera differenziata dal 1 gennaio del 2025, uno dei tanti target sostenibili fissati dal pacchetto di direttive sull’economia circolare. L’Italia ha fatto di più, con il decreto legislativo n°116 del 2020 ha anticipato l’obbligo di tre anni, spostando le lancette all’indietro, all’1 gennaio del 2022. Tra poco più di sei mesi.
Un ammirevole slancio d’ottimismo che però rischia di stemperarsi nella realtà, che in questo caso è tante cose insieme e male assortite, la realtà di un settore dove fino a oggi si è mosso troppo informalismo e illegalità, dove se qualche passo in avanti lo si è fatto sul fronte del riuso, ben poco è stato fatto (quanto meno di meditato) su quello del riciclo. Le iniziative valide in tal senso non mancano mai nel nostro paese, come il recupero degli stracci che da metà dell’Ottocento porta avanti lo storico distretto del riciclo tessile di Prato oppure, più recentemente, la produzione di filati e fibre da scarti, come fa l’azienda Acquafil o come sta provando Hera con la sua controllata Aliplast avviando un progetto per la produzione di indumenti da plastica riciclata.
Ottime iniziative, anche se in generale è mancata una regia nazionale e, in assenza di governance, i singoli attori si sono mossi in ordine sparso. Come ripetono in ogni contesto gli operatori del settore, almeno quelli più illuminati, adesso non c’è più tempo da perdere per mettere a sistema le singole iniziative, che finora hanno potuto incidere poco. Se c’è in giro qualche tessera, manca ancora il mosaico da costruire, passo dopo passo.
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L’impronta ecologica del made in Italy
La riforma, i cui tempi adesso li detta l’obbligo al 2022 della raccolta differenziata, toccano uno dei settori di maggior pregio del nostro made in Italy – tessile, abbigliamento e moda (noto anche con l’acronimo Tam) – sia per il suo valore simbolico che per le dimensioni, coinvolgendo circa 45mila aziende e 398mila addetti, per fatturato che nel 2018 è stato di circa 55 miliardi di euro, quasi il 31% dell’intero comparto TAM europeo.
Essendosi mosso prevalentemente negli ingranaggi dell’economia lineare, con molte eccezioni, la sua impronta ecologica è quella di un gigante scalzo. Secondo il Circular Economy Action Plan della Commissione Europea, il tessile è il quarto settore per maggior uso di materie prime “primarie” e acqua (dopo alimentare, costruzioni e trasporti) e il quinto per emissioni di gas effetto serra. Secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente (AEA) questo settore sarebbe responsabile del 10% delle emissioni mondiali di gas a effetto serra, più dell’intero trasporto aereo e marittimo messi insieme. Ancora, gli acquisti di abbigliamento e prodotti tessili effettuati in Europa nel 2017 hanno generato 654 kg di CO2 per persona (AEA, 2019), colpa soprattutto del fast fashion, moda mordi e fuggi, caratterizzata da prodotti di qualità scadente, costantemente rimpiazzati.
Rispetto allo sfruttamento delle risorse idriche, nel 2015 l’industria tessile ha utilizzato 79 miliardi di metri cubi di acqua. Peraltro, l’Agenzia Europea dell’Ambiente (AEA) stima che la produzione tessile sia responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei vari processi a cui i prodotti vanno incontro, come la tintura e la finitura, e che il lavaggio di capi sintetici rilasci ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari. Il lavaggio di indumenti sintetici rappresenta il 35% del rilascio di microplastiche primarie nell’ambiente. Un unico carico di bucato di abbigliamento in poliestere può comportare il rilascio di 700mila fibre di microplastica che possono finire nella catena alimentare.
Non mancano i rifiuti, che comprendono sia le frazioni tessili (EER 200111) che l’abbigliamento (EER 200110). In Italia nell’ultimo censimento Ispra (2019) sono stati prodotti e raccolti in maniera differenziata 157,7 mila tonnellate di rifiuti urbani (sotto l’ombrello pubblico) – meno dell’1% del totale raccolto – e poco più di 335 mila di rifiuti speciali, ossia proveniente dal settore produttivo, poco più dell’1,2% sul totale prodotto dalla imprese. La media nazionale pro capite è di 2,6 kg/abitante, e se al nord e al centro si sfiora il 3%, al sud si è sotto il 2%, con la Sicilia che fa addirittura meno dell’1%. Nel Mezzogiorno, dunque, la filiera è tutta da costruire.
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In mancanza di una strategia nazionale
È evidente anche da questi dati che la gran parte dei flussi dell’abbigliamento usato finisca nei circuiti informali delle donazioni e in genere del riuso (settore al quale abbiamo dedicato recentemente un ampio Speciale), dove nel tempo si è strutturata una forma di imprenditoria spontanea ma efficiente, anche con proiezioni internazionali, che si articola, a sua volta, in canali più o meno strutturati e più o meno regolari. La gran parte delle frazioni tessili, molto disomogenee e in genere di minor valore (rispetto all’abbigliamento), finisce invece nell’indifferenziato, dove nel migliore dei casi potrà trovare una valorizzazione energetica – nei territori dove esistono gli impianti – anche grazie all’esplosione in commercio di fibre sintetiche che sebbene servano a produrre capi e manufatti di qualità scadente posseggono un buon potere calorifero, almeno quando incrociano una filiera capace di portarli ai termovalorizzatori.
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L’assenza di una strategia nazionale e di un disegno organico è palese anche dalla lettura dei dati di Ispra sui costi di gestione dei rifiuti tessili. Su un campione di 289 Comuni analizzati, i costi di raccolta e trasporto dei rifiuti tessili incidono sui costi totali per l’80,5% per i rifiuti classificati EER 200110 (abbigliamento), mentre incidono per il 55,7% per i rifiuti classificati con EER 200111 (tessile). Salato il conto soprattutto dove non si attivano né modelli efficienti di raccolta, né forme, seppure embrionali, di osmosi industriale. A livello di macro area territoriale, infatti, il costo di gestione risulta di 11,36 euro/kg al Nord – dove si fa più raccolta differenziata – e più del doppio al Centro, pari a 24,93 (a fronte di quantitativi pro capite annui conferiti rispettivamente pari a 3,27 e 1,59 kg per anno), e addirittura di 27,31 euro al Sud (in corrispondenza di un conferimento pro capite di 1,72 kg per anno). Dati che confermano come l’assenza di filiere organizzate si riverberano anche sui costi in bolletta, oltre che con i danni ambientali conseguenti.
Visto da questa prospettiva, l’obiettivo di mettere in piedi una filiera organizzata ed efficiente in questi sei mesi che rimangono prima che scatti l’obbligo di raccolta appare tutt’altro che semplice. La speranza è che con l’obbligo e con l’aumento significativo delle frazioni intercettate dai sistemi di raccolta si possa invertire l’attuale tendenza, incentivando sia gli investimenti che la razionalizzazione economica e gestionale dell’intera filiera, soprattutto in un’ottica di recupero, meglio ancora se in termini di materia.
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Puntare sui distretti industriali
Peraltro, l’Italia può giocarsi, a suo vantaggio, la carta della sua quasi naturale vocazione distrettuale, figlia anche dell’esigenza di dover fare rete per sopperire alle carenze di materie prime, considerato che più del 60% delle imprese tessili sono situate in Toscana, Lombardia, Veneto e Piemonte. Attivare una logica circolare almeno in questi distretti dovrebbe essere naturale, considerato che in alcune zone esiste già.
La vera cifra del salto di qualità si misurerà nella capacità di intercettare e valorizzare soprattutto le frazioni tessili generiche destinandole al riciclo, mettendo a disposizione di know how e tecnologia quanto il nostro paese è già capace di fare, evitando allo stesso tempo di spedire queste frazioni all’estero, prevalentemente dove le bieche leggi del mercato, dopato da legislazioni meno attente – sia a tutela dell’ambiente che del lavoro e dei diritti civili – e controlli meno serrati (per usare un eufemismo), come ci dimostra in maniera plateale la vicenda dei 212 container spediti dalla Campania in Tunisia, e ancora lì, al molo di Sousse, in attesa di una decisione di un tribunale (italiano o tunisino, ancora non si sa).
L’ecodesign dovrà necessariamente far parte di questo ragionamento circolare, progettando capi e manufatti facilmente disassemblabili e riparabili. Analoga importanza dovrà essere data alla qualità delle fibre impiegate e, soprattutto, alla loro omogeneità, fattori, entrambi, in grado di determinare l’effettivo grado e qualità del recupero. In sostanza, si tratterà di agevolare il passaggio dal cosiddetto fast fashion – che ha dominato le logiche commerciali degli ultimi venti anni dai grandi marchi con prodotti scadenti e figli della cultura dell’usa-e-getta – a una sorta di slow fashion, cioè di consumo consapevole e responsabile, capace di allungare fin dove possibile la vita dei prodotti, pe poi farli transitare, nuovamente, nel regno della materie.
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Le parole inglesi EPR e de-manufacturing per spiegarlo meglio
Dal dibattito in corso almeno altre due appaiono le strade certe che dovranno essere intraprese: una è l’attivazione di un modello di Responsabilità estesa del produttore (EPR in inglese), l’altra è accelerare la trasformazione da un modello basato esclusivamente sul manufacturing a un modello capace di inglobare anche il de-manufacturing.
Come già accade per altre filiere di rifiuti (imballaggi, PFU, RAEE, etc.) lo schema di EPR affida ai produttori/importatori la responsabilità (logistica e finanziaria) di raccogliere il fine vita dell’equivalente immesso nel mercato, sistema finanziato dal cosiddetto contributo ambientale. Trattandosi di un tema troppo complesso per esaurirlo in questa sede, si può solo aggiungere che la qualità dell’intero sistema (sia di raccolta che di valorizzazione) dipenderà dalla bontà o meno del quadro regolatorio che sarà definito, che per esperienza non può essere dato per scontato.
Quanto meno questo modello dovrebbe consentire di razionalizzare la filiera – ancora troppo articolata e frammentata –, incentivando maggiormente il recupero, mettendo quindi più facilmente a disposizione della aziende manifatturiere quelle frazioni di scarti che oggi spariscono dai radar. Questa razionalizzazione vale in modo particolare per l’Italia, paese privo di fibre naturali e storicamente dipendente dall’estero. Val la pena aggiungere che i settori interessati dalla maggiore disponibilità di materiali da re-inserire nella catena del valore non riguarderà esclusivamente il comparto tessile ma coinvolgerà altri settori manifatturieri (edilizia, nautica, arredi, etc.).
Rispetto al cambio di paradigma, dal manufacturing al de-manufacturing, l’industria della decostruzione di tessuti, materiali e oggetti per ricavarne il loro valore intrinseco è già oggi alimentata dalla costante richiesta di semilavorati e materiali da riciclo (soprattutto di fibre sintetiche, come quelle derivante dal trattamento delle plastiche) per produrre materiali innovativi, pannelli, elementi d’arredo. Sul lato della domanda un ruolo cruciale potrà svolgerlo la leva del Green Public Procurement (GPP) con i relativi criteri ambientali minimi (CAM) – in fase di revisione presso il Ministero per la Transizione Ecologica – affinché anche la spesa pubblica possa concorrere a trainare le aziende del riciclo e in generale le scelte di sostenibilità. Essendo il principale committente, lo Stato in ogni sua articolazione dovrebbe fare la sua parte, e farla fino in fondo. Se la domanda non manca, anzi dovrebbe crescere anche grazie a GPP, l’offerta dovrebbe trovare margini adeguati per ritagliarsi altri spazi, articolandosi senza troppi problemi.
L’ultima sfida?
In definitiva, la vera sfida per il mondo del tessile è quella di affiancare al mercato del riuso il sostegno e il rilancio del recupero di nuove materie prime-seconde e il loro impiego effettivo, modificando le logiche della produzione e del consumo in senso circolare. Se il mercato dell’usato può già godere di una sua forza intrinseca, alimentata da una selva di iniziative private e/ collettive, spesso particolarmente illuminate e spesso animate da sani principi solidaristici, il riciclo – sicuramente meno affascinante e di più difficile approccio, rispetto all’usato – ha pagato finora i costi più alti di una filiera poco e mal organizzata, avendo al contempo un potenziale enorme da mettere a disposizione del Made in Italy. E sarebbe davvero esiziale perdere il treno che sta per passare, e passerà puntuale, questa volta, allo scoccare del primo giorno dell’anno 2022.
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