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giovedì, Maggio 16, 2024

Emissioni, la corte olandese condanna Shell: per le industrie fossili arriva la stretta definitiva?

Fa discutere la condanna subita dalla multinazionale petrolifera a ridurre di quasi la metà le emissioni di gas serra entro il 2030. Anche per via dell'effetto domino che potrebbe avere sugli altri "campioni" dell'economia lineare, a partire dalla nostra Eni. Intanto per lo Stato arriverà a breve il Giudizio Universale

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Redazione EconomiaCircolare.com

Lo scorso 26 maggio la Royal Dutch Shell è stata condannata a ridurre del 45% le emissioni di CO2 entro il 2030. Il merito di questa vittoria storica è degli attivisti per il clima del gruppo olandese “Milieudefensie” di Friends of the Earth, che con il sostegno di oltre 17mila cittadini avevano sollevato il caso nel 2019.

Ma il caso Shell potrebbe davvero essere la prima della lista? O si tratta di un unicum dovuto alla particolare giurisprudenza olandese? Il “caso Shell”, ovvero la condanna subita dalla multinazionale petrolifera anglo-olandese a ridurre di quasi la metà le emissioni di gas serra entro il 2030, sta facendo discutere da ieri le redazioni di mezzo mondo. Non solo per il valore in sè della decisione o per gli enormi interessi in gioco – Shell è una delle aziende che faceva parte del “cartello delle sette sorelle”, così come lo definiva il patron dell’Eni Enrico Mattei, che nel 2020 ha fatturato 180 miliardi di euro – ma perché potrebbe scatenare un effetto domino nei confronti degli altri colossi dell’Oil&Gas e, più in generale, nei riguardi di coloro che fino a questo momento sono stati protagonisti dell’economia lineare che ci ha condotto alla crisi climatica in corso.

Una decisione, quella del tribunale olandese, che si somma a svariate iniziative in corso e a una sensibilità crescente sul tema della riduzione delle emissioni. Nonostante i tentativi di greenwashing delle aziende fossili, abili da una parte a raccontarsi come sostenibili e dall’altra a perpetuare nuovi impianti industriali con il rischio di ulteriori impatti ambientali.

L’emergenza climatica, infatti, sta diventando sempre più urgente, basti pensare che secondo il report pubblicato oggi dall’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) delle Nazioni Unite nei prossimi cinque anni la temperatura media globale del Pianeta aumebterà di 1,5 gradi.

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“Una sentenza storica”

La decisione del tribunale dell’Aia rappresenta una sentenza storica. Come ha sottolineato l’avvocato di Friends of the Earth Olanda Roger Cox: “Questa sentenza rappresenta un punto di svolta  nella storia. Si tratta di un caso di estrema rilevanza perché per la prima volta un giudice ha ordinato ad una società incredibilmente inquinante di rispettare l’accordo di Parigi. Questa decisione potrebbe avere conseguenze enormi anche per altre grandi aziende inquinanti”. Shell dovrà rispettare l’impegno formale sancito a Parigi nel 2015 da 196 Stati per contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto della soglia di 2 °C oltre i livelli pre-industriali, e di limitare tale incremento a 1,5 °C.

Secondo la corte il colosso del petrolio non ha messo in atto politiche sufficientemente “concrete” per ridurre l’impatto ambientale della propria attività: la decisione della giudice Larisa Alwin ha effetto immediato e da oggi l’azienda dovrà impegnarsi nel rendere rapidamente “più sostenibile” tutte le attività produttive.

Durante la causa partita lo scorso 1° dicembre Shell aveva presentato un piano per un taglio delle emissioni del 20% entro il 2030 per poi arrivare all’obiettivo di emissioni zero per il 2050. Il piano, però, prevedeva una soluzione “tappabuchi”, che avrebbe risolto il problema delle emissioni con dei pozzi sotterranei in cui depositare l’anidride carbonica emessa, una soluzione che ad oggi non è ancora tecnologicamente sostenbile e che non avrebbe potuto condurre a una riduzione della CO2 nell’immediato.

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Shell ricorrerà in appello alla sentenza ma la procedura potrebbe richiedere anni e nel frattempo l’azienda è tenuta ad attivarsi per rispettare la decisione del tribunale: “È urgente agire per contrastare il cambiamento climatico e abbiamo accelerato i nostri sforzi in questa direzione, continueremo a ridurre le emissioni ma la decisione della corte ci ha delusi e faremo ricorso”, ha replicato un portavoce di Shell.

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I timori di Eni

A guardare con interesse al “caso Shell” è certamente l’italiana Eni, che con l’azienda anglo-olandese condivide, tra gli altri, il contestato progetto OPL245 in Nigeria. Forse, però, come ha reso noto l’ong Re-Common, bisognerebbe parlare al passato, perché il governo della Nigeria ha scelto di “non autorizzare lo sfruttamento della licenza petrolifera OPL 245 a seguito della decadenza dei diritti e del permanere di processi penali in corso in Italia e in Nigeria per stabilire se l’intera operazione è stata macchiata da corruzione. La licenza per il blocco, che con la stima di 560 milioni di barili di petrolio è uno dei più grandi non sfruttati in Africa, è scaduta lo scorso 11 maggio, dieci anni dopo che Eni e Shell l’avevano acquistata per 1,3 miliardi di dollari in quello che rimane un affare molto controverso, segnato da un ampio strascico di indagini e processi”.

In ogni caso “il caso Shell” rischia di essere il secondo brutto colpo in pochi giorni per la storica azienda italiana. Sia perché l’Italia è tra gli Stati firmatari dell’Accordo di Parigi, sia perché la riduzione dei gas climalteranti annunciata dal cane a sei zampe ha come orizzonte temporale il 2050, mentre il tribunale dell’Aia ha dato a Shell meno di 10 anni di tempo per adeguarsi. E per un’azienda come Eni, che invece mira addirittura ad aumentare le estrazioni fino al 2024, per poi sostituire progressivamente il petrolio col gas (che comunque rimane una fonte fossile), rispettare l’indicazione olandese vorrebbe dire un sostanziale rovesciamento del modello di sviluppo finora portato avanti.

Infine la parte della sentenza in cui si critica una soluzione avanzata da Shell, ovvero quella dei pozzi sotterranei in cui depositare l’anidride carbonica emessa, se applicata in Italia vorrebbe dire sostanzialmente per Eni la bocciatura dell’impianto per la cattura e lo stoccaggio di carbonio a Ravenna, su cui l’azienda punta tantissimo nonostante lo scetticismo e le criticità avanzate da un ampio fronte trasversale.

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Le altre iniziative

Gli attivisti dei Paesi europei si stanno già mobilitando e anche in Germania lo scorso aprile la Corte costituzionale ha deciso che entro la fine dell’anno il governo dovrà rendere ancora più rigida la legge del 2019 sulla riduzione delle emissioni di gas per il cambiamento climatico. La causa contro la legge sul clima del 2019 era stata aperta da alcuni attivisti sostenuti da Greenpeace e Fridays for Future.

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Arriva il Giudizio Universale

Il 5 giugno, in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente, centinaia di cittadini, supportati da associazioni ambientaliste e istituzioni scientifiche, lanceranno il primo contenzioso climatico contro lo Stato italiano e chiederanno ai tribunali di giudicare la responsabilità per la propria inazione nel contrasto al cambiamento climatico. L’azione legale sarà presentata da Piazza Montecitorio, per dare un forte segnale al Parlamento in vista della prossima 26esima Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (COP26).

Per conoscere tutti i dettagli dell’iniziativa, intitolata Giudizio Universale, rimandiamo all’apposito sito – dove sulla home campeggia il conto alla rovescia all’appuntamento del 5 giugno, il giorno in cui sarà depositata la causa legale – e alla pagina Facebook – ricca di dati, grafiche e video che sottolineano l’urgenza climatica in corso. Affinché non sia troppo tardi.

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