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domenica, Dicembre 22, 2024

Quale strada per una moda più sostenibile? Dalla misurazione alla comunicazione

Dall'impronta ambientale di prodotto agli sforzi di sostenibilità delle aziende, dall’ecodesign al destino dei rifiuti tessili: la sostenibilità nella moda è una strada che tutti gli attori della filiera devono percorrere insieme. Ne parliamo nel panel organizzato da EconomiaCircolare.com ad Ecomondo

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Redazione EconomiaCircolare.com

Mentre molte e molti di noi si apprestano ad acquistare gli ultimi regali di Natale, milioni di abiti  e accessori vengono incartati e chissà quanti, concluse le festività, verranno gettati via sfuggendo alla filiera del riciclo, o finiranno dimenticati sul fondo nell’armadio. Ma quali sono le conseguenze di questo sistema di iperconsumo? E quali opportunità possono invece aprirsi oliando gli ingranaggi della filiera, e puntando in maniera sinergica sui tanti aspetti che compongono la sostenibilità? 

Per rispondere a questa domanda EconomiaCircolare.com ha organizzato, nella scorsa edizione della fiera di Ecomondo a Rimini, un panel composto da un nutrito gruppo di esperte ed esperti, rappresentanti di imprese, istituzioni e consorzi, moderato dalla giornalista Silvia Santucci, dal titolo “Innovazione, misurazione, comunicazione: roadmap per una moda sostenibile”. A partire dai dati dell’Agenzia Europea dell’Ambiente che vede nel 2020 il settore tessile come la terza fonte di degrado delle risorse idriche e dell’uso del suolo, si è cercato di definire i confini di un mosaico complesso ma che acquista completezza solo se viene guardato da tutte le angolazioni. Ne riportiamo di seguito alcuni dei passaggi più significativi.

Prima tappa: la misurazione

Ad indicare il punto di partenza del nostro viaggio per una moda più sostenibile è stata Serenella Sala, Responsabile unità risorse territoriali e valutazioni di filiera della direzione risorse sostenibili Joint Research Centre, della Commissione Europea, che ha spiegato in cosa consiste l’environmental footprint, o impronta ambientale di prodotto, che definisce regole precise, trasparenti e replicabili per la raccolta dei dati.

“Nel tessile ad esempio – ha spiegato –, dover raccogliere informazioni che vanno dalla fase di campo di coltivazione del cotone o l’estrazione dei derivati del petrolio che mi servono per materiali come il nylon, poliammidi ecc.; partire quindi dall’estrazione delle risorse e valutare tutte le informazioni legate alla trasformazioni di questi input in materiali e poi da questi materiali in prodotti, valutare che uso si fa di questo prodotto e poi capire qual è il destino. Poiché ognuna di queste fasi ha un profilo ambientale differente, tutti questi dati devono essere raccolti e tradotti in impatti ambientali”.

“La commissione europea – ha aggiunto –  ha sviluppato, nel 2013 e nel 2021 un loro aggiornamento delle raccomandazioni che coprono 16 diverse categorie di impatto: per un prodotto posso chiederti qual è l’impronta di carbonio ma anche quanta acqua mi serve, quali sono gli impatti sul suolo ma anche sulla tossicità perché molto spesso, soprattutto nelle filiere legate al tessile, possono essere utilizzate un elevato numero di sostanze chimiche sia che rimangono all’interno del prodotto e che quindi possono avere un impatto sul consumatore o che semplicemente vengono utilizzate in una fase di finissaggio e che vengono emesse nell’ambiente”. 

E proprio sugli impatti dell’industria tessile sull’acqua, e in particolare su mari ed oceani, ha posto l’attenzione Ambra Cozzi, project manager si One Ocean Foundation: “Quello che abbiamo notato dai nostri studi è che le aziende del tessile stanno lavorando molto sulle emissioni di gas serra ma anche sull’uso di materiali diversi e la diminuzione di sostanze chimiche che possono essere inquinanti, il problema è che non fanno la connessione, lo step successivo, di connettere questo tipo di problematiche al mare“.

Cozzi suggerisce poi che “è possibile agire in maniera diversa andando a cambiare proprio i processi produttivi, impattando in maniera positiva sul mare: andando non solo ad evitare l’impatto ma andando anche a migliorare le condizioni, come in tutta quell’opera di raccolta e riciclo dei rifiuti lasciati in mare, che vede aziende che utilizzano la plastica ripescata degli oceani per creare nuovi materiali o prodotti“.

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Progettare per innovare

Ma per arrivare a questi risultati, bisogna, come ricordiamo spesso su EconomiaCircolare,com, partire dalla progettazione. A tale proposito, Marco Pietrosante, vicedirettore ISIA Roma Design, ha posto l’accento sul ruolo che giocano i fashion designer in questo processo di cambiamento, per far fronte anche alle rinnovate esigenze di sostenibilità per la quali occorrono risposte progettuali concrete.

“Il fashion design – ha detto Pietrosante – può assumere in questo contesto un ruolo centrale, anche perché è uno degli elementi che incide in maniera più significativa su alcuni aspetti determinanti delle problematiche del contemporaneo. Credo quindi che i fashion designer abbiano un ruolo che gli deve essere riconosciuto: un onere e un onore, deve perciò essere messo nelle condizioni di poter dire una parola importante per  quelli che sono gli aspetti della contemporaneità”.

Tornando poi ai vestiti acquistati nell’impulso del Black Friday o magari frutto di un regalo di Natale poco gradito, ci siamo chiesti insieme a Luca Campadello, Strategic Development & Innovation Manager di Erion Textile, come spingere a tirare fuori quegli abiti dagli armadi per dargli una nuova vita. “Bisogna trovare – suggerisce – il modo di comunicare con i consumatori, prima di acquistare meno e acquistare più consapevole ma anche conferire correttamente, spiegando che se oggi gli operatori non stanno investendo in iniziative di riciclo delle fibre miste è perché di un milione di tonnellate di capi venduti ogni anno, dai canali formali, se ne raccolgono solo 160mila tonnellate quindi se non ci sono i volumi è difficile che l’industria parta. Inoltre, se i volumi ci sono ma di materiale di qualità di un’elevata complessità e poco riconoscibile, la sfida del riciclo diventa elevata”.

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Tra innovazione e buone pratiche 

Erika Francescon, Cofondatrice di SustainMe Hub ha poi acceso i riflettori sulle buone pratiche di un’azienda che si occupa di prodotti chimici per la conceria: si tratta certamente di un settore che può essere argomento di discussione da un punto di vista puramente etico, ma che può comunque migliorare il proprio grado di sostenibilità. “Si parla spesso di tessuto ma la difficoltà spesso sta nel materiali ausiliari, ad esempio i prodotti chimici per la conceria, un terreno molto controverso. Ma per la nostra opinione è una best practice, ad esempio, perché ha un bilancio di sostenibilità che non è un punto di partenza, come spesso fanno molte aziende, perché il cammino è iniziato vari anni fa. Ci sono diverse tipologie di prodotti ed alcuni sono a base d’acqua, hanno infatti iniziato a lavorare sull’innovazione attraverso un loro laboratorio di ricerca e sviluppo”.

E di buone pratiche ha parlato anche Andrea Betti, Project Manager di Beredo Program di Beste, si tratta una società benefit che offre un servizio ai brand della moda del lusso, andando a proporre soluzioni di economia circolare che prevedono il riciclo dei loro stessi scarti tessili. “Dal nostro punto di vista il tessile è sotto la lente anche perché ha un enorme potenziale di business proprio perché legato al fatto che può sviluppare un’enorme economia circolare data da una migliore gestione”. 

“La mission del nostro progetto – aggiunge – è quella di dire ad un brand che siamo in grado di offrire soluzioni di riciclo per tutte le principali composizioni tessili dei loro scarti, principalmente dello sfrido che cade dalla sala taglio perché pensiamo valga la pena di valorizzare il più possibile questo materiale“.

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Esigenze di mercato e attenzione alla selezione

Per quel che riguarda le certificazioni, strumento utile per comunicare la sostenibilità di una realtà, Grazia Cerini, Direttrice generale di Centrocot ha invece sottolineato: “Più ci spostiamo all’estero tanto più è necessario tenere sotto controllo tutti i processi e allora le certificazioni di sistema diventano importanti: la gestione dei prodotti chimici, gli impatti ambientali devono essere misurati lungo tutta la catena di fornitura e il tema dell’acqua e dell’impatto ambientale diventa una somma di misure spezzate. Il settore del tessile non è un settore che ha un’azienda forte, integrata e unica ma è la sommatoria di tantissime piccole aziende di filiera quindi questa è la fatica: dobbiamo andare passo dopo passo”.

Ma come può in questo quadro, muoversi l’industria della moda italiana per tenere il passo del mercato, senza allontanarsi dagli obiettivi di sostenibilità? Secondo Leonardo Raffaelli, componente del Consiglio della sezione Sistema moda di Confindustria Toscana Nord: “Siamo in un momento spartiacque: sotto il profilo dell’industria siamo continuamente attenzionati per essere performanti per nuove normative, sotto la parte dell’industria siamo quasi molto più avanti nel percorso che altri stanno cercando di fare sotto il profilo della chimica e dell’ambiente, però ricordiamoci che l’industria può fare la sua parte, perché oggi fare sistema può fare la differenza”.

“Davanti a tutta questa tempesta di normative – ha aggiunto – se tutti gli attori della filiera non si mettono poi a dialogare ai tavoli giusti, tutte queste filiere fragili un domani non ci saranno”.

Per Antonio Pergolizzi, analista ambientale del Laboratorio REF Ricerche, “Non è con il finanziamento di impianti fantasmagorici che noi creiamo il valore, il valore si crea dalla selezione. Basta guardare la borsa di Prato per vedere quanto costa il sacchetto con la raccolta degli indumenti, piuttosto che quella già selezionato con la lana o il cashmere che ha un valore estremamente più alto, quindi dobbiamo lavorare molto sulla selezione, che non ha necessariamente bisogno di grandi apparecchiature a differenza di come nel PNRR ci hanno imposto ad inserire nei progetti”.

A chiudere il nostro viaggio in una moda più sostenibile è stata, infine, Silvia Zaganelli, Business Development Manager di Twinset. “Abbiamo chiuso qualche mese fa la nostra prima impronta di carbonio aziendale, – ha raccontato – quindi abbiamo elaborato anche una corporate carbon footprint che si è rivelata molto utile: ha portato consapevolezza in azienda ed ha portato metodologia. Abbiamo iniziato a ragionare su dove sono questi dati, ci sono già, e poi le conclusioni sono state comunque interessanti perché si pensa di buttarsi a capofitto sull’attenzionare i materiali e invece, almeno per quanto riguarda la nostra realtà il prodotto finito pesa il 76%, quindi tre quarti delle nostre emissioni arrivano da acquisti di prodotto finito e metà di queste emissioni arrivano dai processi. Quindi attenzione, non ci sarà solo l’audit ma è necessario anche capire che mix energetico utilizza la filiera e soprattutto sulle fasi produttive più energivore, quindi non tanto quella che gestiamo noi, come la confezione che pesa meno del 5%, ma su fasi precedenti che stiamo provando ad indagare con il progetto di tracciabilità”.

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