L’Italia non ha bisogno di nuovi inceneritori “e lo diciamo non per questioni ideologiche, ma per motivi pragmatici che hanno solide fondamenta nello scenario operativo e nell’agenda ambientale Ue”. Lo Speciale di EconomiaCircolare.com sulla termovalorizzazione dei rifiuti prosegue con Enzo Favoino, coordinatore scientifico di Zero Waste Europe. Riusciamo a sentirlo al telefono tra un colloquio con il sindaco di Bucarest – “Gli stavano proponendo un inceneritore sovradimensionato”, ci racconta, “ma penso che lo abbiamo convinto che forse non è l’idea migliore” – e un tavolo istituzionale a Bruxelles.
Dottor Favoino, l’Italia esporta, a caro prezzo, grandi quantità di rifiuti urbani: circa 500 mila tonnellate ogni anno. C’è chi propone di realizzare fino a 6-7 impianti di termovalorizzazione per risolvere questo problema. Che ne pensa?
Cinquecentomila tonnellate sui 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani prodotti ogni anno non è un quantitativo rilevante, e può trovare altre risposte più immediate.
Uno degli argomenti più utilizzati per sostenere la necessità di inceneritori è l’export di plastica: per promuovere la costruzione di inceneritori si dice che non tutta la plastica è riciclabile, e quella non riciclabile viene spesso esportata. Ma se andiamo a vedere quali sono i Paesi in Europa che esportano più plastica sono Germania e Olanda (ed in quantitativi anche superiori all’export complessivo di rifiuti urbani in Italia!): due Paesi ricchi di inceneritori.
Non è dunque ricevibile l’equazione secondo cui si esportano plastica e rifiuti perché mancano inceneritori.
Prendiamola da un altro punto di vista. Mentre l’Europa ha fissato l’obiettivo di portare in discarica meno del 10% dei rifiuti entro il 2035, l’Italia ancora ricorre alle discariche per oltre il 20%. Gli inceneritori possono essere una soluzione?
Il 20% non è tanto se prendiamo come riferimento la media europea [che sfiora il 40%, ndr]. E mettiamola in prospettiva: quando trent’anni fa abbiamo iniziato a promuovere raccolte differenziate e migliore gestione del fine vita dei materiali, eravamo al 90%. Invece di stracciarci le vesti, dunque, è forse più saggio guardare quanta strada abbiamo fatto, ammettere che la strategia da noi a quel tempo indicata (e spesso osteggiata proprio da chi gestiva o proponeva inceneritori) ha funzionato, e proseguire in tale direzione per erodere ulteriormente il ricorso, ormai marginale, alla discarica.
Ci sono però Paesi – con inceneritori – che hanno dati bassissimi relativi alle discariche.
In realtà le statistiche di Germania e altri Paesi che riferiscono di un 1% o 0,5% risentono di una distorsione statistica che riguarda non a caso scorie e ceneri da incenerimento. Questi materiali, che pure finiscono per la gran parte in discarica (solo una parte delle scorie viene recuperata) non vengono più contabilizzate come immessi in discarca ma vanno a finire tra i rifiuti speciali. Quindi siamo ben oltre lo 0,5-1%, come ci è stato confermato da indagini specifiche e confronti – costruttivi – che abbiamo avuto con gli operatori di quei Paesi.
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Resta il fatto che l’Europa per le discariche ha fissato un obiettivo del 10%.
Zero Waste Europe, assieme a tanti altri network (anche di operatori dei rifiuti) lavora quotidianamente alla definizione delle politiche europee, soggette ad un complesso percorso molto formalizzato basato su evidenze scientifiche, consultazione degli stakeholders, trilaterazione delle decisioni tra le istituzioni UE, e così via. Bene: per il landfill cap al 10% non c’era e non c’è nessuna giustificazione nei documenti e negli studi scientifici alla base del cosiddetto “Extended Impact Assessment” (ExIA) che ha guidato la definizione del Pacchetto UE sulla Economia Circolare. Il landfill cap nacque semplicemente da una proposta di una eurodeputata.
Una proposta basata sull’idea che l’incenerimento è comunque meglio della discarica. Il che, forse, poteva anche essere vero trenta anni fa, quando la strategia del riciclo e della riduzione erano nella loro infanzia, quando le discariche non erano “discariche sanitarie” come quelle che abbiamo oggi, quando non c’era l’obbligo di pretrattamento stabilito dalla Direttiva 99/31, e quello di separazione dell’organico che avremo in tutt’Europa, come previsto dalla Direttiva quadro sui rifiuti, a partire dal primo gennaio 2024 – e in Italia è addirittura stato anticipato alla fine di quest’anno, perché abbiamo già 50 milioni di connazionali che separano l’organico (un’altra magnifica evidenza di come l’Italia sia stata capace di quella trasformazione da noi invocata e promossa all’inizio degli anni ’90, e da molti a suo tempo osteggiata). Tutte queste indicazioni e strategie operative minimizzano le emissioni di metano e l’environmental footprint delle discariche, come riconoscono ed evidenziano le LCA (analisi del ciclo di vita, ndr) fatte bene e che considerano lo scenario regolamentare Ue.
Insomma Zero Waste Europe vorrebbe invertire gli ultimi anelli della gerarchia europea dei rifiuti (riuso-riciclo-incenerimento-discarica).
Mi rendo conto che possiamo dare questa impressione ma non è così. Lo premettiamo sempre: non amiamo la discarica. Siamo tra quelli che più di tutti vogliono minimizzare la discarica, lo abbiamo nella nostra “ragione sociale” e abbiamo dedicato alla cosa la nostra vita professionale. Ma non intendiamo cadere dalla padella nella brace. Voglio ricordare che ci sono stati già due voti ufficiali dall’Europarlamento – uno di febbraio nell’ambito della votazione del Circular Economy Action Plan; uno di fine settembre per la strategia sul metano – rivolti alla Commissione che chiedono che nella revisione di medio termine del pacchetto economia circolare, prevista nei prossimi 2 anni, la direttiva discariche venga rivista eliminando il landfill cap: che è inutile e lavora contro la visione stessa dell’economia circolare. Piuttosto, abbiamo convinto l’Europarlamento che in luogo del landfill cap, che contraddice l’agenda europea, va adottato un “residual waste cap” (un limite alla produzione di rifiuto residuo in kg/abitante/anno), dato che in una Europa vocata all’economia circolare il problema è il rifiuto residuale, che vada in discarica o in inceneritore.
Per questo penso che si possa dire che è altamente probabile che ci sia una revisione/cancellazione del landfill cap al 10%, su cui alcuni si affrettano a proporre programmazioni, pur essendo tale “cap” lontano nel tempo.
Ma a proposito di discarica, e della sua minimizzazione che ci sta assolutamente a cuore, vorrei aggiungere una cosa.
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Dica pure.
Le cito un dato fondamentale. Sa dove si registra la più alta produzione di rifiuti urbani in Europa? Non nelle due isole turistiche per eccellenza, Malta e Cipro, dove appunto ci si aspetta che i turisti spostino l’ago della bilancia. No. In Danimarca, che abbiamo già ricordato essere la patria dell’incenerimento: 850 kg/abitante/anno contro una media europea di circa 500 kg. E la cosa, alla luce della strategia europea sulla gestione sostenibile dei rifiuti e sulla economia circolare, è un problema.
Facciamo due calcoli. In Danimarca – che è un Paese modello in termini di sostenibilità in altri settori ambientali, come la mobilità, ma non certo nella gestione dei rifiuti – si incenerisce circa il 50% circa dei rifiuti. Se calcolo il 50% di quei 850 chili per abitante fa 425 chili procapite, da cui derivano scorie e ceneri: più di 100 chili per abitante. Orbene, si paragoni tale dato con i territori che senza inceneritori stanno pienamente dispiegando il potenziale dell’economia circolare: la Slovenia, oppure in Italia la provincia di Treviso, che non è piccola, ha 1 milione di abitanti e produce 50 chilogrammi/abitante/anno di rifiuto residuo. Sulla base di tali evidenze, domando: chi sta minimizzando la discarica?
È tempo di smetterla di sostenere che se non ho gli inceneritori alimento le discariche.
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Dottor Favoino, ma almeno gli inceneritori rispetto alle discariche producono energia.
Altro argomento che poteva avere un senso 30 anni fa: produciamo energia così sostituiamo altre fonti fossili. Ma all’epoca il mix energetico medio in Europa era fatto in prevalenza di petrolio, carbone e gas fossile, con un’impronta carboniosa media di circa 600-700 grammi di CO2 per ogni kWh prodotto. Oggi invece il mix energetico medio nazionale e quello europeo, abbastanza allineati, sono attorno ai 250 grammi di CO2 per ogni kWh. Mentre l’incenerimento sta tra 700 e 800 grammi circa per kWh. Dal punto di vista delle strategie di decarbonizzazione e di lotta al cambiamento climatico, produrre energia mediante incenerimento è un suicidio.
Questi dati valgono anche per gli impianti cosiddetti di ultima generazione?
Si, su questo versante si può fare poco. Anzi, è probabile che la concentrazione progressiva di plastiche non da imballaggio tra i rifiuti urbani residui stia peggiorando il quadro emissivo per i gas serra. Gli inceneritori possono abbattere diossine e furani, metalli pesanti, ossidi di azoto, ma sui gas serra poco possono. Alcuni parlano di introdurre il CCS (Carbon Capture and Storage), ma senza cognizione di causa su costi e fattibilità operativa di larga scala – a parte le incertezze sulle reali capacità dei siti geologici di garantire l’intrappolamento nel lungo termine, solo pochissimi siti di incenerimento sono adatti per localizzazione, distanza dai siti di stoccaggio, e costi indotti.
Tanto che la stessa Danimarca, patria dell’incenerimento che si è posta l’obiettivo della carbon neutrality al 2050, visto che uno dei maggiori contributori di CO2 è proprio il settore dell’incenerimento ha annunciato pubblicamente un piano di decommissioning per il 30% della capacità complessiva, unica strategia sicura per diminuire la “carbon footprint” della gestione del residuo.
E le dico di più. Se nella citata Treviso avessero realizzato, come volevano fare, due inceneritori, non sarebbe diventata la provincia più avanzata in Italia, in Europa e nel mondo per quanto riguarda la raccolta differenziata. Perché ove ci sono inceneritori, si crea la necessità di assicurare il ritorno dell’investimento, per tecnologie che non sono convertibili e sanno fare solo quello: bruciare quantitativi prefissati di rifiuto residuo.
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La sua ipotesi su Treviso è difficile da dimostrare, non crede?
Le faccio allora un paragone illuminante. Quello tra Olanda e Danimarca da una parte, che hanno puntato sugli inceneritori e che negli ultimi 10 anni sono rimaste ferme agli stessi livelli di raccolta differenziata: circa il 50%. E la Slovenia dall’altra: passata dal 3 al 70% nello stesso periodo. Perché ha scelto di non costruire l’inceneritore a Lubiana, non soffre delle relative rigidità di sistema, e continua a lavorare per il pieno dispiegamento delle varie potenzialità della riduzione, riuso, riciclo e riprogettazione di beni e servizi a ciò finalizzata.
La questione è che dove c’è un inceneritore spesso non si arriva a definirne la data di spegnimento, perché nei piani finanziari degli impianti non c’è il costo del decomissioning finale, e così alla fine del piano di ammortamento si è costretti a prevederne il revamping, e dunque tenerli accesi per altri lustri.
Entra in gioco la questione della gestione finanziaria: parliamo di tecnologie capital intensive, che devi far funzionare per il tempo previsto e per il tonnellaggio previsto. Anche quando questo contrasta con l’agenda dell’economia circolare. Questo non lo diciamo solo noi, ma la Comunicazione del 2017 della Commissione Europea sul ruolo del waste to energy nell’economia circolare. Che afferma che in Europa occidentale abbiamo già troppi inceneritori, con territori in sovracapacità dove bisognerebbe cominciare a tassare l’incenerimento e a spegnere gli impianti. Motivo per il quale in tutti i più recenti strumenti di finanziamento, inclusi i Fondi Regionali ed i Recovery Funds, la UE ha detto chiaramente che l’incenerimento non è finanziabile, in base al principio “DNSH”, ossia “non causare un danno significativo” alla economia circolare. Non a caso, diversi territori (tra i più recenti, Catalogna, Scozia, Fiandre, Danimarca) stanno adottando una moratoria su nuovi impianti, o annunciano lo spegnimento progressivo di quelli esistenti.
Ora: con la finanziarizzazione dell’incenerimento si va a rallentare, a volte a impedire, l’evoluzione virtuosa del sistema verso riduzione, riuso, riciclo. Si produce quello che in termini tecnici esperti ed operatori internazionali chiamano il “lock-in”, l’ingessamento del sistema.
Posso farle una valutazione conclusiva?
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Certo.
Siccome siamo persone che amano cambiare il mondo per il meglio, sappiamo che la cosa richiede molto pragmatismo, una virtù che pratichiamo dall’inizio delle nostre attività, e che ci ha guadagnato la credibilità delle istituzioni UE e dei governi nazionali e locali. Bene, tale pragmatismo ci rende consapevoli che i circa 40 inceneritori italiani non si possono spegnere dall’oggi al domani, cosa che non abbiamo mai chiesto perché conosciamo le implicazioni problematiche dei piani finanziari, e la definizione delle strategie ed opzioni alternative. Ma di certo si possono iniziare a tematizzare piani di decommissioning, che accompagnino, come nelle Fiandre e in Danimarca, verso una exit strategy.
In agenda, per riassumere, ci deve essere la riduzione progressiva del ricorso all’incenerimento. Non certo nuovi inceneritori.
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