È estate, la calura imperversa e l’unica salvezza, pensiamo in molti, non può essere che il mare. Così ci riversiamo sui litorali per trovarlo lì, quel magnifico specchio d’acqua color cielo, che potrebbe davvero salvarci a patto che, finalmente, ce ne prendiamo cura. Dati alla mano, nuotiamo in un mare di immondizia, più precisamente, in un mare di plastica. L’ambiente acquatico è la destinazione finale della maggior parte dei rifiuti abbandonati o erroneamente smaltiti. Di questi l’80% è costituito dalla plastica, nelle sue varie forme. Ogni anno, circa 12.2 milioni di tonnellate di plastica finiscono in mare – di cui più dell’80% provengono da attività terrestri – mettendo in pericolo l’ecosistema marino e, in ultima analisi, la nostra salute.
Nel mare più plastica che pesci
Si stima che nel 2050 in mare ci sarà più plastica che pesci. Già oggi migliaia di pezzi di spazzatura galleggiano su ogni miglio quadrato di oceano. E l’inquinamento peggiore è quello che non si vede. A livello globale sono stimati circa 51 trilioni di particelle di microplastica e microfibra nei nostri mari. Si tratta di frammenti microscopici, di dimensioni tra i 300 micrometri e i 5 millimetri, che derivano dalla degradazione di oggetti plastici e dei tessuti sintetici rilasciati soprattutto durante il lavaggio in lavatrice.
A partire da queste evidenze, c’è chi ha deciso di rimboccarsi le maniche, come hanno fatto la ricercatrice del Politecnico di Torino, Tonia Tommasi, insieme alla biologa Patrizia Pretto e al EU Joint Research Centre, avviando un progetto spontaneo sullo stato di salute del mediterraneo e sull’inquinamento invisibile a occhio nudo.
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Marine litter vs Citizen science
Come nota la relazione sugli effetti dei rifiuti marini sulla pesca al parlamento europeo, infatti, la massa cumulativa di rifiuti galleggianti in superficie rappresenta solo l’1 % della plastica nell’oceano. Così le famose zattere galleggianti di rifiuti che fanno tanto scalpore, sono solo la punta di un iceberg. Il 70% dei rifiuti immessi nel mare finisce sul fondale. Secondo le ultime ricerche scientifiche, il livello di inquinamento da materie plastiche nell’oceano è stato ampiamente sottovalutato e persistono ancora oggi grandi lacune nelle conoscenze oceanografiche. È per questa ragione che l’attività di ricerca sulla dispersione dei rifiuti nel mare, specialmente quelli che non si vedono, è essenziale per comprendere meglio la portata dell’inquinamento nel quale nuotiamo.
Il progetto MicroMar
È con questa intenzione che è stato ideato il progetto MicroMar, lanciato alla fine del 2020 con l’obiettivo di monitorare la presenza di microplastiche e microfibre nel Mar Mediterraneo. L’approccio utilizzato è “citizen science” (letteralmente, scienza dei cittadini). Si riferisce a una ricerca scientifica che si avvale del coinvolgimento dei cittadini, per una loro piena consapevolezza. A monitorare il mare attraverso la raccolta di campioni d’acqua sono, infatti, proprio cittadini comuni, studenti e ONG, con il coordinamento del Politecnico di Torino e con la collaborazione scientifica, per l’analisi delle provette, dell’Istituto Oceanografico Scripps di San Diego e dell’Università Federico II di Napoli.
“Il progetto – racconta la docente Tania Tommasi – è nato in maniera totalmente volontaria, a partire dalla consapevolezza, spesso tardiva, degli effetti delle nostre azioni sull’ambiente”. MicroMar muove anche dal presupposto che tutti possiamo dare una mano a salvare il nostro mare. Sono sempre più numerose, per fortuna, le associazioni di cittadini, che si organizzano per pulire le spiagge o raccogliere i rifiuti galleggianti. Meno diffusa è la consapevolezza della presenza nell’acqua dei residui microplastici e di microfibra, impossibili da individuare senza apparecchiature adeguate. È questo il carattere innovativo di MicroMar, che coinvolge centri di ricerca avanzati capaci di filtrare ed individuare le micro-particelle. “Sotto la scala del millimetro, a livello micro – ci spiega ancora la ricercatrice del politecnico – è molto difficile individuare le plastiche, servono strumenti adeguati sui quali stiamo lavorando”.
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Amici del mare, chiamata a collaborare
Sono già molte le ONG, enti Parco e associazioni – come Sea Shepherd, Parco Marino Miramare del WWF a Trieste, il Cestha, il Centro Studi Cetacei Pescara, il Parco Regionale Riviera di Ulisse, l’Associazione No-profit TartAmare in Toscana, Free divers Erice, Free divers Torino, Egadi Passione blu, WWF Molfetta – che aderiscono all’iniziativa sguinzagliando i propri attivisti a raccogliere i campioni di acqua marina. Ma il progetto è in itinere, dunque aperto a nuove collaborazione ed adesioni. Per chiunque voglia partecipare e dare una mano a monitorare il mare nostrum basta mettersi in contatto con i responsabili del progetto. Per il momento sono 70 le persone coinvolte, per un totale di 180 campionamenti effettuati e inviati al Politecnico, dove vengono filtrati e preparati per le successive analisi, che quantificano la presenza delle particelle plastiche nel mare. Parallelamente, sono in programma eventi di divulgazione scientifica sul tema, per sensibilizzare ulteriormente la cittadinanza.
La plastica che si vede e le spiagge di cicche di sigaretta
L’idea di MicroMar non è isolata. Anche l’Agenzia europea dell’ambiente utilizza un approccio simile, per il monitoraggio delle plastiche, in questo caso visibili a occhio nudo, con il suo Marine LitterWatch. Un progetto che combina l’impegno dei cittadini e la tecnologia per aiutare a ridurre i rifiuti nel mare. Marine LitterWatch ha messo a punto alcuni strumenti – una app, un portale web e un database pubblico – per raccogliere e condividere dati comparabili sui rifiuti marini ritrovati sulle spiagge. L’app Marine LitterWatch permette a chiunque voglia scaricarla di partecipare al monitoraggio dei rifiuti marini, in questo caso, visibili a occhio nudo. Secondo gli ultimi dati, su quasi 700.000 articoli raccolti, la plastica usa e getta costituisce il maggior contributo all’inquinamento dei mari. Non fa onore ai bagnanti europei, inoltre, rilevare che i mozziconi e i filtri di sigaretta sono i singoli articoli più comunemente trovati sulle spiagge.
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Tutta colpa della plastica?
Come abbiamo visto, ci sono non poche ragioni per considerare la plastica una nemica dell’ambiente e del mare. Sia a livello europeo che nazionale, sono in discussione misure volte a limitarne l’uso, come la messa al bando di alcuni prodotti e le proposte di plastic tax. Tuttavia la plastica rimane per molti versi un materiale ancora indispensabile. A livello globale vengono prodotti 359 mega tonnellate di prodotti in plastica all’anno, di cui solo il 30% è collezionato per il riciclo. Ancora oggi non è stato trovato un materiale “sostituto” altrettanto leggero, riciclabile, economico e sicuro (per esempio per la conservazione dei prodotti alimentari).
Per alcuni, la “criminalizzazione” di questo materiale non è l’unico approccio utile a risolvere il problema. La plastica, infatti, è un materiale altamente riciclabile che, se trattato nel giusto modo, potrebbe costituire una soluzione al problema che esso stesso crea. Per esempio l’associazione europea Plastic Recyclers sostiene che con un approccio di economia circolare, i rifiuti plastici – almeno quelli visibili – potrebbero essere recuperati attraverso la pulizia di oceani e spiagge ed essere restituiti all’economia attraverso il riciclo. Il riuso del materiale attraverso la creazione di nuovi prodotti resta, infatti, uno dei modi più efficienti di gestione dei rifiuti di plastica.
Per vincere la battaglia della tutela del mare bisogna affinare ancora molte armi. Ma oltre a sistemi di ricerca, di leggi e di produzione adeguati, certamente è di grande aiuto una cittadinanza consapevole. Scelte anche semplici come non buttare le cicche di sigaretta in spiaggia o fare bene la raccolta differenziata possono fare la differenza.
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