Gli italiani sono abituati ad avere accesso ad acqua pulita e in molti casi potabile, con grande facilità. Eppure, emergenze climatiche e una cattiva gestione delle infrastrutture stanno portando già diverse città a un razionamento dell’acqua. Che sia la previsione di uno scenario futuro che sarà comune a sempre più persone oppure no, quel che dovrebbe spingerci verso una gestione dell’acqua davvero efficace è un solo pensiero: l’acqua non è una risorsa illimitata.
L’acqua che consumiamo
Secondo le statistiche sull’acqua dell’Istat, nel 2020 il 67,4% di persone di 14 anni e più è stata attenta a non sprecare acqua. Questo potrebbe essere segno di una nuova sensibilità portata da giovani movimenti ambientalisti ma, a guardare bene i dati di consumo, siamo ancora ben lontani da un uso consapevole di una risorsa così preziosa.
Stando ai numeri forniti dal rapporto Acqua in rete pubblicato nel 2021 da Legambiente, i maggiori consumi di acqua relativi ai capoluoghi di provincia del nord, centro, sud e isole si registrano proprio nelle nostre case. Seguono i consumi per uso civile, relativi ai luoghi pubblici come scuole e municipi, poi quelli produttivi, ovvero in agricoltura, zootecnia e industria, e infine gli usi gratuiti, cioè gli usi che riguardano le fontane pubbliche, le fontanelle, l’acqua utilizzata per l’innaffiamento di parchi e giardini, gli usi per l’antincendio e la pulizia delle strade.
Tra le città con maggiori consumi domestici troviamo al primo posto dei capoluoghi del nord Milano (136 milioni di metri cubi), al centro Roma (196 milioni di metri cubi) e per le città del sud, Napoli (51 milioni di metri cubi). Guardando a quelle che consumano meno ci sono al nord Sondrio (1,3 milioni di metri cubi), al centro Frosinone (1,6 milioni di metri cubi) e al sud Enna (1 milione di metri cubi). I capoluoghi di provincia delle regioni del centro sono quelle che consumano più acqua potabile per gli usi domestici, così come per i consumi civili e per gli usi gratuiti.
Prima di arrivare ai nostri rubinetti, l’acqua viene prelevata, cioè captata o derivata ad uso potabile da diversi corpi idrici (acque sotterranee, corsi d’acqua, laghi, bacini artificiali, acque marine e salmastre) attraverso delle specifiche opere di presa. Successivamente viene immessa nelle reti di distribuzione comunali – l’acqua di uso potabile addotta da acquedotti o proveniente da apporti diretti da opere di captazione – e infine viene erogata.
L’Italia è prima in Europa per prelievi di acqua a uso potabile con oltre nove miliardi di metri cubi all’anno. In molti casi si registra una grande differenze tra i metri cubi di acqua immessa rispetto a quella erogata: ciò è con tutta probabilità dovuto alle perdite di rete, molto più accentuate al sud e nelle isole rispetto al resto d’Italia.
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L’acqua che sprechiamo
La dispersione idrica è un problema annoso del nostro Paese: rappresenta una grave mancanza nella gestione, e senza una risoluzione in questo senso resta difficile immaginare una filiera virtuosa dell’acqua in un sistema di economia circolare.
Stando ai dati di Legambiente, nelle città italiane fino al 78% (Frosinone, 2019) dell’acqua distribuita può “sparire” attraverso le perdite nella rete di distribuzione.
Per quanto riguarda le perdite medie, si va da un minimo del 15% di perdite nella provincia di Trento a un massimo del 66% di perdite per la Regione Molise. I problemi maggiori riguardano principalmente il centro-sud.
Scendendo di un ulteriore dettaglio, secondo gli ultimi dati del rapporto Ecosistema Urbano di Legambiente relativi al 2020, i 3 capoluoghi di Regione con le perdite maggiori sono Campobasso (68,2%), Catanzaro (55,6%) e Bari (49%). I capoluoghi di regione più virtuosi, cioè con perdite minori sono invece Milano (13,7%) Trento (15%) e L’Aquila (24,3%).
Meno acqua per tutti
L’Italia è tra i Paesi europei soggetti ad uno stress idrico medio-alto: utilizza in media tra il 30% e il 35% delle sue risorse idriche rinnovabili, a fronte dell’obiettivo europeo di efficienza che prevede di non estrarre più del 20% di quelle rinnovabili disponibili.
Il 26% della popolazione è esposta a un forte stress idrico a causa anche della crisi climatica e dell’emergenza siccità.
Le criticità legate alla disponibilità della risorsa idrica sono diventate sempre più rilevanti negli ultimi anni, soprattutto al Sud, dove una forte arretratezza dell’infrastruttura idrica, si somma ai problemi di qualità dell’acqua e alla riduzione della portata delle fonti di approvvigionamento.
Secondo i dati Istat, nel 2019 nove comuni capoluogo di provincia e città metropolitane del Sud hanno fatto ricorso a misure di razionamento nella distribuzione dell’acqua, attraverso la riduzione o sospensione dell’erogazione dell’acqua potabile.
Nel 2019 nei comuni di Enna, Chieti, Cosenza e Reggio Calabria, la sospensione della distribuzione dell’acqua potabile è stata estesa a tutto il territorio comunale, solo in alcuni giorni o in fasce orarie e giorni alterni.
Il razionamento solo per una parte del territorio comunale ha interessato invece ben 255mila persone in cinque comuni del sud: Avellino, Trapani, Caltanissetta, Palermo e Agrigento. La situazione più critica è stata per Agrigento, dove l’erogazione dell’acqua è stata sospesa o ridotta in tutti i giorni dell’anno, con turni diversi di erogazione estesi a tutta la popolazione residente.
E per alcune di queste città la situazione non è nuova: a Trapani, Palermo, Agrigento e Caltanissetta, ad esempio, misure simili vengono attuate ogni anno, da oltre dieci anni.
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Il costo dell’acqua
Come è emerso anche nel Forum Acqua di Legambiente, in questi ultimi anni sono diverse le norme che si stanno rivedendo in ambito europeo per quel che riguarda la gestione dell’acqua: la Bathing Water Directive sulle acque balneabili, la Sludge Directive sui fanghi di depurazione, Urban Waste Water Treatment Directive sulle acque reflue, la Energy Efficiency Directive (EED) sull’efficienza energetica e la Renewable Energy Directive (RED), sulle energie rinnovabili. Cui vanno aggiunti il Green Deal Europeo e il Next Generation Europe.
Finora l’Italia ha fatto fatica a stare al passo con le direttive europee, tanto che le procedure di infrazione a carico dell’Italia per la mancata depurazione delle acque reflue costano al Paese 60 milioni di euro all’anno. Per evitare ulteriori sanzioni, si sta ora lavorando su 96 interventi in tutta Italia, due terzi dei quali in Sicilia e gli altri in Calabria, Campania, Basilicata, Puglia e Lazio.
Questa evidente discrepanza tra nord e sud rientra nel cosiddetto water service divide, espressione che viene utilizzata per indicare il gap che intercorre tra centro, nord e sud Italia, sia in termini di servizi che infrastrutture. A onore del vero, il sud vanta diversi esempi virtuosi come i progetti dell’università di Bari in collaborazione con CNR in Puglia, ma questi esempi di eccellenza non bastano a compensare il divario.
Il problema poi è a monte: in alcuni territori il Testo Unico Ambientale (TUA) non viene applicato. Inoltre, la legge Merli del 1976, che tra le altre cose include l’obbligo di depurazione, e la legge Galli del 1994, che prevede il superamento della frammentazione sul territorio nella gestione del ciclo delle acque e l’accorpamento del sistema in un unico servizio idrico integrato, non sono ancora state attuate.
È evidente come l’unica soluzione possibile per far fronte alla crisi idrica sia che la filiera del potabile, dell’agricoltura e dell’industria lavorino di concerto, creando un sistema circolare di riuso dell’acqua su diversi livelli, da quello domestico, a quello industriale, ai sistemi di irrigazione ma anche agli usi urbani. Eppure, nel nuovo Piano d’azione per l’economia circolare (Circular Economy Action Plan-CEAP) l’acqua non riveste un ruolo centrale: la Commissione si riserva la possibilità di rivedere le direttive relative al trattamento delle acque reflue e ai fanghi di depurazione solo per la gestione dei nutrienti. C’è dunque ancora molto lavoro da fare ma il tempo stringe.
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