[di Silvia Zamboni su La Nuova Ecologia del 19.12.2017] Oggi la domanda da porsi è quanti benefici si possono produrre attraverso le imprese. A sostenerlo è l’economista Kate Raworth nel suo ultimo libro, in cui parla di una ciambella
Bisogna che l’economia circolare parta col piede giusto. Oggi se ne parla sempre di più: il punto è praticarla nel modo corretto». È preoccupata Kate Raworth, brillante economista che insegna management ambientale all’università di Oxford. Nel suo ultimo libro L’economia della ciambella (Edizioni Ambiente, 2017), Raworth traccia i confini di un’economia circolare all’insegna non solo della sostenibilità ambientale, ma anche della giustizia sociale. Nella metafora della ciambella, il buco rappresenta la fetta di umanità deprivata dei diritti basilari per condurre un’esistenza degna; la ciambella sta per l’umanità che vive in condizioni di equità e sicurezza esistenziale; infine, lo spazio all’esterno disegna i limiti ecologici che non vanno superati, pena i cambiamenti climatici, l’acidificazione degli oceani, la perdita di biodiversità, il consumo fuori controllo di suolo vergine, e altro ancora. Per portare tutta l’umanità nella ciambella senza debordare nella zona dei limiti ecologici, Raworth fissa alcuni obiettivi-base: superare l’indicatore Pil, che non garantisce tutta l’umanità, e passare a un’economia alimentata dall’energia solare e integrata con la natura e la società. Coltivare la natura umana, superando lo stereotipo dell’homo homini lupus e passare a un’economia più ridistributiva del valore che genera. Infine, progettare e produrre in maniera rigenerativa, non distruttiva, e abbandonare il must della crescita, perché c’è bisogno di un’economia che faccia prosperare l’umanità, scrive, indipendentemente dal fatto che cresca in termini quantitativi.
Che cosa significa applicare in modo corretto i principi dell’economia circolare?
Le imprese vogliono mantenere i loro modelli di business consueti, quindi attuano quel po’ di circolarità che dà vantaggi economici: ridurre i rifiuti per non sprecare materia, trasformare i prodotti in servizi per risparmiare risorse. Inoltre, per mantenere il controllo sui materiali che impiegano, usano prodotti coperti da brevetti, che non si sa di che cosa siano fatti e che non si possono usare liberamente. In altre parole, la logica di base resta quella del business d’impresa. Ma così si fa poca strada: non è possibile creare migliaia e migliaia di piccole circolarità di impresa. Ci vuole una circolarità nazionale, anzi mondiale, fondata su una rete di industrie che interagiscano all’interno di un sistema integrato, nel quale i rifiuti di un’impresa siano cibo, materia prima, per un’altra.
In questa rete di rapporti ben sintetizzata nel concetto di simbiosi industriale, come deve cambiare il controllo sul sistema delle conoscenze?
Deve diventare open source, senza brevetti esclusivi ed escludenti, in modo che ogni azienda che raccoglie materiale post consumo sappia di cosa sono fatti, ad esempio, la plastica e il metallo, e possa riciclarli e consentirne il riutilizzo. L’economia circolare intesa correttamente necessita di una totale trasparenza dei flussi di materia. Ma questo non si realizza spontaneamente: sta ai governi attivarsi affinché le imprese agiscano all’interno di un contesto basato sui principi di circolarità, trasparenza e responsabilità sociale d’impresa per riorganizzare il business aziendale attorno a obiettivi di interesse generale. In parte sta già succedendo: in Italia un ottimo esempio è dato dal Conai, il Consorzio nazionale imballaggi. E ci sono casi analoghi in altri Paesi. A questi risultati ci si arriva quando i governi danno vita a strutture che consentono alle imprese di riorientarsi correttamente.
Lei sostiene che la vera economia circolare deve essere generosa: cosa intende esattamente?
Che deve generare benefici, a differenza dell’ottica d’impresa del XX secolo, che rispondeva alla domanda: “Quant’è il valore massimo che posso ricavare?”. Per cui l’obiettivo delle imprese era massimizzare i profitti e per gli azionisti incrementare i dividendi. Una domanda così misera che può portare, in corso d’opera, a danneggiare l’ambiente e l’interesse generale della società. La domanda da porsi nel XXI secolo deve essere invece: “Quanti benefici possiamo produrre attraverso l’impresa, in modo da poter essere generosi verso l’ambiente e la società?”. Quando parliamo di fare del bene all’ambiente parliamo di qualcosa che va molto al di là della semplice riduzione dei rifiuti, intendiamo risanare l’ambiente.
Può fare un esempio?
Prendiamo l’agricoltura: risanare l’ambiente significa produrre alimenti con modalità che sequestrano la CO2 e rigenerano il suolo. In ambito urbano vuol dire costruire edifici che puliscono l’aria interna di uffici e appartamenti. Essere generosi vuol dire non puntare ad accumulare valore solo per l’impresa, ma distribuirne nell’ambiente e nella società. Un albero nella foresta assorbe l’acqua dal terreno non solo per sé, ma per tutto l’ambiente circostante. Anche noi umani dobbiamo creare comunità dove ci si sostiene a vicenda.
Vede già esempi di imprese che al centro della loro mission non hanno la massimizzazione dei profitti ma la produzione di benefici per l’ambiente e la società?
La lista è già lunga. In agricoltura c’è chi produce cibo badando a sequestrare la CO2 nel suolo e a rigenerare il terreno. Come, per fare un solo esempio, Sundrop farms, in Australia, che desalinizza l’acqua marina con impianti alimentati dall’energia solare e la impiega in serre dove si coltivano verdure senza altro ausilio che il sole e l’acqua marina. Altre imprese trasformano in plastica il metano (uno dei gas serra più problematici, nda) catturato dall’atmosfera.
È ottimista sull’adozione generalizzata di un modello di business orientato alla corretta circolarità?
Sì, lo sono, perché disponiamo delle tecnologie che ci servono e di sistemi digitali low carbon che aprono incredibili possibilità di imparare, comunicare e scambiare conoscenze. A darmi speranza ci sono anche le giovani generazioni di manager altamente qualificati. Il pericolo viene dai vecchi poteri che remano contro: dalle lobby del mondo economico rimaste prigioniere di logiche di business superate, e dai leader incapaci di svolgere il ruolo di guida come Donald Trump. Tuttavia si è anche visto che quando Trump ha annunciato che gli Usa si sarebbero sfilati dagli accordi di Parigi, ampi settori di sindaci e business men già orientati verso il futuro hanno preso le distanze: gli avrebbero fatto vedere loro qual è la vision corretta per il futuro.
In questo contesto, qual è il ruolo della finanza?
Per rendere possibile la trasformazione di cui parlo deve cambiare anche il mondo della finanza. Fino a quando le imprese saranno guidate da modelli finanziari tipici del XX secolo, ossia basati sull’obiettivo di spremere dall’attività imprenditoriale il massimo profitto possibile, non riusciranno a fare il salto verso l’economia circolare e quindi a essere veramente rigenerative e generose verso l’ambiente e la società.