Se ci si interroga sul rapporto tra ambiente e tecnologia, tra natura e progresso – come Economiacircolare.com sta facendo – esplorando anche il sentimento tecno-fobo o tecno-diffidente di un certo ecologismo, la prima domanda che sorge spontanea è: chi sono gli ecologisti o, ancora meglio, che cos’è l’ecologia? Per questo ci rivogliamo a Roberto Della Seta, militante di Legambiente, in passato senatore del Pd, profondo conoscitore delle vicende politiche del movimento ecologista italiano. Con lo sguardo dello storico, nel suo ultimo libro dal titolo “Ecologista a chi? Chiara fama e lati oscuri del pensiero green alla prova del Covid”, affronta alcuni passaggi fondamentali del pensiero filosofico ecologista e propone una chiave di lettura ottimistica sul rapporto dell’uomo con la natura.
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Con in mente l’intestazione del suo libro “Ecologista a chi?” non posso che farle la seguente domanda: lei è un ecologista? E di che tipo?
La risposta è sì, lo sono diventato quando ero molto giovane, quando ho incontrato la “Lega per l’ambiente” (Legambiente, ndr), come obiettore di coscienza nel 1986. Da allora mi sono appassionato al tema e anche a quel luogo che ancora oggi dopo più di 35 anni continua a essere la mia casa civile. Certamente sono rimasto un ecologista, ma non saprei dare un aggettivo di complemento, non certo “tecno-fobo”. Il mio sguardo sulla tecnologia e sulla scienza è ottimistico e favorevole. Anzi aggiungo che l’ecologia non ha affatto un’impronta anti-tecnica, tutt’altro. Forse non tutti gli ecologisti lo sanno, ma hanno una origine che affonda le sue radici nel pensiero scientifico. La parola ecologia nasce in Germania ed è una scienza che si afferma nel corso dell’800. È certo innegabile che i movimenti ecologisti al loro interno abbiano ospitato e ospitino ancora correnti di diffidenza e a volte anche avversione verso l’uso della tecnica. Questo è un limite che va al più presto superato.
Nel suo libro tratteggia l’origine del pensiero ecologista. Ci aiuta a trovare le cause del persistere, ancora oggi, di una diffidenza tecnologica in questo movimento?
Il pensiero ecologico ha certamente messo in discussione alcuni dei paradigmi fondamentali della modernità, a cominciare dall’idea che lo sviluppo economico potesse avere una dimensione lineare e non limitata. Proprio il riconoscimento dei “limiti dello sviluppo” (The limits to growth, report del Club di Roma, 1972, ndr) ha dato il via alla riflessione più moderna del movimento ecologista, che porta in sé una forte carica sovversiva nei confronti di idee consolidate della modernità. Questo lo ha talvolta portato a tradurre lo spirito critico verso alcuni aspetti della modernità in un suo rifiuto tout court. Ma è un problema che va superato, perché ha ostacolato l’affermarsi di questo pensiero politico nell’opinione pubblica. Mentre oggi ne abbiamo più che mai bisogno per affrontare la grande sfida posta dal cambiamento climatico. Se non saremo in grado di azzerare la nostra dipendenza dai combustibili fossili in tempi brevi rischiamo conseguenze catastrofiche. E gli ecologisti, decisivi a rendere possibile la prospettiva della transizione ecologica, oggi non possono rischiare di diventare un freno o un ostacolo perché non si fidano del progresso tecnologico.
Forse oltre a non fidarsi del progresso tecnologico, non si fidano dell’uomo?
Esiste in parte nella riflessione filosofica che ha fatto da base al pensiero ecologico l’idea che l’uomo abbia un atteggiamento troppo aggressivo, imperialista, di sfruttamento indiscriminato nei confronti della natura. In questo senso, una riforma spirituale del modo in cui l’uomo intende il proprio ruolo sulla terra fa parte del pensiero ecologico.
Parlando di riforma spirituale, non pensa che alcuni esempi di rapporto rispettoso, se non divinatorio, nei confronti della natura, come quello delle comunità indigene, possano esserci d’aiuto?
Ci sono modelli di società meno modernizzate della nostra, dove c’è un rapporto più solidale e meno violento con la natura, da cui si può prendere spunto. Io però non sono tra quelli che ritengono che nel passato sia da ricercare la soluzione ai problemi del presente. I problemi si risolvono progredendo nelle conoscenze e nella tecniche. Non condivido nessun atteggiamento nostalgico né nel passato né in esperienze esistenti di rapporto meno artificiale con la natura. Credo che la tecnica sia uno straordinario alleato dell’uomo per affrontare i problemi che derivano dalla natura, come per esempio le pandemie.
A proposito, nel suo libro parla molto delle pandemie che si sono susseguite nella storia dell’uomo ancora prima del Covid 19. È forse la natura cattiva con l’“uomo-intruso”?
La natura non è né buona né cattiva. È moralmente indifferente all’uomo e al suo destino di specie. Noi siamo traumatizzati dall’esperienza dovuta al Covid-19 ma dobbiamo ricordare che le pandemie hanno da sempre punteggiato la storia dell’uomo e in passato, quando non avevamo a disposizione la medicina evoluta di oggi, hanno provocato catastrofi incomparabilmente maggiori rispetto a quella che viviamo oggi. La “morte nera”, l’epidemia di peste che a metà del ‘300 sconvolse l’Europa, in Italia dimezzò la popolazione di città come Venezia e Firenze.
Tornando alla tecnologia, l’homo sapiens sembra aver raggiunto grandi conquiste grazie alle sue invenzioni, ma queste stesse invenzioni hanno provocato degli effetti nocivi per la natura e per l’uomo stesso. Come si risolve questo paradosso?
La tecnica non va considerata né un tabù né un totem. Non è automaticamente buona o cattiva. La critica della tecnica, infatti, è uno strumento utilissimo per il suo sviluppo. La scienza progredisce proprio perché mette continuamente in discussione se stessa. Non tutte le tecniche fanno migliorare la vita degli esseri umani. Occorre valutarne gli effetti e i costi dal punto di vista sociale economico e ambientale. È un esercizio da compiere continuamente. Faccio l’esempio dello sviluppo degli organismi transgenici in agricoltura. Io sono convinto che le biotecnologie siano utilissime nella medicina e in tanti altri campi ma hanno dimostrato di poter diventare un rischio da non correre se applicate all’agricoltura.
Lei sembra un ottimista della tecnologia, ma ne riconosce anche i limiti. Come possiamo assicurarci che le tecnologie vengano usate per un progresso “giusto”?
Le applicazioni della scienza devono essere sempre sottoposte a un controllo il più possibile trasparente e democratico. Non può essere un ristretto cenacolo di esperti a stabilire se una certa tecnologia è buona per tutti oppure no. Noi in Italia, per esempio, abbiamo esperienza di quanto questo controllo democratico possa essere utile a scegliere l’indirizzo dell’applicazione tecnologica. Come cittadini, siamo stati chiamati a scegliere per ben due volte se aprire o meno all’energia nucleare. Gli italiani hanno valutato complessivamente, e io sono d’accordo, di non ritenere questa tecnologia utile a migliorare il tenore di vita e la salute delle persone.
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A proposito di nucleare, Soul Griffith nel suo Electrify sostiene che potremmo essere pronti, grazie alle energie pulite ma anche al nucleare, a passare ad una economia libera dai combustibili fossili. Cosa ne pensa?
Io credo che i motivi per non puntare sull’attuale nucleare siano assolutamente prevalenti sui motivi che vanno nella direzione opposta. Se davvero esisterà in futuro un nucleare che non produce scorie, o contaminazioni radioattive o rischio di incidenti, io ne sarò felicissimo. Ma il nucleare oggi è una tecnologia intrinsecamente insicura quindi io non trovo saggio sceglierla come alternativa alle energie fossili, tanto più che non ce n’è bisogno. Le fonti energetiche pulite e rinnovabili esistono e hanno costi competitivi. In questi giorni drammatici della guerra in Ucraina, ci rendiamo conto che l’esigenza della transizione energetica diventa ancora più evidente e urgente. Uscire dalle energie fossili e accelerare la transizione significa anche togliere un’arma a dittatori come Putin.
Dalla transizione energetica alla transizione ecologica. Lei sembra riconoscere nel suo libro che è un’opportunità irrinunciabile.
In merito al digitale, vale lo stesso ragionamento che abbiamo fatto per la tecnologia: né tabù né totem. È un processo che va accompagnato e controllato con trasparenza. Non tutte le applicazioni digitali dal punto di vista ambientale sono un bene. Una serie di usi delle tecnologie, come ad esempio le pratiche introdotte dal commercio on line, rischiamo di determinare un aggravio dei nostri costi ambientali e sociali. La trasformazione digitale è tuttavia l’altra gamba di un progresso dell’umanità che ci consente di affrontare i problemi di oggi. Non è un caso che l’Europa abbia destinato i due terzi delle risorse per la ripartenza post pandemia proprio alla transizione ecologica e digitale. Anche su questo va però considerato con attenzione il problema di geopolitica, relativo alle terre rare che sono necessarie per sviluppare le tecnologie digitali. La gran parte delle riserve sono nelle mani di pochissimi paesi, tra i quali la Cina.
Lei si dice ottimista ma è anche molto realista sulla scommessa della transizione ecologica. Cosa dice del paradigma dell’economia circolare?
È soprattutto una metafora molto efficace che ci fa capire cosa deve cambiare nell’economia per accompagnare la transizione ecologica. Veniamo da due secoli in cui si pensava allo sviluppo economico come ad un fenomeno lineare, in cui non si dava importanza all’uso delle materie prime o alla produzione dei rifiuti. Questo modello non è più sostenibile perché siamo 8 miliardi sul Pianeta. L’economia circolare rappresenta l’unico agire economico compatibile con quello che siamo oggi, in termini di popolazione, di capacità tecnologica e di aspirazione al benessere. Se vogliamo accompagnare al miglioramento della condizioni di vita i due terzi della popolazione mondiale che sono in via di sviluppo, l’unico paradigma è produrre più ricchezza con meno risorse naturali, generando meno residui.
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