L’Europa vuole porre fine alla società dello spreco e del consumo usa e getta. Questo il promettente slogan a conclusione del video promozionale del Parlamento europeo che detta le sue priorità in merito al diritto alla riparazione: rendere i beni più durevoli e riparabili, informare i consumatori tramite indici di riparabilità, allungare la garanzia e rendere disponibili i pezzi di ricambio. Obiettivi ambiziosi contenuti nella nuova legislazione europea per migliorare la circolarità dei prodotti elettronici, che però tarda ad entrare in vigore e rischia di essere applicata in un futuro troppo remoto.
Con l’aiuto di Ugo Vallauri, cofondatore e codirettore della organizzazione no profit The Restart project di Londra, impegnata da anni nella Campagna europea per il diritto alla riparazione – cerchiamo di capire quali sono gli ostacoli che impediscono all’Europa di passare dagli enunciati ai fatti.
Perché il diritto alla riparazione
Ma andiamo con ordine. Perché è importante il riconoscimento del diritto alla riparazione nell’Unione europea? La prima ragione è che lo chiedono gli europei. Secondo un’indagine Eurobarometro, infatti, il 77% dei consumatori dell’Ue preferirebbe riparare i propri beni piuttosto che acquistarne di nuovi, ma poi finisce per sostituirli o buttarli a causa degli elevati costi di riparazione. Il secondo motivo è che quelli elettronici sono i rifiuti in più rapida crescita nell’Unione. Nel 2017 se ne sono registrati oltre 3,5 milioni di tonnellate, dei quali solo il 40% è stato riciclato. La riparazione dei dispositivi elettronici costituirebbe, dunque, un sicuro beneficio per l’ambiente, per la riduzione dell’uso delle risorse e delle emissioni di gas serra. Ma anche per una società impegnata ad aggiustare le cose, che apre a nuovi tipi di mercato e lavoro.
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Quanti pezzi di ricambio quante meraviglie
Non è un caso che la risoluzione del Parlamento europeo dell’aprile 2022 ponga al centro il tema delle riparazioni e chieda alla Commissione di proporre delle norme volte a garantire la durabilità dei prodotti. Tra queste si può annoverare certamente il nuovo Regolamento sulle batterie e quello relativo all’ecodesign di smartphone e tablet, entrambi in attesa dell’ok definitivo e dell’entrata in vigore nel corso di quest’anno.
Le due misure contengono importanti traguardi, per lo meno simbolici, per il riconoscimento del diritto alla riparazione. Per esempio, in merito alle batterie dei dispositivi elettronici, la nuova norma prevede l’obbligo per i produttori di renderle rimovibili e dunque sostituibili direttamente dal consumatore. Alla stessa stregua, il regolamento sull’ecodesign renderà schermo e batterie dei nostri smartphone più facilmente sostituibili anche dall’utente finale. Una svolta epocale se pensiamo ai nostri dispositivi iper-integrati. Perché, allora, i fautori del diritto alla riparazione come Ugo Vallauri non esultano?
Norme lente vs mercato che corre
In effetti il commento dei promotori della Campagna europea per il diritto alla riparazione, che comprende oltre 100 realtà, è cautamente positivo. Piuttosto esprime, nelle parole di Vallauri, “delusione per un’occasione mancata” nel merito di alcuni dettagli delle nuove norme, che rischiano di fare la differenza. La prima è la questione dei tempi. L’obbligo appena citato della rimovibilità delle batterie a cui tutti i produttori dovranno adeguarsi sarà effettivo entro 42 mesi dall’entrata in vigore del Regolamento, ovvero dalla metà del 2026, se tutto va bene. Un tempo troppo lungo, considerata la velocità con cui crescono i rifiuti elettronici e sempre nuovi prodotti digitali si affacciano sul mercato. Un esempio per tutti, le nuove e diffusissime sigarette elettroniche usa e getta, con batterie integrate.
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Pro e contro della normativa ecodesign
Lo stesso allarme sui tempi lunghi vale per il Regolamento europeo sull’ecodesign, che comprende le sole categorie di prodotto di smartphone e tablet, la cui adozione è prevista ad aprile 2023, con due anni di transizione prima dell’entrata in vigore. Anche se il testo definitivo non è stato ancora pubblicato, Restart project, che ne ha seguito il percorso di definizione, prova a tirare qualche somma. Tra le buone notizie si registra che “per la prima volta – racconta Ugo Vallauri – si parla dell’obsolescenza del software dei nostri prodotti digitali: per renderli più riparabili, le case produttrici saranno obbligate a fornire il supporto software, almeno degli aggiornamenti di sicurezza, per 5 anni dal ritiro del prodotto dal mercato”. A fronte di questo risultato, si esprime però la preoccupazione che le regole finali non impediranno ai produttori di utilizzare pratiche software per limitare la riparazione indipendente dei dispositivi elettronici. Inoltre, la buona notizia della comparsa sui prodotti di un indice di riparabilità, è minata da un problema di base: “a differenza del modello francese – continua Vallauri – l’indice potrebbe non tenere conto dei costi dei pezzi di ricambio”. Un vulnus che rischia di fare del diritto alla riparazione un mero enunciato di principio.
Riparare o sostituire: i consumatori scelgono in base al prezzo
All’evento di lancio del Fixfest 2022, il rappresentante della piattaforma iFixit, Thomas Obsomer, racconta un simpatico aneddoto sulla sua lavatrice per rendere l’idea di quanto sia cruciale la questione dei costi, nell’esercitare il proprio diritto alla riparazione, anche nel caso di prodotti per cui è, in effetti, riconosciuto. Thomas avrebbe voluto riparare il display danneggiato della sua lavatrice, altrimenti perfettamente funzionante, ma il pezzo di ricambio necessario – un assemblato di display e scheda madre dell’apparecchio – era quotato sul mercato nel migliore dei casi alla metà del costo sostenuto per il suo elettrodomestico (circa 1.000 euro), o addirittura ad un prezzo maggiore della stessa lavatrice. Un disincentivo inequivocabile perché un consumatore scelga effettivamente di riparare un bene ancora in grado di funzionare, a cui è forse anche affezionato, invece di sostituirlo.
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Troppe attese e troppi prodotti
Per questa ragione, ci spiega ancora Vallauri, le prossime battaglie di Restart si concentreranno sul riconoscimento dell’accessibilità alla riparazione. “Un tema cruciale – ribadisce – Qualunque delle misure messe in campo dalla Commissione europea dovrà affrontare la questione della riduzione dei costi per essere efficace”. E non basta. Si chiama a gran voce una accelerazione normativa. Le stesse procedure legislative, infatti, sembrano fare gioco ai produttori che cercano di aggirare le limitazioni. Il modo stesso di procedere della Commissione, che punta a regolamentare volta per volta le diverse categorie di prodotto, rischia di annacquare nell’attesa il diritto alla riparazione. Basti pensare che sono ancora in corso di definizione le regole per computer, aspirapolvere e stampanti. “Riteniamo che si debba passare a un approccio più sistemico – spiega Vallauri – con misure orizzontali che siano applicabili ad una molteplicità di categorie di prodotto”.
Il diritto universale alla riparazione
Mentre la strada europea è adorna di buoni intenti ma lastricata di attesa, che altro si può fare per rallentare i consumi e allungare la durata dei nostri prodotti? “Crediamo sia necessario anche un cambiamento di passo delle nostre pratiche di cittadini – risponde alla domanda Vallauri – per esempio sostenendo nelle nostre città e regioni, i centri per il riuso e la riparazioni dei prodotti”. Inoltre, Restart guarda con speranza ad iniziative nazionali di riduzione dei costi delle riparazioni. In Austria, Germania e Francia iniziano a comparire incentivi fiscali che arrivano a coprire fino al 50% del costo della riparazione. “Queste misure permettono di rinforzare l’occupazione e l’economia locale, con un impatto immediato, su tutti i prodotti esistenti – conclude Vallauri – L’Italia può prendere spunto”.
Di certo è che la montagna di rifiuti, non solo elettronici, aumenta a una velocità esponenziale. Secondo l’ultimo report di Plastic Waste Makers Index, nel 2021 i rifiuti plastici generati nel mondo sono aumentati del 4,5% rispetto al 2020. In media, ogni singolo essere umano, ha prodotto circa uno chilo di rifiuti plastici in più. Se vuole davvero contribuire a cambiare la rotta, l’Europa dovrà essere veloce e determinata nel “porre fine alla società dello spreco”, dimostrando di saper fare di più che una buona comunicazione.
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