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venerdì, Novembre 29, 2024

Dal rubinetto o in bottiglia? Come non perdersi in un bicchier d’acqua

A livello ambientale l'acqua del rubinetto è senz'altro la scelta migliore, ma in molti sono convinti non lo sia per la nostra salute. Tra PFAS e microplastiche, un quadro sui rischi di tutta l'acqua che beviamo

Silvia Santucci
Silvia Santucci
Giornalista pubblicista, dal 2011 ha collaborato con diverse testate online della città dell’Aquila, seguendone le vicende post-sisma. Ha frequentato il Corso EuroMediterraneo di Giornalismo ambientale “Laura Conti”. Ha lavorato come ufficio stampa e social media manager di diversi progetti, tra cui il progetto “Foresta Modello” dell’International Model Forest Network. Nel 2019 le viene assegnata una menzione speciale dalla giuria del premio giornalistico “Guido Polidoro”

Bere acqua del rubinetto o affidarsi all’acqua minerale in bottiglia è un dilemma che riguarda milioni di italiani. A volte dietro questa scelta ci sono abitudini consolidate, altre false credenze, altre ancora timori ben specifici. In questa sede non condanneremo la scelta di chi si affida a bottiglie di plastica per la sua idratazione quotidiana ma cercheremo di mettere in fila una serie di elementi per delineare un quadro più completo possibile, in grado di confermare o, perché no, mettere in discussione le nostre abitudini.

Produzione e consumo di acqua in bottiglia

Per iniziare, se preferiamo bere acqua in bottiglia siamo in buona compagnia: secondo i dati Istat, nel 2023 la quota di persone di 11 anni e più che consuma almeno mezzo litro di acqua minerale al giorno è pari all’81,8% ed è rimasta sostanzialmente invariata rispetto al 2022. Il maggiore consumo di acqua minerale si registra nel Nord-ovest (87,2%) e nelle Isole (84,8%), quello minore nel Sud (74,3 %). Tra le regioni l’Umbria tiene il primato nel consumo di acqua minerale (90,3%), mentre nella Provincia Autonoma di Bolzano si registra il valore minimo (59,3%).

In Italia, secondo i dati del rapporto Acquitalia 2023-2024 di Beverfood, nel 2022 erano 230 le marche di acque confezionate, di cui i primi otto gruppi produttivi Sanpellegrino, San Benedetto, Sant’Anna, Ferrarelle, Lete, Cogedi/Uliveto/Rocchetta, Spumador, San Bernardo Montecristo rappresentano il 70%. Per la produzione totale si registra un aumento dai 15.300 milioni di litri del 2021 ai 16.600 milioni di litri del 2022: una crescita che, salvo qualche eccezione, è stata costante dal 1980, quando la produzione contava solo 2.350 milioni di litri.

In Europa, l’Italia detiene il primato storico del consumo pro-capite di acqua minerali con 252 litri all’anno. In base alle statistiche di UNESDA Global Data, l’Unione Europea (ancora comprensiva del Regno Unito) è accreditata di un consumo di acque minerali confezionate pari nel 2022 a circa 63 miliardi di litri, che valgono il 16-17% del mercato mondiale e un consumo pro capite di 120 litri/anno. I primi 4 mercati per la dimensione complessiva dei consumi sono nell’ordine: Italia, Germania, Francia e Spagna che insieme assorbono il 68% circa dei volumi totali dell’Unione Europea, tutti con consumi pro-capite superiori alla media UE.

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L’acqua del rubinetto è sicura per la nostra salute? 

Ma perché in Italia si consuma così tanta acqua in bottiglia? Per molte persone il motivo trainante è quello della sicurezza. Stando ai dati Istat, nel 2023 il 28,8% delle famiglie dichiaravano di non fidarsi nel bere acqua di rubinetto. Si tratterebbe di un dato stabile rispetto all’anno precedente, “anche se riflette una preoccupazione decisamente minore rispetto a 20 anni fa”, nel 2002 il dato era del 40,1%. Si registrano invece notevoli differenze a livello territoriale, passando dal 18,9% nel Nord-est al 53,4% nelle Isole. Le percentuali più alte si riscontrano poi in Sicilia (56,3%), Sardegna (45,3%), Calabria (41,4%) e Abruzzo (35,1%).

Eppure, sono diversi gli studi che attestano la sicurezza e la qualità dell’acqua di rubinetto in molte zone del nostro Paese; in ultimo il primo rapporto del neonato Centro Nazionale per la Sicurezza delle Acque (CeNSiA) dell’Istituto Superiore di Sanità, che ha esaminato i risultati di oltre 2,5 milioni di analisi chimiche, chimico-fisiche e microbiologiche condotte in 18 Regioni e Province Autonome, corrispondenti a oltre il 90% della popolazione italiana, tra il 2020 e il 2022.

Quello che emerge è un risultato che appare positivo: nei tre anni analizzati la percentuale media nazionale di conformità risulta compresa tra il 99,1% per i parametri sanitari microbiologici e chimici stabiliti e il 98,4% per i parametri indicatori, non direttamente correlati alla salute ma a variazioni anomale della qualità, che potrebbero, per esempio, influire su sapore, odore o colore. Tutte le Regioni hanno mostrato percentuali di conformità medie molto alte, superiori al 95%: i dati migliori, sia per i parametri sanitari chimici e microbiologici che per i parametri indicatori, si registrano in Emilia-Romagna seguita da Veneto e Piemonte, mentre i tassi di conformità relativamente minori per parametri sanitari sono registrati nelle Province Autonome di Trento e Bolzano, e, per i parametri indicatori, in Umbria e nella provincia autonoma di Trento.

acqua rubinetto sicurezza
Dati e grafica rapporto Censia

Oltre alle evidenze scientifiche, sono molte le iniziative volte a sensibilizzare cittadine e cittadini verso un uso più consapevole dell’acqua di rubinetto. Dalla guida realizzata da Gruppo CAP in collaborazione con Altroconsumo, dal titolo “Dalla sorgente al rubinetto. L’acqua potabile nella vita quotidiana”, al sito L’Acquachebevo e all’app dedicata che mette a disposizione degli utenti i risultati dei controlli e ogni informazione sulle acque potabili erogate in Umbria, sino al seguente video realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità.

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PFAS e altri rischi

Quando si parla di acqua potabile però, l’elefante nella stanza restano i PFAS, i cosiddetti forever chemicals, cioè gli  inquinanti eterni. Quella che per Greenpeace è una vera e propria “emergenza sanitaria nazionale” passa infatti non solo dagli oggetti di uso comune che hanno proprietà di resistenza e impermeabilità, ma anche attraverso l’acqua, raggiungendo anche i fiumi e le falde acquifere.

La crescente consapevolezza attorno al fenomeno potrebbe aggiungere dunque un tassello nell’insicurezza che può generarsi nel bere acqua del rubinetto: alcune analisi sulle acque potabili realizzate da Greenpeace hanno infatti evidenziato presenze importanti di PFAS. Finora sono disponibili dati più approfonditi per la Lombardia, il Piemonte e il Veneto, dove si è registrato il più grande caso di contaminazione in Italia ed è stata persino istituita una zona rossa.

Ma le acque minerali sono esenti dai rischi collegati ai PFAS? Quello che sappiamo è che Consumer Reports ha riscontrato la presenza di sostanze chimiche PFAS anche in diverse popolari marche di acqua americane, soprattutto quelle gassate.

Inoltre, a gennaio la Francia è stata scossa dal caso dell’acqua in bottiglia proveniente da due stabilimenti transalpini della Nestlé che sarebbe stata contaminata da feci e PFAS, come riportato da France.info, radio pubblica che insieme al quotidiano Le Monde ha condotto l’inchiesta giornalistica. È stata quindi diffusa l’analisi dell’Anses, l’agenzia nazionale per la sicurezza alimentare, sulle fonti utilizzate dalla multinazionale svizzera nel Grand Est e in Occitania. In questo caso la presenza di PFAS per alcuni bacini idrografici, avrebbe superato “0,1 microgrammi per litro”, vale a dire la soglia normativa prevista per l’acqua minerale naturale. Nei mesi successivi un’inchiesta di Mediapart ha poi svelato che la multinazionale avrebbe iniziato a vendere acqua minerale filtrata illegalmente più di 15 anni fa, per una frode che, se confermata, si attesterebbe sui 3 miliardi di euro.

Anche in Svizzera test di laboratorio hanno rivelato che quattro acque minerali su dieci contengono tracce di diserbanti, veleni fungini, microplastiche e PFAS. Tuttavia i valori sono classificati dal laboratorio come “non estremamente pericolosi per l’uomo” e secondo il tossicologo Davide Städler, l’acqua minerale in questione può essere bevuta senza esitazione.

Restando in Italia e considerando la pervasività di queste sostanze, è da tenere d’occhio la normativa: come ci conferma Giuseppe Ungherese di Greenpeace Italia, mentre per l’acqua di rubinetto entrerà in vigore una normativa europea che a partire da gennaio 2026 obbliga a monitorare i PFAS e a far sì che queste sostanze rientrino entro i livelli di contaminazione – 100 nanogrammi per litro per la somma di 24 molecole e 500 nanogrammi per litro per la somma di tutti i PFAS – sulle acque minerali e confezionate non esiste ancora una regolamentazione a riguardo.

Anche il Decreto legislativo sull’acqua potabile entrato in vigore in Italia a marzo del 2023 promette controlli più serrati sulla qualità e sulla sicurezza dell’acqua e all’articolo 24 si legge che “le autorità ambientali e sanitarie e i gestori idro-potabili adottano con ogni tempestività, e comunque non oltre il 12 gennaio 2026, le misure necessarie a garantire che le acque destinate al consumo umano soddisfino i valori di parametro per quanto riguarda: bisfenolo-A, clorato, acidi aloacetici, microcistina-LR, PFAS-totale, somma di PFAS e uranio. Il controllo dei parametri assume carattere di obbligo a decorrere dal 12 gennaio 2026”.

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Littering e microplastiche 

Un altro aspetto da non dimenticare è la plastica in cui la nostra acqua in bottiglia è confezionata. Sempre secondo il rapporto Acquitalia, le bottiglie in PET rappresentano ormai i 4/5 del consumo totale di acque confezionate.

Il formato da 1,5 litri rappresenta oltre due terzi dei volumi PET, mentre il formato da 2 litri si è particolarmente diffuso nelle regioni meridionali e insulari. Tuttavia, la maggiore crescita si rileva sugli altri formati più piccoli, soprattutto le confezioni da mezzo litro. Le bottiglie in PET rappresentano l’80,5% della produzione, quelle in vetro il 16,1% mentre boccioni, cartoni o lattine il 3,4%.

E se è vero che da tempo sono state introdotte per le acque lisce anche le confezioni brick in cartone poli-accoppiato, rilanciate spesso come soluzioni “più sostenibili”, il problema ambientale legato all’inquinamento e al littering, come ormai i lettori e le lettrici di EconomiaCircolare.com sanno, non è risolvibile adottando un’altra soluzione usa e getta, ma evitando quanto più possibile il monouso.

Al di là dell’aspetto ambientale – che resta comunque legato a doppio filo alla nostra salute – le microplastiche alimentari, che comprendono quelle accumulate negli alimenti e le perdite di materiale derivanti dall’uso della plastica nella produzione, nella lavorazione e nell’imballaggio di alimenti e bevande, hanno effetti diretti sul nostro corpo. Penetrando nei tessuti connettivi, le particelle possono infatti raggiungere i sistemi respiratorio e digestivo con il rilascio di sostanze chimiche tossiche, tra cui il Bisfenolo A, e “danneggiare potenzialmente gli organi associati”, come sostenuto in uno studio condotto da ricercatori della Cornell University negli Stati Uniti e pubblicato su Environmental Science & Technology.

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