Contenuto in abbonamento
La Responsabilità estesa del produttore, in inglese extented producer responsability (EPR), è diventata l’asso nella manica delle policy a servizio della transizione ecologica. L’idea è nobile, ovvero scaricare la responsabilità finanziaria e logistica del fine vita dei prodotti immessi nel mercato in capo a chi li ha prodotti e venduti, così da responsabilizzarli. Anche se nella pratica persino le idee più nobili finiscono per perdere appeal e tracimare nell’ordinario.
In Italia attualmente sono già regolati da schemi di EPR le filiere degli imballaggi (tramite il sistema Conai-consorzi di filiera) – a cui si sono aggiunti i rifiuti in PET (consorzio Coripet) e quelli in plastica biodegradabile e compostabile (Biorepack) –, i rifiuti di beni in polietilene, i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE), gli pneumatici fuori uso (PFU), gli oli, le batterie e le pile esauste.
L’obiettivo principale dell’EPR, almeno nello spirito del legislatore UE e nazionale, è di garantire la migliore tutela ambientale possibile, a partire dall’applicazione fedele della gerarchia dei rifiuti (art. 179 Dlgs 152/2006 – TUA), eliminando per quanto possibile la dispersione dei rifiuti, quindi garantendo una raccolta capillare e, soprattutto, politiche più incisive per la loro riduzione e valorizzazione.
Il consumatore paga due volte
In cosa consiste questa particolare tipologia di responsabilità, nella pratica? Si tratta di uno strumento di politica economica inserita chirurgicamente nella gestione dei rifiuti, innesto che obbliga produttori e importatori a gravare i beni immessi nel mercato di un sovraprezzo, definito contributo ambientale, necessario a finanziare il loro fine vita. Questo costo aggiuntivo, da una parte, dovrebbe servire per dare un segnale di prezzo, incentivando i prodotti più riciclabili (considerato che l’entità del contributo dovrebbe essere legato alla sua sostenibilità), dall’altra, dovrebbe servire a spostare il finanziamento della raccolta dei prodotti immessi nel mercato a fine-vita dalla tassazione generale all’interno dei bilanci di produttori/importatori in ossequio al principio del chi-inquina-paga. Mera utopia.
In realtà, il contributo ambientale, sebbene venga determinato e imposto per ciascun prodotto dal produttore/importatore al momento della sua immissione nel mercato, allo stesso modo di come accade con l’Iva (meccanismo debito/credito) alla fine della catena verrà pagato dal consumatore finale.
Quindi, sebbene la responsabilità gestionale rimanga comunque ai produttori/importatori, obbligati a raccogliere il fine vita dell’equivalente in peso dell’immesso nel mercato, chi finanzia davvero il meccanismo è il consumatore, o meglio il cittadino che oltre a pagare periodicamente la Tari, ovvero la tassa sui rifiuti urbani (per un costo medio annuo pro capite di 197 euro/abitante, in crescita rispetto all’anno precedete del 2,5%, fonte Ispra 2024), paga anche il contributo ambientale nella sua veste di consumatore. Il cerchio si chiude così, paga sempre pantalone, anche se le ragioni sono nobilissime.
Leggi anche: Con l’EPR obiettivi più ampi della sola gestione del fine vita dei prodotti tessili
I problemi del contributo ambientale
Ma non è solo un problema di chi paga. Perché così facendo, ed è l’aspetto che qui più rileva, viene meno la logica a cui dovrebbe sottostare il contributo ambientale, ovvero fungere da leva economica in mano ai produttori per tassare di più i prodotti meno riutilizzabili/riparabili/riciclabili, incentivando, al contrario, quelli sostenibili. Se a finanziare il sistema è il solito consumatore, ecco che questa leva viene depotenziata e tutto ritorna nell’ordinario, come si diceva prima.
Anche perché il consumatore finale paga sempre e paga di più, e profumatamente, quando le cose vanno male nella filiera, per esempio, per i costi aumentati dell’energia, per le crisi ambientali, le guerre in corso e per le altre mille ragioni economiche che consentono ai gestori di aumentare arbitrariamente, e legittimamente, l’entità del contributo. Come è successo nel 2024 nel caso delle bottiglie in PET, il cui valore stabilito dal Coripet (consorzio di riferimento) è lievitato da 16 euro a tonnellata a 183 euro, un incremento esponenziale.
Ma c’è anche un tema su come viene determinato il contributo e su come viene usato.
Sul primo aspetto, salvo qualche eccezione, di regola la definizione del contributo non risponde effettivamente a criteri di riusabilità, riparabilità e riciclo, come invece imporrebbe il combinato disposto del Testo Unico Ambientale – TUA (Dlgs 152/2006, in particolare art. 178 bis) con i singoli Decreti ministeriali da cui hanno origine i singoli modelli di EPR.
Solo la filiera degli imballaggi in plastica, e in parte per carta e cartone, ha attuato un meccanismo di modulazione del contributo ambientale sulla base del tasso di riciclabilità. Che nel caso della plastica risale al 1° gennaio 2018 (cioè quasi vent’anni dopo la nascita del sistema Conai), mentre la diversificazione contributiva per gli imballaggi in carta arriverà l’anno seguente. Una modulazione complessa ma necessaria per scoraggiare gli imballaggi meno riciclabili, anche se di riutilizzo ancora non se ne parla nemmeno (per mille motivi che qui non si ha lo spazio per argomentare).
Salve queste due eccezioni, quindi, nella definizione dell’entità del contributo ambientale rientrano, molto più prosaicamente, scelte legate essenzialmente a motivazioni di efficienza aziendale e di mercato. Nei fatti, le risorse raccolte dal contributo servono per finanziare anche l’amministrazione stessa dei consorzi (o dei gestori individuali, su cui si dirà meglio dopo), le attività di ricerca e sviluppo e, soprattutto, le attività di comunicazione e public relations.
Leggi anche: La trasformazione dell’EPR: dal rifiuto al ciclo di vita, una sfida per l’economia circolare
EPR ed ecodesign
L’EPR, insomma, dovrebbe spingere la manifattura verso prodotti sempre più riusabili, riparabili e riciclabili, anche se nella realtà ha armi spuntate su questo fronte, oltre che per i motivi appena accennati, per almeno altri due: primo, che riguarda soprattutto i prodotti ad alto valore aggiungo, come nell’ambito della tecnologia – quindi delle apparecchiature elettriche ed elettroniche (AEE) –, l’aggiunta di una manciata di euro di contributo ambientale non sposta di una virgola la scelta dei consumatori (sul lato della domanda), quindi, a ritroso, degli stessi produttori (sul lato dell’offerta); secondo, essendo l’obbligo di raccolta misurato in peso, non in unità di prodotto, e non essendoci alcun meccanismo di tracciabilità di questi, chi investe in ecodesign non ha alcuna garanzia di rientrare in possesso dei propri beni, dovendosi accontentare solo di pesare i rifiuti raccolti. Due ingranaggi di sistema che annullano, nei fatti, la capacità di questi schemi di indirizzare la produzione verso l’ecodesign.
Consorzi e gestori individuali, le distorsioni
Come si accennava, la responsabilità estesa del produttore può essere assolta sia in forma individuale che collettiva, che in quest’ultimo caso – di solito il più ricorrente – assume la forma dei consorzi, ovvero soggetti dotati di personalità giuridica che assolvono l’obbligo per conto dei propri soci (e dovrebbero servire solo a questo). La logica di tale scelta posta dal legislatore risiede nell’esigenza di garantire un principio di concorrenza, lasciando il diritto ai produttori/importatori di assolvere all’obbligo EPR come meglio gli pare, anche in forma individuale (sebbene con le stese garanzie e le stesse modalità dei gestori collettivi).
Anche se questa scelta non sempre è apparsa giustificabile alla luce dei presupposti iniziali, sia perché ha consentito a soggetti “individuali”, soprattutto in alcune filiere, di operare in maniera meno tracciata (non avendo statuti, codici etici, modelli organizzativi, né meccanismi di controlli interni, etc.), mentre la posizione dominante dei gestori collettivi in alcuni settori non è stata mai messa in discussione, come ha avuto modo di appurare l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) nelle sue istruttorie e sentenze.
L’altro pilastro dell’EPR è quello di risolvere i ricorrenti fallimenti di mercato per i prodotti/ materiali provenienti da riuso e riciclo, costruendo efficienza economica anche laddove non ce ne sarebbe e la mano invisibile è davvero invisibile, incentivando anche le politiche di riuso e di preparazione per il riutilizzo. Dovrebbero servire a questo le risorse raccolta tramite il contributo ambientale, indirizzandole principalmente a sostegno di quei segmenti della filiera che altrimenti non reggerebbero alla prova del mercato, come le attività di riparazione, riuso e riciclo. Così come chiederebbe lo spirito della norma e come più volte argomentato dalla stessa ARERA (l’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente) e spesso rimproverato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM). I rifiuti non sono materie prime vergini, ma, al contrario, materiali e sostanze che contengono valore e disvalore mescolati in maniera micidiale e il mercato lasciato al suo destino (in una logica squisitamente economica) andrebbe in direzione contraria alla sostenibilità, considerato che le discariche e i forni sono le modalità più economiche e sbrigative per molte frazioni, almeno in assenza di policy di bilanciamento adeguate.
L’EPR, per esempio, dovrebbe servire a fare ritornare sul mercato una lavatrice usata o un maglione non più di moda, preferendo sempre il riuso e il recupero di materia, non certo per mandare, l’una e l’altro, a incenerimento, quando conta solo quanto hai raccolto e non cosa ci hai fatto davvero con quello che hai raccolto. D’altro canto, sono queste le motivazioni che stanno sostenendo la spinta dell’UE e del legislatore nazionale per introdurre un analogo modello di EPR per il settore tessile, tanto per stare sulla cronaca. E non pare, francamente, che quest’aspetto sia stato finora tenuto debitamente in considerazione nei modelli EPR già in vigore da tempo.
Se, infatti, questi hanno consentito di raggiugere ottime performance sulla raccolta, toccando in Italia vette encomiabili in quasi tutti i modelli, e sullo stesso riciclo – basti guardare alle percentuali esibite dal Conai nelle filiere degli imballaggi –, lo stesso non è accaduto su tutto il fronte della prevenzione.
Come riportato nel saggio a firma di chi scrive “Le contraddizioni dell’economia circolare” (Il Sole 24 Ore, dicembre 2024), sebbene l’EPR rappresenti un valido strumento di politica economia applicato alla gestione dei rifiuti, necessario soprattutto per la costruzione delle catene del valore, allo stesso tempo richiederebbe degli aggiustamenti necessari, sia per garantire che la sostenibilità rimanga il vero faro della governance sia che tutti rispettino le regole fino in fondo, per evitare che ci siano figli e figliastri. O che si costruiscano delle nuove dinastie, in cui gli stessi vertici di un consorzio lo sono per diritto divino.
Evitando accuratamente, altro esempio concreto, che la presenza istituzionalizzata di nuovi attori nella filiera della raccolta (gestori individuali e collettivi) generi rendite di posizione e forme di monopolio oppure metta in atto modalità inedite e non contemplate, anzi espressamente vietate dalla norma, di penetrazione del mercato, come nel caso specifico dei pneumatici fuori uso (PFU), in cui alcuni gestori (soprattutto individuali) promettono ai gommisti e operatori del ricambio il ritiro garantito (del vecchio copertone) solo in cambio dell’acquisto presso i propri magazzini di un nuovo pneumatico.
Leggi anche: Il regolamento ecodesign potrebbe mutare il ruolo dei sistemi EPR riguardo la prevenzione
EPR, concorrenza, mercati paralleli
La responsabilità estesa del produttore assegna ai produttori inediti compiti di gestione del fine vita dei prodotti immessi nel mercato, assegnandogli un protagonismo in un settore prima sconosciuto, ovvero quello dei rifiuti. Protagonismo che può essere un valore se gestito nell’interesse dell’intera filiera, consentendo a chi ha le competenze (i produttori) di incanalare gli scarti verso compatibili ed efficienti forme di recupero all’interno di logiche di mercato aperto, anche se questo protagonismo si porta dietro l’ombra di poter servire per aggirare la concorrenza degli altri operatori del riciclo, cioè di quelli esterni ai circuiti EPR. Va quindi scongiurato il rischio, paradossale, che si creino dei mercati protetti proprio dalle regole EPR – annullando nella realtà quel principio di concorrenza che si profetizza in astratto –, rischio aggravato dal fatto che a finanziarli sarebbero risorse pubbliche, cioè i soldi sborsati dai cittadini-consumatori.
Non a caso anche l’OCSE nel suo recentissimo documento “Extended Producer Responsibility: Basic Facts and Key Principles” chiede una definizione chiara delle responsabilità dei produttori, in grado di garantire trasparenza e parità di accesso al mercato per tutti gli operatori.
Un altro dei rischi da evitare è che la costruzione di un mercato regolato dai meccanismi dell’EPR generi, specularmente, la sua nemesi nella nascita di mercati paralleli, dove il mancato rispetto delle regole diventa strategia di penetrazione economica e di concorrenza sleale. Se, infatti, le regole previste per l’esercizio della responsabilità estesa possono essere facilmente aggirate o quanto meno addomesticate, oppure se accanto ai consorzi o gestori collettivi operano in maniera parassitaria soggetti privati estranei ai circuiti EPR si aprono nuovi e inediti varchi a beneficio della concorrenza sleale e del mercato nero, come accade puntualmente nel caso dei RAEE. Considerato che, in quest’ultimo caso, i gestori collettivi riescono a intercettare solo una parte dei rifiuti in circolazione, mentre la fetta maggiore finisce ancora per essere inghiottita dai circuiti informali/illegali che possono godere del fatto di operare in un mercato libero, cioè dove i rifiuti possono essere gestiti da chiunque, nonostante il contributo ambientale lo incassino solo i produttori. Una giungla dove regna la legge del più forte, anzi del più scaltro a incassare il valore e lasciare agli altri il resto. Ma è davvero questo il senso della concorrenza nel caso degli schemi di EPR?
Fin qui solo alcuni spunti di riflessione per chiedere al legislatore che si facciano delle scelte di governance coerenti con un modello finanziato da fondi pubblici. Evitando, in primo luogo, che i rifiuti vengano cannibalizzati da operatori border line o completamente illegali, quindi che ci siano adeguati controlli e verifiche concrete per evitare di alimentare concorrenza sleale e, ancora peggio, il perpetrarsi di logiche insostenibili, tipiche dell’economia lineare ma in questo caso mascherate di sostenibilità.
Non è certamente virtuoso un sistema in cui i costi gravano sempre sui cittadini mentre i ricavi vengono contesi anche tra chi non fa parte di alcuna filiera operante sotto gli occhi delle autorità di controllo, né persegue logiche di trasparenza e sostenibilità.
L’economia circolare, dunque, andrebbe finanziata e sostenuta nei modi appropriati, ossia con i numerosi ed efficaci strumenti economici e fiscali a disposizione dei policy maker, attraverso scelte politiche assunte nell’ambito delle regole democratiche (da governi sorretti da maggioranze parlamentari, frutto del voto popolare come sancito dalla nostra Costituzione), non certo con gli schemi di EPR gestiti in piena autonomia da soggetti privati, che dovrebbero costituire solo una premessa (uno strumento, non un fine in sé), sebbene ben congeniata, nella corsa a ostacoli verso la transizione ecologica.
Leggi anche: È la responsabilità estesa (del produttore) la risposta alla domanda, forse crescente, di prodotti più sostenibili?
© Riproduzione riservata



