Prosegue il viaggio di EconomiaCircolare.com per capire meglio la normativa sulla responsabilità estesa del produttore (EPR) per i prodotti tessili. Federico Magalini da oltre 20 anni svolge attività di ricerca e consulenza sulla gestione di diverse tipologie di rifiuti, ha lavorato su numerosi progetti con agenzie delle Nazioni Unite, Commissione Europea e aziende multinazionali. Oggi coordina i progetti di Circular Economy per dss+ e svolge anche consulenze per diversi consorzi italiani ed esteri.
Che ne pensa del fatto che i legislatori europei abbiano deciso che “i prodotti tessili usati raccolti separatamente sono considerati rifiuti al momento della raccolta”?
Gestire gli ‘oggetti’, chiamiamoli oggetti per praticità, come ‘non rifiuto’, ovviamente semplifica le cose, perché i soggetti che li gestiscono non devono avere particolari autorizzazioni. D’altro canto, si possono anche gestire gli stessi oggetti come rifiuti, ad esempio con un’operazione di preparazione per riutilizzo, che rientra appunto nell’attività di trattamento dei rifiuti. Quindi non vuol dire che se si ha a che fare con dei rifiuti non si possono fare le cose, semplicemente vanno fatte su una base diversa.
Il tema è: abbiamo infrastrutture sufficienti? Abbiamo a sufficienza soggetti che possono farlo? Perché chi oggi fa quell’operazione magari ha un certo tipo di autorizzazione e segue un certo tipo di procedura. Se deve cambiare tutto per iniziare a gestire un rifiuto, in Italia può diventare un po’ una corsa ad ostacoli. Ma mi sembra anche che qui Italia ci sia sempre il preconcetto verso la gestione dei rifiuti, un po’ per cercare delle scorciatoie. Non si può continuare ad associare la gestione dei rifiuti ad una estrema complessità organizzativa contrapposta alla semplicità della gestione di quello che rifiuto non è.
Soprattutto nel mondo del tessile c’è una serie di attività che mancano nel caso di altri flussi di rifiuti: penso al riutilizzo, al second hand, al pre-loved fashion. E ovviamente, chi oggi vive di queste attività senza dover gestire rifiuti non vuole complicazioni o rallentamenti. Quindi credo vada fatta una riflessione, anche a livello ministeriale. Andrebbe avviata un’analisi su quali sono i flussi oggi presenti per quel tipo di oggetto che arriva a fine vita (continuo a chiamarlo ‘oggetto’) andando poi a mappare le principali filiere. Per appurare quello che oggi viene gestito come rifiuto e quello che invece viene gestito come ‘non rifiuto’. Da qui si potrà poi fare una riflessione seria sul fatto se sia opportuno o meno portare queste attività all’interno del perimetro della gestione rifiuti.
Non dimentichiamo che storicamente nel mondo del tessile/abbigliamento quello che viene gestito post consumo prende la via del seconda mano e viene rivenduto. Oggi non si cerca la valorizzazione del materiale, delle fibre di cui l’oggetto è fatto, cioè quella che chiamiamo la filiera vera e propria del rifiuto e del recupero di materia.
Dobbiamo riflettere sul fatto che oggi ci sono alcuni flussi che possono essere gestiti in modo corretto, ed eventualmente anche senza un contributo economico dal produttore. Flussi che tendenzialmente vengono gestiti come non rifiuto. E poi ci sono altri flussi che invece dovranno necessariamente essere gestiti come rifiuti. E le cose possono anche andare insieme. Però serve una riflessione. E se alcune attività gestite come ‘non rifiuto’ dovranno passare nel campo del ‘rifiuto’ saranno sicuramente necessari anche un accompagnamento e una semplificazione: perché sicuramente i soggetti non sono pronti a cambiare dall’oggi al domani. L’ultima delle cose che probabilmente tutti vogliamo è che dall’oggi al domani un intero settore che oggi gestisce in Italia 140, 150, 200 mila tonnellate di ‘oggetti’ si ritrovi fuori legge. Poi nella filiera del tessile da anni si ragiona sul fare emergere tutti quegli operatori, anche molto piccoli, che sono in una zona grigia: se tutto dovesse essere trattato come rifiuti sarà complicato farli emergere.
A differenza di altre normative, nel caso dell’EPR per i prodotti tessili le microimprese sono incluse. Secondo lei è una scelta giusta o potrebbe creare di problemi?
Credo non sia corretto che chi ha un’attività commerciale di piccole dimensioni sia esentato da alcune responsabilità. Proviamo ad immaginare cosa succederebbe se una grande azienda, anche una multinazionale, facesse uno spezzatino delle proprie attività: nessuno avrebbe più alcuna responsabilità.
La vera questione è che a volte la compliance con un requisito normativo diventa un onere amministrativo sproporzionato per una microimpresa rispetto ad un’impresa più strutturata. Per cui il punto non è l’esenzione, ma la semplificazione per le microimprese.
Se guardiamo tutti i requisiti del decreto italiano, ad esempio, non possiamo immaginare che una microimpresa faccia l’ecodesign: si tratta tipicamente di soggetti che importano e rivendono, quindi la loro azione è limitata. Oppure non ci si può aspettare che facciano la mappatura della supply chain sui 100 chilogrammi di abiti che importano.
Quello che ci interessa è che per quei 100 kg di vestiti immessi al consumo in Italia ci sia qualcuno che abbia pagato il contributo. Quello che non vogliamo è che un milione di microimprese che mettono sul mercato 100 kg ciascuna portino a 100.000 tonnellate di abiti per cui nessuno ha pagato per una corretta gestione del fine vita.
Quindi assolutamente sì, credo sia giusto che le microimprese diano il loro contributo. Ma è ancora più giusto, ancora più importante, che nel dare il loro contributo non siano soggette allo stesso onere amministrativo che dovrà assolvere un’impresa più grande e strutturata.
Lo strumento legislativo scelto in Europa è la direttiva: secondo lei verrà garantita una sufficiente omogeneità tra i Paesi? Oppure vede all’orizzonte dei problemi?
Ne vedo, sì. Il problema è che viviamo in una condizione politica in cui gli Stati membri fanno fatica a concedere autonomia al legislatore europeo. Questo però è un problema per le imprese: la frammentazione delle norme è un problema. Ma purtroppo non c’è da parte degli Stati la necessaria lungimiranza.
Nel testo europeo non sono indicati obiettivi: questo può essere un limite?
Credo abbia sempre senso avere un obiettivo: dà modo di misurare il proprio posizionamento, i progressi. Quando a quelli che troviamo nella bozza di decreto italiano, se guardiamo ai tassi di raccolta – 15% al 2026, 25% al 2030, 40% al 2035 – non sono così sfidanti.
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A differenza di altri schemi EPR, l’Europa non prevede in questo caso la possibilità per i produttori di adempiere agli obblighi singolarmente, ma impone l’adesione ad una Producer Responsibility Organization. Condivide la scelta?
Questa è una scelta che mi trova favorevole da sempre. Indubbiamente ci sono alcune aziende che hanno programmi di raccolta individuali, ma se andiamo all’origine del concetto di responsabilità estesa del produttore troviamo una sorta di principio di sussidiarietà. Un’azienda ha una quota di mercato importante e con l’EPR contribuisce a gestire una parte di tutti i rifiuti, non soltanto dei propri. Anche quando l’azienda ha un proprio programma individuale di raccolta non raccoglie mai tutti i rifiuti derivanti dai propri prodotti. Per cui io sono favorevole al fatto che la compliance sia sempre collettiva, anche perché sappiamo che l’efficacia di un sistema collettivo è comunque sempre maggiore rispetto a quello individuale. Che a volte è un escamotage per evitare la propria responsabilità.
Sono quindi favorevole. Ma credo anche che – e questo manca nei sistemi attuali – sarebbe giustissimo trovare il modo di scontare l’attività che alcune aziende fanno individualmente rispetto al loro target collettivo. Quindi compliance collettiva con la possibilità, per chi ha attività individuale, di tenerne conto.
L’eco-contributo dovrà essere versato nei Paesi dove si presume che il bene del produttore diventerà rifiuto. Non potrebbe essere una scelta complessa da mettere in pratica?
Questa decisione tiene conto del fatto che oggi le supply chain, soprattutto per questo tipi di prodotti, hanno magazzini centralizzati che svolgono la funzione di hub per un certo numero di Paesi. Non credo obiettivamente che sposti volumi esorbitanti di denaro, però la scelta europea è concettualmente corretta, soprattutto se parliamo di grossi magazzini. Ovviamente non stiamo parlando delle vendite al duty free.
Quindi secondo me ha senso, e non penso sia difficilissimo trovare dei sistemi per tracciare questi flussi.
Le novità introdotte dalla Direttiva prevedono anche l’eco-modulazione del contributo: i produttori pagano di più per i beni più difficili da riciclare e gestire. Condivide?
Non sono mai stato un supporter dell’eco-modulazione del contributo. L’eco-modulazione è stata reintrodotta ormai quasi dieci anni fa per cercare di ricreare in incentivo per i produttori dal punto di vista del design. Non dobbiamo infatti dimenticare che questo incentivo esisteva, è uno degli obiettivi per cui era nato il concetto di responsabilità di estesa del produttore. Ne parlava anche Thomas Lindquist, considerato il padre dell’EPR, nell’intervista contenuta in un rapporto che abbiamo realizzato lo scorso anno (per ERION): anche lui diceva che l’eco-modulazione non funziona.
Il concetto di responsabilità estesa del produttore è di fatto un principio che cerca di trovare una risposta economica e organizzativa alla gestione dei rifiuti. Gestione asincrona rispetto all’evoluzione della produzione e del design, per cui il rifiuto è spostato in avanti di 5, 10, 20 anni rispetto alla produzione. È impensabile che qualcuno utilizzi l’eco-modulazione come forma di incentivo per cambiare il design oggi.
Abbiamo condotto alcuni test e studi nel mondo dell’elettronica mostrando come di fatto non esista un incentivo economico giustificabile con differenze nei costi di trattamento tali da spingere il produttore a cambiare il design dei prodotti. È certamente indubbio che prodotti diversi abbiamo costi di trattamento diversi. Ma il concetto di eco-modulazione, guardiamo come è applicato in Francia o in altri Paesi, è diventato semplicemente un artificio per raccogliere un pre-determinato ammontare di finanziamenti che servono a coprire i costi operativi annuali, decidendo di spalmare questi costi in modo diverso e per certi versi arbitrario, tra un prodotto A uno B e uno C che appartengono alle stesse categorie di raccolta e trattamento. È chiaro che qualche prodotto potrà avere un costo di trattamento inferiore, ma di fatto questi costi di trattamento non vengono tracciati, gestiti, contabilizzati. Alla fine, quello che conta è raccogliere il budget che serve a coprire i costi annuali. Per cui l’eco-modulazione funziona nel senso che fai pagare di più o di meno per alcuni prodotti, ma si ferma lì, non stimola alcun design change con il solo obiettivo di risparmiare quei pochi centesimi. L’eco-modulazione delle tariffe di riciclaggio è come la modulazione di genere delle tariffe delle discoteche (i ragazzi pagano, le ragazze sono libere): nel migliore dei casi si tratta di una semplice ridistribuzione delle entrate per il club.
Quindi da questo punto di vista penso che sia una complicazione che di fatto non porta al beneficio ambientale atteso. Se vogliamo ottenere quel beneficio ambientale non dobbiamo agire sul fine vita, si deve agire prima.
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Qualche settimana fa Zero Waste Europe ha presentato un report che suggerisce l’idea di arricchire l’EPR con dei sistemi che favoriscano anche riparazione e riuso. Che cosa ne pensa?
Nella gerarchia dei rifiuti ci sono attività ambientalmente preferibili rispetto al recupero di materia: prima ci sono riparazione, estensione della vita utile, prevenzione della produzione dei rifiuti. Quindi tutte le iniziative che vanno in questa direzione vanno sicuramente incentivare. Ma credo che dobbiamo stare attenti a non includere troppe attività nel perimetro di responsabilità del sistema di gestione dei rifiuti.
Mi spiego meglio. Ci sono attività che hanno senso, ma hanno una loro sussistenza economica a prescindere dai sistemi EPR, che invece dobbiamo sempre considerare come strumenti per garantisce copertura economica per il trattamento di attività di gestione rifiuti che altrimenti sarebbero in capo alla collettività.
A proposito di quei beni che non sono ancora rifiuto e possono avere un proprio ciclo economico a prescindere – parliamo delle vendite peer to peer, del vintage, tutte attività che hanno la loro sostenibilità economica – ricordiamo che l’obiettivo primario del sistema EPR è garantire il corretto trattamento a fine vita di quelli che sono rifiuti.
La bozza di decreto predisposto dal ministero dell’Ambiente per introdurre l’EPR per i prodotti tessili in Italia è in linea con le previsioni della Direttiva?
Premetto di non aver fatto una verifica puntuale, ma mi sembra che non ci siano differenze sostanziali. Il decreto italiano ha ad esempio già recepito il fatto che ci siano più sistemi di gestione collettiva della responsabilità, quindi più consorzi; così come il fatto che ci sia un centro di coordinamento.
Presuppone poi anche una forma di concertazione tra i diversi stakeholder: cosa che per certi versi mi stupisce positivamente, ma mi lascia perplesso nel momento in cui chiama in causa l’ARERA. L’ARERA è certamente utile nella sua funzione di regolazione, ma non so quanta cognizione di causa abbia per disquisire sul contributo ambientale fissato da un produttore o da consorzio. Insomma, magari questo ruolo funziona per l’energia, ma non so quanto possa essere funzionale nel caso dei rifiuti tessili.
Il decreto mi lascia perplesso anche quando si dice che il contributo copre non solo i costi di gestione, e va bene, ma è impiegato ad esempio anche per ricerca e sviluppo, per migliorare le tecnologie di produzione: dobbiamo stare attenti che il contributo non diventi un buco nero in cui facciamo entrare di tutto e più. Non dimentichiamoci che è la stessa Direttiva quadro sulla gestione dei rifiuti a richiedere che i contributi ambientali non superino i costi effettivi di trattamento dei rifiuti. Teniamo il focus sul motivo per cui nasce: abbiamo un problema di gestione di rifiuti, cerchiamo di risolvere quello, non di avere un testo in cui proviamo a risolvere tutti i problemi del mondo.
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Il decreto stabilisce dei paletti per la disciplina delle PRO, dei consorzi. È giusto?
Sono favorevolissimo, da sempre. Mettere in piedi e gestire un consorzio non deve essere un’attività di business: benissimo quindi avere un decreto tipo approvato dal ministero.
So che a molti non piacerà, ma secondo me sarebbe anche opportuno stabilire delle soglie minime: non ci può essere un consorzio che gestisce solo due tonnellate di rifiuti all’anno. Non ha senso, perché non può fare il proprio lavoro, non puoi impegnarti a fare audit, a cercare di lavorare con la filiera. Serve un minimo di massa critica. È vero in tutti i settori, non capisco perché non possa essere vero nel mondo dei consorzi: avere un consorzio con un quota di mercato dello 0,3%, ma anche del 2% o del 5%, dal mio punto di vista non ha senso. Rischieremmo di avere una moltitudine di consorzi di cui diventa difficile la coordinazione, molti di quali non gestiranno neanche le operations ma le faranno gestire da un consorzio vicino o ad un general contractor. Allora mi chiedo di fatto cosa siano tali consorzi: un gestore di fondi che trova nel piccolo margine sul contributo del produttore o nell’intermediazione la possibilità di fare business? No, non va bene.
Quindi mi spingo a dire che è necessaria una quota minima di mercato, almeno a doppia cifra: e questo non significa limitare la competizione, significa semplicemente accettare il fatto che la competizione deve essere sana, tra soggetti che hanno gli stessi obiettivi e lo stesso impegno nel controllo della filiera; e sappiamo questo non sussiste allo stesso modo tra chi ha una quota di mercato superiore al 50% rispetto a chi ha una quota dell’1%.
Nel decreto, secondo lei, è sufficientemente chiara la distinzione tra prodotti per il second hand e prodotti per il riciclo/smaltimento?
Ci sono alcune parti del decreto che cercano di chiarire questo rapporto. Ma come tutte le cose si impara strada facendo: bene iniziare a disciplinare, probabilmente dopo 1, 2, 3 anni di operatività ci renderemo conto di cosa funzionava e di cosa non funzionava, e sarà giusto fare un pit stop, un revamping, se da parte del Ministero e degli attori della filiera c’è questa disponibilità. Non mi aspetto mai che un decreto sia perfetto così come è, alla data di pubblicazione. Se pensiamo alla nascita del sistema RAEE, il primo esempio di sistema multi-consortile, la concertazione tra le parti ha portato a cambiamenti condivisi delle regole operative ogni sei mesi nei primi anni di attività.
Oggi il tessile di fatto funziona per quella fascia di rifiuti che è suscettibile di preparazione per il riutilizzo: ma immaginare un decreto sulla base di quel tipo di attività è sbagliato, perché la stragrande maggioranza di rifiuti tessili oggi non segue quella via. Se oggi in Italia gestiamo 150.000-200.000 tonnellate di rifiuti tessili, stiamo gestendo meno del 20% del rifiuto coperto dall’ambito di applicazione del decreto. Per cui disegnare un sistema sull’esperienza di tutte quelle società, di quelle aziende che oggi gestiscono – benissimo – quella quota è sbagliato, perché si perde tutto quello che oggi non viene gestito.
La soddisfano le norme sul coinvolgimento delle piattaforme di e-commerce?
Direi di sì, anche se mi sarei aspettato un richiamo diretto a quanto è stato approvato nel mondo dei RAEE. Però bene, è giusto dare la possibilità ai soggetti del mondo e-commerce di fare un po’ da gateway, di essere compliant on behalf: penso soprattutto ai soggetti piccoli. Come dicevo, l’essere compliant con la legge non dovrebbe essere una corsa ad ostacoli, soprattutto per le piccole aziende, soprattutto per le aziende che fanno trading verso l’Italia: sappiamo bene come sia difficile interfacciarsi con la pubblica amministrazione senza parlare l’italiano, ad esempio.
Il ministero chiarisce sufficientemente come dovrà avvenire il coordinamento tra le raccolte previste e gestite dagli schemi collettivi e la raccolta da parte dei gestori del servizio urbano?
Oggi abbiamo un sistema, un’infrastruttura per la raccolta che è stata messa a punto per gestire un certo volume di flussi, quindi quelle 150.000, 200.000 tonnellate all’anno che hanno una certa destinazione. Ma di fatto oggi non abbiamo raccolta nei negozi, cosa che invece avremmo. Per questo credo che sia importante prevedere che a regime la raccolta sarà fatta su una base molto più ampia, in cui una buona fetta dei nuovi centri di raccolta saranno luoghi che oggi non lo sono. Nel decreto si fa molta attenzione, anche dal punto di vista delle parole, ai sistemi di raccolta comunali: quei soggetti che già oggi fanno parte della raccolta. Ma non c’è la stessa attenzione ad esempio per negozianti e distributori. Il rischio è che si pensi che tutti i flussi transitino attraverso le infrastrutture che già conosciamo, cose che secondo me non sarà.
Quindi forse questo coordinamento tra i due flussi dovrebbe essere chiarito. Ma, ripeto, non mi aspetto che questo avvenga con questa bozza di decreto, piuttosto mi aspetto che venga chiarito durante i primi anni di operatività. Ma è chiaro che si dovrà dare la possibilità a questi stakeholders di cambiare le regole del gioco.
Un passaggio mi lascia però perplesso. Un paragrafo dell’articolo 14 dice che tutti gli stakeholders devono stabilire attraverso accordi di programma le condizioni economiche per la gestione dei rifiuti gestiti dai produttori. Mi sembra un po’ l’assalto alla diligenza: io raccolgo questo rifiuto, so che questo rifiuto ha un valore, prima di darlo a te, sistema collettivo dei produttori, ci dobbiamo mettere d’accordo su quanto mi pagherai. Attenzione, stiamo parlando di creare un sistema per gestire più di un milione di tonnellate di rifiuti: se immaginiamo di contrattare a quanto vendere il rifiuto raccolto dai produttori stiamo generando inefficienze economiche nel sistema. E queste inefficienze economiche di fatto le pagano i consumatori. Temo uno scenario in cui ci sono infrastrutture della raccolta che da sempre, per varie ragioni, sono in deficit economico e vedono nella possibilità di gestire questo flusso di rifiuti un modo di fare cassa alle spalle del produttore e del consumatore.
Di nuovo, non è compito dei produttori investire per finanziare la creazione di infrastrutture per la raccolta urbana. Avremmo di fatto una tassa occulta. E per certi versi iniqua, perché i prodotti di alta gamma sono meno penalizzati rispetto a quelli di bassa gamma: se il contributo pagato per l’immesso sul mercato (in peso) di una t-shirt di alta gamma venduta a 500 euro fosse pari ad 1 euro, è chiaro che l’incidenza per il consumatore finale è ben diversa rispetto alla T-shirt da 10 euro di un grande magazzino. Questo significa che contributi resi in modo non necessario elevati per coprire una serie sempre maggiori di costi, pongono anche un tema di accessibilità ai prodotti per fasce di popolazioni meno abbienti.
L’efficienza economica del sistema ha quindi anche una valenza sociale. Lo abbiamo toccato da vicino lavorando in Africa con il settore solare Off-Grid, che fornisce accesso all’energia a popolazioni che vivono con qualche dollaro al giorno: l’incidenza del costo di corretta gestione del prodotto a fine vita non può rendere il prodotto non accessibile!
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Cosa pensa delle norme che riguardano la fast fashion?
Credo sia citata una volta sola nel decreto. Io sarei molto più talebano ed intransigente da questo punto di vista: secondo me non ha ragione d’essere il fatto che possano essere immessi sul mercato prodotti destinati quasi al single use. Mi rendo conto che non possiamo vietare di default certi prodotti presenti su alcune piattaforme per il fashion low-cost, però su questo tema bisognerebbe fare una riflessione: la produzione di tali beni ha impatti ambientali e sociali importanti e la facilità con cui noi consumatori a volte ne stimoliamo o perlomeno legittimiamo la domanda dovrebbe far riflettere.
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