giovedì, Novembre 6, 2025

Nel 1989 l’industria della carne conosceva il suo impatto ambientale e ha fatto di tutto per nasconderlo

Uno studio fa emergere la consapevolezza dell’industria della carne dei propri danni sul clima. E il perseguimento di iniziative di disinformazione per screditare le ricerche che ne mettevano in luce le responsabilità

Lorenzo Bertolesi
Lorenzo Bertolesi
Autore e attivista con base a Milano. Ha una laurea in filosofia con una tesi (vincitrice di una borsa di studio) nell'ambito "Human-animals studies". Lavora nella comunicazione digitale da anni, principalmente per diverse ONG come ufficio stampa, copywriter e occupandosi della gestione dei social. Ora è un freelance che, insieme al collettivo Biquette, si occupa di comunicazione digitale per progetti ad impatto sociale. Addicted di Guinness e concerti (soprattutto punk), nel tempo libero viaggia con il suo furgoncino hippie camperizzato insieme alla cagnolina Polly

Per chi studia e indaga le tecniche di greenwashing e manipolazione dell’opinione pubblica delle grandi industrie – come il tabacco, il petrolio e ora anche la carne – ci sono cose che ritornano come un copione già scritto.

Ricordo ancora quando su Science era uscito uno studio che mostrava come, attraverso l’analisi dei documenti del gigante petrolfero Exxon, l’azienda era a conoscenza degli effetti dannosi sul clima causati dai combustibili fossili già negli anni 70. Cioè Exxon aveva commissionato uno studio per valutare l’impatto ambientale della loro industria e la scienza aveva dato una risposta – confermata oggi. I grafici interni fatti nello studio di Exxon mostrano come quest’azienda non solo “sapeva”, ma aveva dati precisi che per anni ha quindi nascosto e ignorato. Danneggiando quindi tutte e tutti noi, continuando a bruciare combustibili fossili solo per profitto.

Bene, ci risiamo. Perché un nuovo studio, realizzato dalla professoressa Jennifer Jacquet dell’Università di Miami, ci fa vedere come anche nell’industria della carne è successo qualcosa di molto simile: in breve, erano a conoscenza del loro impatto (devastante) sull’ambiente già nel 1989, ma hanno fatto di tutto per nasconderlo e creare disinformazione, così da non ridurre il consumo di carne. E questo non stupisce, dato che questa industria ha fatto sue tutte le strategie di disinformazione usate dalle Big Oil.

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Allevamenti intensivi, crisi climatica e consumo di carne: cos’è successo nel 1989

Nel 2006 la FAO pubblicò il report “Livestock’s Long Shadow”, considerato il primo documento che indicò gli allevamenti come direttamente responsabili del 18% delle emissioni di gas serra emesse dagli umani. Ma questo report in realtà non fu davvero il primo in assoluto.

Per capire meglio cosa ha fatto l’industria della carne, infatti, è bene fare un passo indietro nel 1989, negli Stati Uniti. L’inizio di questa storia è legato alla pubblicazione di un altro report. In questo anno infatti l’EPA (l’agenzia per la protezione ambientale degli USA) aveva pubblicato un rapporto dettagliato che mostrava il preoccupante ruolo degli allevamenti di bestiame nelle emissioni di metano e, quindi, nell’accelerare la crisi climatica – mi preoccupa che già circa 35 anni fa questa cosa era dimostrata, ma ancora oggi c’è chi minimizza. Si tratta di uno dei primi documenti che rivela il peso ambientale del consumo di carne.

E quello che questo rapporto mostrava, in estrema sintesi, era che la produzione di carne – soprattutto da animali ruminanti – era uno dei settori principali per inquinamento da metano. E sempre secondo il report una riduzione delle emissioni di metano del 25%-75% da parte del settore del bestiame avrebbe avuto un impatto positivo significativo sul rallentamento della crisi climatica. Il report dava alcuni suggerimenti su come l’industria potesse agire per ridurre questo inquinamento – ottimizzare la produzione, usare dei mangimi specifici oppure gestire in modo più efficiente il metano.

Tra le conseguenze più interessanti che seguirono la pubblicazione di questo report furono alcune campagne di advocacy e di sensibilizzazione mirate a ridurre il consumo di carne, proprio per ridurre gli effetti della crisi climatica.

Lo stesso anno infatti la Greenhouse Crisis Foundation (GCF) lanciò una campagna il cui obiettivo era proprio ridurre il consumo di carne. La campagna, che nel 1992 poi prese il nome Beyond Beef e che chiedeva una riduzione del 50% del consumo di carne bovina negli USA, era guidata dall’economista e attivista Jeremy Rifkin, che sempre nel 1992 aveva pubblicato il libro Ecocidio (il cui titolo originale è “Beyond Beef: The Rise and Fall of the Cattle Culture”). La campagna ebbe il supporto di molte organizzazioni, tra cui anche Greenpeace, e organizzò più di tremila proteste in McDonald’s negli USA. Un’altra campagna fu legata al libro “Diet for a New America” di John Robbins, lanciata dall’organizzazione EarthSave.

 

Allevamenti intensivi finanziamenti clima
L’industria della carne e le sue campagne di disinformazione

Ma è qui che entra in scena un nuovo personaggio di questo storia, l’NCBA (National Cattlemen’s Beef Association), che allora si chiamava NCA. Si tratta di una delle più antiche e importanti organizzazione di categoria degli USA che difendono gli interessi degli allevatori di bestiame e promuovono i benefici del consumo di carne, fondata addirittura nel 1898. Secondo lo studio della professoressa Jacquet questa organizzazione ha avuto un ruolo chiave nel creare disinformazione sul legame tra allevamenti e crisi climatica.

La professoressa, grazie a una ricerca negli archivi, ha scoperto che la NCBA nel 1989 era presente alla presentazione fatta dall’EPA in cui si parlava dell’impatto del metano causato dagli allevamenti. E sempre dai documenti emerge che subito dopo questa presentazione l’NCBA si è riunita e ha scritto un Piano Strategico sull’Ambiente. E purtroppo, il fine non era ridurre le emissioni.

Il piano riconosceva l’impatto ambientale della produzione di carne – ne prendevano atto quindi – ma sottolineava le ricadute negative sui profitti che il legame tra allevamenti e crisi climatica avrebbe potuto avere sull’industria! Per questo nel rapporto la NCBA sottolineava la necessità di assumere un ruolo di leadership nell’influenzare le leggi, di raggiungere politici e media attraverso i loro messaggi (che dovevano esaltare il consumo di carne) e soprattutto monitorare e controbattere alle campagne che sostenevano un “messaggio vegetariano” (cioè, che chiedevano la riduzione del consumo di carne), con particolare attenzione ai gruppi “ambientalisti”. In particolare, l’obiettivo principale era controbattere alla campagna della Greenhouse Crisis Foundation.
Ma non è tutto. L’NCBA iniziò infatti a commissionare studi per dimostrare le “falsità” sia delle campagne ambientaliste sia del report dell’EPA. Il ricercatore F.M. Byers della Texas A&M University fu quindi lautamente pagato per pubblicare un rapporto (1990) che mostrava come no, i bovini non erano una fonte di metano.

Come lo studio della professoressa Jacquet ricostruisce, ci sono varie cose che dimostrano come il piano dell’NCBA ha avuto successo. L’industria lancio una campagna per difendersi dalle accuse dei “radicali ambientalisti” chiamata  “Dont’ Blame Bossie” (bossie è una parola che indica la mucca) elaborata da alcune agenzie di comunicazione. Inoltre la campagna “Beef. It’s What’s for Dinner” per promuovere il consumo di carne bovina con un budget pubblicitario di 42 milioni di dollari. L’obiettivo di questa campagna era semplice: attaccare la campagna Beyond Beef, fatta da persone definite “con il disprezzo della scienza” e “radicali”.

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Una scia che dura ancora oggi

Sempre la professoressa Jacquet ha pubblicato in precedenza un altro articolo che mostra gli sforzi che l’industria degli allevamenti ha fatto, dagli anni 90 al 2023, per affossare le proprie responsabilità, demolendo le campagne per la riduzione del consumo di carne negli USA. Per esempio, sempre l’NCBA, insieme ad altre organizzazioni di categoria, ha di fatto finanziato gli studi di Frank Mithloegner, un ricercatore dell’ Università della California di Davis, per attaccare pubblicamente il rapporto della FAO del 2006. La copertura stampa legata a questo dice chiaramente che certamente possiamo ridurre la nostra produzione di gas serra, ma non consumando meno carne e latte”.

Conferme dell’attività di manipolazione della realtà da parte dell’industria della carne sono tantissime. Di pochi giorni fa è un’altra inchiesta rilasciata su DeSmog che mostra come l’Animal Agriculture Alliance (AAA) – un’altra grande coalizione di aziende del settore della carne – ha organizzato una campagna di attacco contro il celebre rapporto EAT-Lancet del 2019. Spieghiamo meglio: lo studio EAT-Lancet è uno dei più celebri rapporti che suggeriva in modo pionieristico la riduzione del 50% del consumo di carne rossa globale per ridurre le conseguenze della crisi climatica. All’uscita del rapporto una società di PR, la Red Flag, ha lavorato a una campagna di attacco su giornali e sui social media. Lo studio veniva descritto infatti come “radicale” e “ipocrita”. La campagna è stata molto efficace, infatti lo studio è stato travolto da una tempesta mediatica di screditamento, e alcuni autori hanno ricevuto critiche anche personali. L’inchiesta di DeSmog, attraverso l’analisi di alcuni documenti, mostra come questa campagna della Red Flag è stata di fatto sostenuta proprio dall’AAA.

“È necessario contrastare le azioni di disinformazione attuate dall’industria della carne, e in alcuni casi fatte proprie anche da esponenti politici — dichiara Simona Savini, responsabile campagne agricoltura di Greenpeace Italia – I casi dimostrati dalla professoressa Jacquet descrivono una precisa strategia della quale esistono numerosi esempi. Uno di questi è la Dichiarazione di Dublino, che sostiene i benefici del consumo di carne e del mantenimento degli allevamenti intensivi, redatta e promossa da persone con stretti legami con l’industria agroalimentare, con lo scopo di opporsi alle indicazioni scientifiche che suggeriscono una riduzione del consumo di carne per motivi ambientali e sanitari, e ostacolare le politiche europee che potrebbero andare in questa direzione. Anche in Italia l’industria della carne, spesso attraverso la voce delle associazioni di categoria, diffonde falsità, come l’affermazione che la zootecnia italiana sia la più sostenibile a livello globale, mentre gli allevamenti intensivi nel Paese sono responsabili di un significativo inquinamento atmosferico, contribuendo a circa 50.000 morti premature ogni anno a causa delle polveri fini (PM 2,5). La verità è che l’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi, e i rischi sanitari ad esso connessi, possono essere contrastati in modo efficace solo riducendo in modo significativo la produzione e il consumo di carne e trasformando l’attuale modello intensivo in chiave agroecologica. Questa la direzione della nostra proposta di legge Oltre gli allevamenti intensivi, depositata in Parlamento da oltre un anno e in attesa di una discussione, quella sì, basata su dati scientifici”.

Tutte queste informazioni sono un’ulteriore conferma di come l’industria della carne è riuscita – e riesce ancora oggi – ha ridimensionare l’informazione relativa al legame che gli allevamenti hanno con la crisi climatica. In particolare fa paura scoprire che queste operazioni sono iniziate molto tempo fa, negli anni 90 praticamente, è che l’industria sapeva e ha fatto di tutto per continuare a fare profitti – sulle spalle dell’ambiente e della collettività.

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Foto: Canva

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