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lunedì, Dicembre 16, 2024

È davvero possibile abolire i jet dei ricchi? “Dopo la denuncia lavoriamo alle proposte”

“Se diciamo che John Elkann inquina da solo 850 volte in più rispetto alla media italiana, è per raccontare una storia di disuguaglianza ambientale”. Abbiamo intervistato i creatori e le creatrici del fenomeno social dell’account “Jet dei ricchi”, capace di imporre il tema in campagna elettorale. Ecco cosa ci hanno detto

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

Tra qualche anno chi studia comunicazione si ritroverà probabilmente ad analizzare il caso della pagina Instagram “Jet dei ricchi”. In una rapida e scialba campagna elettorale, nonostante gli enormi temi di cui dovrebbero occuparsi i partiti, dai social si è riusciti a imporre un tema alla politica. Altro che agenda Draghi, verrebbe da dire. Con una precisa ed efficace campagna (e, tra l’altro, praticamente da un solo social), un collettivo anonimo di attivisti e attiviste si è dimostrato capace di fare politica su un tema concreto. Perché sollevare il tema dei “jet dei ricchi” ha significato parlare di sostenibilità e impatti ambientali, giustizia sociale e disuguaglianze, difesa dello status quo e costruzione  di un nuovo paradigma.

Un risultato notevole, raggiunto in poco più di tre mesi e per giunta nel mezzo dell’estate. L’account su Instagram, per chi non lo conoscesse, funziona in maniera semplice e diretta: segue gli spostamenti dei velivoli privati italiani (lo fa attraverso il tracker OpenSkyNetwork, che utilizza la tecnologia di tracciamento ADS-B) e calcola le emissioni di CO2 prodotte, incrociano il tempo di volo, il consumo medio di carburante comunicato dalla casa produttrice del velivolo e le emissioni del carburante, il cherosene per l’aviazione, che “vale” 3,06 kg di CO2 per litro.

Se c’è qualcuno che si prende la briga di misurare l’impatto di qualcosa è già di per sé una notizia. Ancor più se questa misurazione apre la riflessione sul mito della crescita infinita e su quella di rivedere i nostri consumi senza fare troppo la differenza tra l’impatto di un aereo privato e magari quello del diesel di chi non può permettersi l’auto elettrica. Per farlo abbiamo scelto di porre qualche domanda “critica” ai creatori e alle creatrici dell’account IG “Jet dei ricchi”, nell’ottica di quel giornalismo costruttivo che caratterizza il nostro approccio alle cose.

Un approccio che troviamo anche in chi cura e gestisce la campagna social: si tratta prevalentemente di persone under 30, che lavorano o hanno lavorato nel mondo dell’impatto ambientale, quindi con una conoscenza diretta delle questioni sollevate. Si dicono vicini alle istanze dei Fridays for Future e di Extincion Rebellion, pur se tengono a specificare di non farne parte. Dietro la garanzia dell’anonimato (“per evitare strumentalizzazioni”) ecco cosa ci hanno detto.

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“A noi interessa parlare di disuguaglianza ambientale”

Da dove nasce l’esigenza di affrontare una questione così specifica come quella dei “jet dei ricchi”?

Pensiamo al fatto che il 10% della popolazione mondiale è responsabile di più della metà delle emissioni di gas serra a livello globale, o ancor di più, che l’1% della popolazione più ricca emette da sola il  15% delle emissioni totali: sono dati impressionanti, riportati dall’ultimo rapporto Oxfam, che però sono difficili da contestualizzare. Quando invece si sceglie un oggetto altamente simbolico come il jet, e si calcola quanto costa alla collettività, in termini di emissioni, ecco che tutto cambia.

Come calcolate le emissioni di ogni jet e di ogni spostamento?

Abbiamo costruito un modello di analisi che abbiamo fatto verificare a fonti terze, per essere sicuri di dire cose vere. Questo per noi era un punto fondamentale. Il nostro è un modello open data, esplicitato sui nostri post in cui spieghiamo da dove prendiamo le dosi di cherosene che inseriamo nei calcoli, le ore di volo, i consumi dei vari modelli di jet. Siamo comunque consapevoli che si tratta di stime. Ci rifacciamo in ogni caso al modello messo in piedi dalla pagina francese “L’Avion de Bernard” (che per prima ha lanciato l’idea di monitorare gli spostamenti aerei privati dei ricchi, nda).

Dall’Italia nessuno finora ha smentito, o sbaglio?

Finora nessuna correzione. Rispetto al modello francese, poi, i nostri calcoli sono più basati sul tempo: capita spesso, infatti, che magari chi usa un jet privato da 7 persone poi ci viaggia in due o tre persone al massimo. Oppure magari in quel volo ci sono persone che, se non gli fosse stata imposta come scelta, non avrebbero mai viaggiato su quel volo. Tanto per fare un esempio, ci possiamo riferire alla tata di Chiara Ferragni, che non è responsabile a nostro avviso delle emissioni prodotte dagli spostamenti della sua titolare.

Perché secondo voi la vostra proposta ha fatto scatenare, da parte dei contrari, reazioni così accese? 

Sappiamo benissimo, e l’abbiamo ribadito più volte, che abolire i jet privati non risolverà da sé la crisi climatica. Però è difficile comprendere questa ostinata resistenza da parte di chi difende uno status symbol di poche decine di persone. Questi sono i numeri: a utilizzare i jet, spesso affittandoli, sono pochissimi, mentre ancora meno, forse una decina di persone, sono coloro che li possiedono. Perché difendere interessi così particolari?

C’è chi, come il presidente della Liguria Giovanni Toti, sostiene che dietro i jet privati c’è un’industria che va salvaguardata, centinaia di persone che ci lavorano, una filiera di eccellenza da preservare. Come rispondete a questa contestazione?

Noi non abbiamo la pretesa di indicare dove bisognerebbe reperire le risorse per consentire di tutelare questa o quella filiera. Però allo stesso tempo non ci vuole un esperto di economia ambientale per capire che la transizione ecologica deve comportare la ristrutturazione di alcuni comparti. Facciamo un esempio pratico: credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che non si debba disboscare l’Amazzonia, allo stesso modo nessuno in Italia sostiene che chi lavora in quell’ambito deve poter continuare a farlo. Poiché ci sono persone che lavorano in qualcosa che comporta danni ambientali, allora necessariamente bisogna difenderle?

Quanto però è davvero realizzabile l’abolizione dei jet dei ricchi, in un Parlamento da tempo esautorato, ora pure ridotto, all’interno di un sistema italiano farraginoso e bloccato?

Concordiamo sul fatto che il livello della politica sia davvero basso. L’unica azione degna di nota in questa campagna elettorale, a nostro parere, è l’agenda climatica proposta dai Fridays for Future, perché propone dei punti programmatici e indica i modi per poterli conseguire. E non è un caso che infatti i partiti finora non abbiano ripreso o almeno discusso queste proposte. Anche la nostra campagna ha visto semplicemente una polarizzazione: o a favore dell’abolizione o contro. Senza sviluppare minimamente nessuna delle due proposte.

Vi aspettavate comunque che il tema sollevato diventasse uno dei pochi degni di attenzione della campagna elettorale?

Quando abbiamo lanciato la campagna almeno all’inizio navigavamo a vista, nel senso che abbiamo voluto verificare l’interesse che avrebbe lanciato la nostra iniziativa. Poi dal 24 giugno, il giorno in cui siamo arrivati su Instagram e su Twitter, i followers sono cresciuti di giorno in giorno, fino ad arrivare ai quasi 30mila di oggi. Ora che alcuni partiti come Sinistra Italiana e Verdi hanno sposato la nostra campagna, pensiamo che ci siano ulteriori margini per incidere.

Qual è dunque il prossimo obiettivo, dopo la sensibilizzazione?

La prima fase in effetti per noi è stata “di movimento”, in cui ad attirare l’attenzione sono state le grafiche e i nomi delle persone di cui calcolavamo gli spostamenti. A questa poi è seguita la fase pedagogica, per così dire, in cui spieghiamo perché è importante monitorare i voli e raccontarne significati e impatti. Ora sta per arrivare la terza fase, in cui vogliamo illustrare le politiche da attuare per agire su questo fenomeno. A breve pubblicheremo una serie di proposte argomentate, messe in campo da noi o da altri ricercatori e ricercatrici non solo in Italia, per andare al di là dello slogan “abolire i jet dei ricchi” e analizzare come si può ridurre e regolamentare l’impatto ambientale dei voli privati. Non vediamo perché sull’energia e sui trasporti tantissimi ambiti siano legiferati e non si possa fare lo stesso con un aspetto così specifico come quello dei jet.

L’esito più realista o più pessimista della campagna per l’abolizione dei jet privati, a seconda dei punti di vista, potrebbe essere l’attenuazione dell’ostentazione, come già sembra stiano facendo, ad esempio, Chiara Ferragni e Fedez. Lo vedete come un rischio concreto?

Sì questo rischio c’è. Chiariamo una cosa: a noi delle persone non interessa granché. Se li tagghiamo e ne raccontiamo gli sprechi è perché ci interessa partire dall’impatto mediatico che queste persone hanno per analizzare un tema molto più ampio che è la disuguaglianza ambientale, che poi è quello che ci interessa davvero raccontare. A noi interessa raccontare che ci sono persone come John Elkann che inquinano 850 volte in più rispetto alla media italiana. Però vorremmo che fosse chiaro: a prescindere dalle singole persone, per noi è importante ribadire che gli obiettivi di riduzione dei gas serra, presi alla Cop21 di Parigi e ribaditi alla Cop26 di Glasgow, indicano una serie di impegni e di azioni da intraprendere. Perché non cominciare da ciò che è inutile e dannoso? La crisi climatica impone scelte radicali e importanti, e partire dall’eliminazione del superfluo non ci sembra una cosa così utopistica, è quello che fa ogni famiglia quando deve tirare la cinghia.

Leggi anche: lo Speciale sulla Cop26

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